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Womencaust: il dovere del sacrificio muliebre



[Silvia Mei]

“Indicibilmente vuota. Nessuno più per cui vivere”. Sono le parole sconsolate di Kristine Linde, amica di Nora Hellmer in Una casa di bambola. Parole reversibili anche per un’icona come quella di Antigone, suicida per il fratello insepolto Polinice, o aderenti alla sciagurata sorte di Cassandra, sacerdotessa pervertita dal contrappasso di Apollo che le mette in bocca solo auguri nefasti. Dall’amore fraterno a quello nuziale per desiderio di sacrificio, di affermazione della persona nella proiezione totale con l’altro da sé. Letteratura femminile, dunque? In gioco non c’è più la desueta rivendicazione sessista, lo scandalo della libertà. Si tratta piuttosto di uno sguardo lucido e desolato sul presente e sulla plausibilità di una redenzione futura.


Teatro Girolamo Magnani
Fidenza, 25 gennaio 2012

Antigone, ovvero una strategia del rito, da Sofocle, con Le Belle Bandiere, regia di Elena Bucci con la collaborazione di Marco Sgrosso


È una centaura l’Antigone di Elena Bucci in giacca di pelle nera, decorata da un lungo serico scialle che descrive volute e arabeschi piriformi. Appena traccia la diagonale della sua entrata, in apertura, produce un corto circuito, un time shift siglato dall’afrojazz di Miriam Makeba: è un’Antigone già morta, che rivive la sua storia, ricompie il suo olocausto, appartata, estatica, invasata, rimembrante le isteriche di Charcot: ora bambina, ora donna, ora anima celeste piena di grazia.
“Se è il corpo morto di Polinice a orientare tutto l’orizzonte scenico, - osserva Adriana Cavarero nel denso saggio filosofico su Antigone compreso in Corpo in figure (1996) - è tuttavia un sangue di generazione materna a polarizzare l’azione tragica decidendone il meccanismo. […] È dunque proprio la potenza del sangue a far muovere Antigone, obbligandola nei vincoli di un’identificazione materna che costringe il suo agire a un sacrificio del sé per corrispondere al desiderio di sua madre che si incarna nel morto Polinice”.
Il motivo della consanguineità non è stato un’urgenza critica della messinscena, volta piuttosto a riattivare artigianalmente i dispositivi tragici, la regia tuttavia riporta il motivo della simbiosi materna e della corporeità femminile come sofferenza nell’attestarsi dello stato logocentrico della polis. L’entrata di Antigone-Bucci, di cui sopra, richiama la figura di Giocasta, strozzatasi col proprio scialle, come quello indossato da Antigone, facendo aderire le due figure, di madre e di figlia, che rivendicano la loro autorità e diritto sui corpi.


