Ai sensi della Legge 7 marzo 2001 n°62, si dichiara che Culture Teatrali non rientra nella categoria di "informazione periodica" in quanto viene aggiornato ad intervalli non regolari.ng

 

Focus on
Mariangela Gualtieri ci (s)guarda dal Ponte

Sullo spettacolo Per voce e ombra del Teatro Valdoca



[M. P.] Fabrizio Cruciani, a proposito dello spazio scenico del teatro Nô racconta di un ponte, con in fondo un sipario, che collega una stanza-camerino non visibile al pubblico, in cui l’attore si prepara, e il palcoscenico. Per l’attore che attraversa il ponte, Cruciani parla di “passaggio tra umano e sovrumano, un non essere più uomo e non essere ancora personaggio”. Questa immagine torna in mente, ma ribaltata, al termine dello spettacolo Per voce e ombra del Teatro Valdoca, visto il 28 febbraio 2012 nell’ambito della rassegna “Sguardi sul teatro contemporaneo”, presso il teatro Diego Fabbri di Forlì, rassegna che include, oltre a questo spettacolo, i lavori di altre tre compagnie romagnole (Rumore di acque del Teatro delle Albe, The dead – secondo shoot di Città di Ebla, e Pentesilea di Masque Teatro), realtà  che rappresentano una punta avanzata delle ricerca nazionale e internazionale e che qui arricchiscono una stagione di prosa molto istituzionale e fin troppo convenzionale.
Per voce e ombra
, diretto da Cesare Ronconi, è un evento figlio dello spettacolo Caino e si inserisce in una modalità produttiva abbastanza consueta per la compagnia cesenate: affiancare a una produzione grande, altre apparizioni più piccole, partendo però dalle stesse suggestioni, e spesso dallo stesso testo, che sta alla base dell’opera-madre. In questo processo di semplificazione – scelta in parte poetica, in parte condizionata dal mercato – parola e suono si fondono, a creare un asciutto concerto teatrale. Quella del concerto teatrale è una strada spesso battuta, in tempi recenti, da vari esponenti del nuovo teatro contemporaneo di qualità: per restare in Romagna, si pensi, ad esempio, ai lavori di Chiara Guidi della Socìetas Raffaello Sanzio e a L’isola di Alcina del Teatro delle Albe. Nel caso di Per voce e ombra, l’incontro è fra le voci di Mariangela Gualtieri e Leonardo Delogu, giovane attore già interprete degli ultimi spettacoli della compagnia, e le percussioni di Enrico Malatesta. A completare il cast, anche se non in scena, è il fonico Luca Fusconi, precisazione necessaria, per un lavoro che fa del mettere in evidenza l’apparato tecnico (proiettori a vista, aste dei microfoni in primo piano) una delle sue cifre: forse l’intento è un distanziamento, brechtianamente inteso, certamente è uno degli elementi della scrittura scenica.

Leggi tutto...
 
La palestra sentimentale di Pathosformel



[Carolina Ciccarelli]