Il testo asciutto e compatto di Sofocle diventa l’occasione per riflettere sul tempo del rito, della condivisione di una ritualità collettiva col pretesto dell’esequie non compiute del disonorato Polinice, che ha ingaggiato una battaglia contro la sua città natale, Tebe, e contro il gemello Eteocle, in una lotta fratricida per il trono. Antigone, la minore della famiglia, orfana di padre e di madre, abbandonata inizialmente dalla sorella Ismene, decide di reclamare il corpo del germano, pasto di uccelli e belve fuori del recinto murario, disobbedendo all’editto dello zio despota Creonte.
Ma si avvertono lontane reminiscenze della riscrittura francese del mito di Jean Anouhil nel 1944, precipitata nella testura complessiva, che gode del disegno luci di Maurizio Viani (scomparso nel corso delle prime repliche): il coro di sfollati, in allerta su pagliericci accatastati, vive di un clima da diaspora sotto i bombardamenti nemici, restituendo quel gusto nostalgico, vagamente francese alla comunità separata dei coreuti e dei deuteragonisti.
Per Le Belle Bandiere di Elena Bucci e Marco Sgrosso il recupero della tragedia attica - con la quale si confrontano per la prima volta nel solco della rilettura dei classici che ha visto alternarsi in compagnia Shakespeare a Pinter, Ibsen a Goldoni - non è il semplice recupero di un testo antico ormai perduto: si tratta piuttosto di rendersi consapevoli di una relazione teatrale, di un tipo di teatro che è andato estinto e che può essere riattivato imbastendo un nuovo rito nella comunione e condivisione del tempo unico e irripetibile dello spettacolo.
Con questo allestimento, spartano ed essenziale, fatto di accessori semplici come una decina di sedie, a comporre strutture pericolanti, e del corpo-voce di sette attori, si giunge ad una reinvenzione di forme desuete come il coro, di accessori quali la maschera, riabilitati nell’impasto dialettale e nel tappeto sonoro costante (ad opera di Raffaele Bassetti), mai utilitaristicamente espressivo, su cui appoggiare una voce e soprattutto una parola che reclama un tessuto armonico di note. Ecco allora la scelta di un prologo (tratto dalle Fenicie di Euripide per recuperare l’antefatto di Edipo, capo stirpe) volto in siciliano da Daniela Alfonso e Maurizio Cardillo, in una sorta di eco black and white: una lingua-mondo che richiama formule arcaiche, sonorità magiche che iniziano alla ritualità. Ma anche un omaggio alla Magna Grecia, culla della civiltà, i cui paesaggi il solo dialetto riesce a evocare. Mentre il coro, da cui nascono tutti i personaggi della tragedia, recupera la maschera, intermittente e funzionale, in omaggio alla tradizione improvvisativo-musicale dei Comici dell’Arte, cui Le Belle Bandiere teatralmente discendono. La loro Antigone inizialmente nasce come una “lettura in concerto”, nel sogno di una composizione d’attori d’impianto jazzistico, dove ognuno con le sue parti sale in palco per dar inizio ad una jam session.
Elena Bucci regala altissimi momenti di poesia alla Isabella Andreini, tra il rispetto letterale del testo e la polluzione di momenti espressivi che predicano il personaggio. Accanto alla sua figura, “perimetrale”, mai assertiva o prevaricante nell’economia dello spettacolo, si staglia un Marco Sgrosso assoluto, sprezzante e altezzoso Creonte, elegantemente in nero e oro con lunghe maniche vagamente pulcinellesche. Mirabile Maurizio Cardillo, coreuta e Tiresia, una presenza che si impone per nettezza espressiva. Rimarcabili i giovanissimi Nicoletta Fabbri e Filippo Pagotto, rispettivamente Ismene ed Emone.


Teatro “Alessandro Bonci”
Cesena, 29 gennaio 2012

Nora alla prova da “Casa di Bambola”, di Henrik Ibsen, regia di Luca Ronconi, Teatro Stabile di Genova