In una palestra illuminata solo dalla luce che penetra prepotente dalle porte aperte alla destra di un canestro, un uomo si allena. Sembra che lo stia facendo da molte ore oramai e che la determinazione stia lasciando il posto alla stanchezza.
Palleggia, stoppa la palla, la poggia a terra, beve dell'acqua, elimina avversari immaginari, si asciuga la fronte dal sudore, accende uno stereo portatile, una vecchia canzone d'amore tedesca si diffonde nell’aria. Presentato sabato 25 febbraio da Xing all'interno di Sporting, un progetto che mira a ricollocare “l'arte della scena nei luoghi della preparazione atletica e del gioco”, An Afternoon Love dei Pathosformel, ovvero la formazione di Daniel Blanga Gubbay e Paola Villani sostenuta oramai da anni nella sua produzione da Centrale FIES all'interno di Fies Factory, pur intervenendo in maniera mimal sulla location della Palestra di Via Ca' Selvatica, impermea tuttavia il luogo di una certa rigidità. Le ombre ricreate dal cestista che sembra danzare armoniosamente con la palla sono tagliate dal rigore della luce che, dritta, penetra dalla stanza accanto dove, forse, c'è lo spogliatoio o, forse, il mondo reale, quello dove i tiri a canestro non escono così bene, mentre la musica di sottofondo, cantata da una voce femminile aspra e decisa, richiama alla mente una certa atmosfera dittatoriale degli anni trenta – quaranta, in ogni caso di un secolo già lontano. Il rumore della palla che sbatte sul pavimento sembra accompagnarne la secchezza dell'andamento e del tono di quella voce. È la rigidità della formazione – atletica, ma non solo– che prepara il corpo ad essere capace di successo. L'essenzialità della passione si mischia alla durezza dell'allenamento, che richiede fatica, tanta, al fine di migliorare la propria tecnica. È il gioco della vita ed è il gioco delle relazioni umane: nessuna buona riuscita senza impegno. Non si può essere bravi giocatori senza un costante esercizio e una totale abnegazione di fronte ad esso. La palla non può rimbalzare da sola, deve essere sospinta, lanciata, accompagnata fino alla fine, fino al punto della vittoria. Per questo, la si difende dagli avversari. Per questo la si desidera ardentemente. Il fatto che bisogna saperla maneggiare si unisce alla brama di saperlo fare in modo unico e impareggiabile, degno di confronto e di vittoria su tutti gli altri.
Joseph Kusendila, l’interprete di An afternoon love, non è un attore ma un giocatore professionista. Non si fa simbolo all'interno di una metafora, ma vive, in questa cornice rappresentativa, la sua condizione quotidiana. Lui sa la solitudine dell'atleta. Conosce lo sforzo teso al raggiungimento della perfezione. La dedizione nei confronti di un oggetto. La palla come compagna di una vita a cui è necessario dedicarsi costantemente e, sempre, intensamente. I cali di attenzione o di interesse non sono perdonati. Seduti uno al fianco dell’altra, il giocatore e la palla contemplano il canestro come la loro meta, il fine ultimo di ogni loro azione, come due innamorati, con gli occhi affissi sull'orizzonte, che pensano al futuro.
La loro è una storia d'amore e richiede – e in questo lo spettacolo, sì, che si fa metafora – le stesse attenzioni e gli stessi obblighi di una relazione umana vera, di qualsiasi genere essa sia.
Un immaginario suggestivo che non si nasconde dietro la banalità dell'allenamento del giocatore, ma che apre squarci chiari e imprevisti proprio laddove la performance – ma forse è inadatto chiamarla così - si rivela immediatamente per quella che è, cedendo subito alla ripetitività del gesto che sembra dilatare il tempo, privando lo spettatore della speranza di uno sviluppo ulteriore che lo faccia uscire, per un attimo, da una palestra in cui si sta svolgendo un puro allenamento.

Leggi tutto...
 
IL FAVOLOSO MONDO DI UBU



Roberto Latini e un’occasione chiamata Alfred Jarry
Intervista a cura di Silvia Mei

Roberto Latini non interpreta, conduce il personaggio. Roberto Latini non fa spettacoli, convoca spettatori. Roberto Latini non fa il regista, avanza proposte sceniche. Roberto Latini fornisce indizi, non presume.
Dopo il debutto pratese al Fabbricone di Prato, in coproduzione col Teatro Metastasio Stabile della Toscana, la versione féerique del suo Ubu Roi arriva a Ravenna (28 febbraio) nell’ambito delle proposte di Nobodaddy al Teatro Rasi, per proseguire a Modena (Teatro Storchi, 1-3 marzo) e a Roma (Teatro India, 21-25 marzo).
Ma a Ravenna l’appuntamento raddoppia con la presentazione congiunta del volume Io sono un’attrice. I teatri di Roberto Latini (Editoria&Spettacolo, Roma 2009), a cura di Katia Ippaso, che presenzierà all’incontro. Una raccolta ragionata di materiali di lavoro - dai diari (redatti dalla curatrice nel corso del suo affiancamento) ai “testi”, vere e proprie scritture oltre la scena -, corredata da tre densi dialoghi e cinque interventi critici (A. Audino, K. Ippaso, A. Ottai, P. Quarenghi, P. Ruffini) sulle proposte sceniche di Roberto Latini/Fortebraccio Teatro relativi, in special modo, al programma Radiovisioni (inaugurato da Buio Re nel 2003 e terminato nel 2009 con Desdemona e Otello sono morti).
L’arte di Latini - il titolo del volume è una sua affermazione, al limite dell’assertività esistenziale – è contro la fiera maschiezza dell’attore d’antan. Latini parla del femminile (e non dell’essere donna, che è altra cosa) come di un’Anima che si fa emergente: il femminile allora non pertiene ad un genere, non è una tonalità o un atteggiamento, bensì un impulso su base organica, come osserva per l’appunto Valère Novarina in All’attore, pertinentemente contestualizzato dalla curatrice Katia Ippaso: “Tutti i grandi attori sono femmine. Per la coscienza estrema che hanno del loro corpo di dentro. Perché sanno che il loro sesso è dentro. Gli attori sono corpi fortemente vaginati, recitano dall’utero; con la loro vagina, col loro fallo […] E gli si vuole impedire di essere femmine e di lavorare d’utero”.
Non è intenzione di Roberto Latini fare originale outing, non rimanda ad un genere di teatro queer, en travesti, omosessuale: riafferma anzi la doppiezza (l’infinità) originaria dell’attore, la sua natura angelica, perché il suo corpo (dell’attore) è un corpo metamorfico, direbbe Kristeva, il corpo della significanza. Latini ribadisce l’identità ibrida e multipla del personaggio, sfonda i confini culturali di genere, rivendica i diritti dell’attore che nell’informe femminile non si crogiola o consola, piuttosto lo ri-genera nello spazio uterino della cavità scenica, fecondandola e fecondandosi attraverso la voce-phoné di beniana memoria. Ci vorrebbe forse Lacan per un caso del genere.
E di questa scena, parca di attrici ma densa di femminilità, come riconosce Latini stesso, ci rende conto in un’intervista, che segue, sulla sua proposta di Ubu Roi. Una passione, quella per Alfred Jarry, che parte da Shakespeare e che a Shakespeare ritorna.

Leggi tutto...
 
Womencaust: il dovere del sacrificio muliebre



[Silvia Mei]

“Indicibilmente vuota. Nessuno più per cui vivere”. Sono le parole sconsolate di Kristine Linde, amica di Nora Hellmer in Una casa di bambola. Parole reversibili anche per un’icona come quella di Antigone, suicida per il fratello insepolto Polinice, o aderenti alla sciagurata sorte di Cassandra, sacerdotessa pervertita dal contrappasso di Apollo che le mette in bocca solo auguri nefasti. Dall’amore fraterno a quello nuziale per desiderio di sacrificio, di affermazione della persona nella proiezione totale con l’altro da sé. Letteratura femminile, dunque? In gioco non c’è più la desueta rivendicazione sessista, lo scandalo della libertà. Si tratta piuttosto di uno sguardo lucido e desolato sul presente e sulla plausibilità di una redenzione futura.


Teatro Girolamo Magnani
Fidenza, 25 gennaio 2012

Antigone, ovvero una strategia del rito, da Sofocle, con Le Belle Bandiere, regia di Elena Bucci con la collaborazione di Marco Sgrosso


È una centaura l’Antigone di Elena Bucci in giacca di pelle nera, decorata da un lungo serico scialle che descrive volute e arabeschi piriformi. Appena traccia la diagonale della sua entrata, in apertura, produce un corto circuito, un time shift siglato dall’afrojazz di Miriam Makeba: è un’Antigone già morta, che rivive la sua storia, ricompie il suo olocausto, appartata, estatica, invasata, rimembrante le isteriche di Charcot: ora bambina, ora donna, ora anima celeste piena di grazia.
“Se è il corpo morto di Polinice a orientare tutto l’orizzonte scenico, - osserva Adriana Cavarero nel denso saggio filosofico su Antigone compreso in Corpo in figure (1996) - è tuttavia un sangue di generazione materna a polarizzare l’azione tragica decidendone il meccanismo. […] È dunque proprio la potenza del sangue a far muovere Antigone, obbligandola nei vincoli di un’identificazione materna che costringe il suo agire a un sacrificio del sé per corrispondere al desiderio di sua madre che si incarna nel morto Polinice”.
Il motivo della consanguineità non è stato un’urgenza critica della messinscena, volta piuttosto a riattivare artigianalmente i dispositivi tragici, la regia tuttavia riporta il motivo della simbiosi materna e della corporeità femminile come sofferenza nell’attestarsi dello stato logocentrico della polis. L’entrata di Antigone-Bucci, di cui sopra, richiama la figura di Giocasta, strozzatasi col proprio scialle, come quello indossato da Antigone, facendo aderire le due figure, di madre e di figlia, che rivendicano la loro autorità e diritto sui corpi.