È un making of quello che si replica nella ripresa di Nora alla prova (debuttato nel marzo 2011 a Genova), esperimento di regia e prova d’attrice della già rodata collaborazione di Luca Ronconi e Mariangela Melato con lo Stabile genovese. Ibsen era già nelle corde di Ronconi, il cui studio in una prospettiva registica risale agli anni del Laboratorio pratese (1978-79) e sempre in asse col Teatro di Genova: a partire dall’Anitra selvatica, uno dei primi capolavori del drammaturgo norvegese, per arrivare all’ultimo allestimento ibseniano del 1995 col dramma in versi Peer Gynt. In mezzo c’erano stati John Gabriel Borkman e Spettri, dove la componente visivo-cinematografica amplificava la metafisica di quei drammi.
Per Casa di bambola il naturalismo letterario viene ricondotto al suo grado zero: la soluzione della prova aperta con una scena affollata di sedie da regista e un tavolo modello ikea, che scivola e ruota su binari e piattaforme ruotanti, tra coreografia e montaggio televisivo, riporta tutto alla letterarietà del verbo di Ibsen, a quelle sagome di donne e di uomini che credono fino al delirio e alla scelleratezza al vuoto delle convenzioni sociali. La versione di Nora secondo Ronconi non è quella della protofemminista, che lungamente ha posseduto quel personaggio, piuttosto valorizza la contraddizione che sta tra i due finali, il primo dell’abbandono e il secondo della visione dei figli nella cameretta che gela i propositi di Nora - rielaborato quest’ultimo da Ibsen per evitare manipolazioni esterne all’intollerabile chiusa “(Si sente sotto il rimbombo di un portone che si richiude)”.
La signora Hellmer vive la contraddizione della donna pienamente contemporanea: quella dell’aspirazione all’autonomia, dell’affermazione professionale e individuale, ovvero, della self made woman, da una parte; quella del rispetto delle norme sociali, dei simulacri familiari, del gioco delle parti che esigono sacrificio e subalternità, in un processo destinato al disincanto, dall’altra. Rimane comunque e sempre una fine sospesa, rimane il dubbio che Nora possa avverare il suo bildungsroman oppure avvilirsi in un sistema familiare per cui solo i figli diventano una ragione di vita che valga molti sacrifici.
Per avallare questa interpretazione e restituirle verità scenica, Ronconi fa di Nora Hellmer e dell’amica Kristine Linde due figure speculari, in un processo che durante tutto il dramma le porta loro malgrado a trovare un posto nella storia. È sempre la Melato ad alternarsi tra le due enunciazioni femminili in una singolare tenzone e prossimità sentimentale, eco l’una dell’altra, che svela di sera in sera differenti inflessioni. La gradazione pronunciata da Mariangela Melato nell’intervallo tra le due donne è quella delle voci che si agitano in Nora e che l’attrice prova realmente tutte le sere in attesa dell’epifania naturale del personaggio. È sicuramente in questo sdoppiamento che si può giocare la tensione interna della bambinesca inclinazione di Nora coi figli, della sua fragile emotività che la trasforma nell’allodoletta che cinguetta nel nido, e della sua coscienza che fa risuonare le parole di Kristine, suo aiutante magico.
É realmente un progressivo entrare nel personaggio, renderlo credibile, richiedendo al pubblico il difficile sforzo di ricostruire a brani un’identità scissa anche sul palco. Le Nora e Kristine personaggi in costume, fantasmi che presenziano sulla scena, come in cerca d’attrice, escogitano un triangolo con la Melato che si avvicenda in tutte le scene per una beneficiata da prima attrice. Fin dall’apertura, si mette in scena la cornice del casting per il ruolo principale, poi della mise-en-espace di un copione, già debitamente tagliato, ad uso di una compagnia all’antica italiana, senza regista né direttore di scena. Poi però nel corso delle prove, delle verifiche spaziali e interpretative degli attori, il personaggio (o chi per lui) si impone con sempre più verità fino a far dimenticare che si tratta di una prova, che si sta doppiamente fingendo, e la realtà della finzione giunge alla rappresentazione, se non alla completa immedesimazione, che porta Nora-Melato a scoperchiare il modellino di interno progettato per casa Hellmer.
La prova alla fine è anche per Henrik Ibsen, una prova di tenuta scenica, di attualità, di realismo, non più femminista ma sociale (tale da ricordarci la critica alle contraddizioni emancipazioniste anni Settanta di Elfriede Jelinek nella riscrittura Cosa accadde dopo che Nora ebbe abbandonato suo marito, ovvero le colonne della società). E dispiace, benché in tutta coerenza con una regia pulita, sensibilmente attenta alla rappresentazione maschile (Krogstad non è un lurido strozzino, Torvald alla fine è solo un uomo pieno di sé, il dott. Rank un malato che si congeda con una dignità non compresa), che la scena tanto discussa, carica di erotismo e sadismo, della tarantella di Nora non trovi una qualche visualizzazione: viene messa a tacere, in un certo senso, quella segreta e latente violenza maschile sulla donna che troppo oggi si tollera, con la compiacenza soprattutto di molte donne, che vedono nell’esibizione e nella spettacolarizzazione del proprio corpo una forma di affrancamento e riscatto da un presente che le vuole madri precarie. Insomma, obliterando la danza della bambola Nora, le ragioni della signora Hellmer ad andarsene di casa francamente vengono meno, e forse non merita neanche oggi prendersela troppo per la boria, l’irriconoscenza e l’infantilismo di uomini e mariti che hanno più fragilità e insicurezze di noi donne. Non ne vale davvero la pena.


Teatro dell’Elfo
Milano, 5 febbraio 2012

Cassadra, da Christa Wolf, regia di Francesco Frongia, con Ida Marinelli


Una vela che funge da schermo, un tessuto calato a mo’ di sipario come superficie precaria e mobile del sogno e della memoria; una gradinata di legno – arcaica entrata al tempio di Apollo - sormontata da una effigie-icona rosso sangue in stile guernica; bauli pieni d’acqua con navicelle di carta a ridurre l’Ellesponto in un piccolo angolo di mondo; un carro che è anche un cavallo e all’occorrenza un sarcofago. Cassandra, la sacerdotessa veggente, l’àugure destinato a non essere creduto per aver rifiutato le profferte del dio, si muove tra diversi spazi di conflitto e d’attrazione. Arrivata alle porte di Micene, al seguito del bottino di Agamennone, fissata dai leoni di pietra, inizia a raccontare la febbre della sua missione, i tormenti per la cecità di una famiglia, la stirpe di Priamo, che risponde ad una scellerata guerra. Sta per morire, o forse è la sua anima vagante in cerca di orecchi stranieri a raccontare icasticamente le figure dell’orrore che la perseguitano anche in sogno: Achille la bestia che decapita nel tempio consacrato il fratello Troilo e poi smembra l’amazzone Pentesilea, la compostezza di Ettore, i silenzi di Ecuba, la morte della sorella Polissena, l’impotenza di Enea, l’iniziazione sessuale di Pantoo il greco, i vaticini del fedifrago Calcante.
Ida Marinelli, storica attrice e cofondatrice del Teatro dell’Elfo, dalla silhouette androgina che le rende consentaneo lo sdoppiamento, l’intermittenza di voci e la convivenza di più stati del personaggio, recupera una figura epica di rara incarnazione scenica rimessa all’attenzione nel 1983 dalla letterata marxista Christa Wolf. La scrittrice tedesca, vissuta nella ex RDT ai tempi delle tensioni atomiche tra i due blocchi nel cuore dell’Europa, restituisce una lingua contemporanea all’eccesso di visione della Donna opposta all’assurda cecità dei Padri. “L’interrogativo che mi sono posta nell’accostarmi alla figura di Cassandra – spiega l’autrice, che ritornerà al mito con una riscrittura polifonica di Medea – fu di sapere in quale momento e per quale tramite questo elemento autodistruttivo si fosse insinuato nel pensiero e nell’esperienza dell’Occidente”.
Ida Marinelli, non immune al fascino della narrativa sassone e della femminilità tagliente e frigida delle sue donne (come Petra Von Kant, della quale ricordiamo una sublime interpretazione), ci offre una profetessa in velluto nero, con giubba, fibbie e anfibi, su cui contrasta, mortifero, l’incarnato latteo, un unicum col platino della serica chioma, affilata come il fendente rosso vivo di due lame di labbra. Una prova d’attrice su un testo non teatrale (piuttosto pre-teatrale, osserva l’attrice), un lunghissimo racconto orale vivificato dalle figurazioni della narrazione, che, con la regia onnicomprensiva di Francesco Frongia (è anche scenografo e costumista), trova nel paesaggio sonoro pressoché costante un balsamo alla secchezza linguistica della Wolf, e negli oggetti di scena una visualizzazione essenziale alla mozione degli affetti che muove innanzi l’accorato pianto di Cassandra.
Un pianto che si stempera sulle note, cariche di pathos, delle arie di Henry Purcell - è il celebre lamento di Didone When I am laid in hearth remixato – per una chiusa altamente teatrale sull’estremo saluto: “Il dolore si ricorderà di noi. Grazie ad esso, dopo, se ci rincontreremo, e qualora un Dopo esista, potremo riconoscerci”.

 
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