Leggi tutto...
 
La sindrome di Bogart



Al Magazzino Parallelo di Cesena la confessione di un (ex)duro

[Silvia Mei] In tempi di “celodurismo”, l’icona del macho tronista dalle battute assimilabili all’“Ehi, bambola”, rimescola nelle mutazioni di un oggi dove pantaloni e borsalino non sono più prerogative di genere.
Lo sa bene un galante del set francese come Jean Dujardin, prossimo alla scalata degli Oscar con The Artist, intimato a ritirare i poster del suo ultimo film Les infideles, per pose equivoche e blagues politicamente poco corrette sulla donna come oggetto (sessuale, s’intende).
Matteo Garattoni, performer di assortiti registri traghettato dalla danza al teatro senza soluzione di continuità, recupera tuttavia con grazia la figura retrò di un duro anni Cinquanta, Humphrey Bogart, stimolato da similitudini fisiche e attingendo all’autobiografico: Bogartismo.
La scena da bungalow clandestino in una desolata area industriale del cesenate è uno speciale collante drammaturgico al cabaret poetico – così recita il sottotitolo – traslato dal leggendario, cinematografico Rick’s Café Américain di Casablanca, quell’area franca dove si pizzicavano nazisti francesi e resistenti in fuga sulle note di As time goes by di Herman Hupfeld. Qui, invece, non ci sono cercatori di teste o graduati compiacenti per una bella amicizia, i tempi sono cambiati, e anche la geografia si aggiorna: non più europei in cirenaica ma marocchini e vucumprà nel centro città, che offrono ad un avventore assorto e contemplativo, forse anche ammorbidito da vari cicchetti, e dalla virilità ben esposta, una serie di pretesti per confessare le proprie fragilità e ossessioni (ad esempio la vertigine dei cinquanta modi per ri-qualificare il sesso femminile).
É una questione di stile, prima di tutto, essere maschi: sapersi addobbare di un cappello o vestire un trench non è roba da modelli, bisogna essere in grado di interpretare un ruolo e di saperlo sostenere. Evidente allora quanta autocritica, ironia ed esagerazione grottesca – quel ciarpame da uomo che non deve chiedere mai, che ancora vive il complesso delle dimensioni e del leporello dongiovannesco – riposino nel dramma intimo e nella crisi d’identità maschia che l’artista cesenate con rassegnazione e indolenza constata: “È troppo dura fare il duro”, dichiara allo scoppio di una sigaretta-petardo che gli affumica il cappello, e nostalgicamente reclama la canzone del cuore, citando la Bergman-Ilsa di Casablanca con la battuta entrata nella storia del cinema: “Suonala ancora, Sam” (che, in bocca ad uomo, si apre a non indifferenti ambiguità).
Bogartismo è mimo, grammelot, pirotecnia vocalica e da vocalist, invenzione goliardica alla Roberto Benigni (per il campionario lessicale) e all’Alessandro Bergonzoni d’antan (nei calembour che giocano sulla letteralità delle parole), rimescolamento trash nell’oggettistica giocattolo che predica un ritratto maschile tutt’altro che impietoso, bensì tenero, fragile e nostalgico da genere in via d’estinzione.

 
« InizioPrec.11121314151617181920Succ.Fine »

Pagina 11 di 25
Sito realizzato con Joomla - Realizzazione grafica: Enrico De Stavola
condividi