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Focus on
Nostra Signora della Voce



Incontro con “la maestra” Chiara Guidi intorno alla verità retrograda della voce

[Jennifer Malvezzi]

Una sera d’inverno, periferia sud di Parma. Il cascinale che ospita le sale di Europa Teatri taglia la nebbia burrosa come una flebile lucciola. Come nelle fiabe, quando dopo tanto vagare per selve ostili si trova un caldo riparo, un rifugio. E dentro ad aspettarti c’è lei, Chiara Guidi, la voce di tutte le fiabe del mondo: strega, orchessa e mamma insieme.

“Come ti chiami? Chiara. E tu? Tu come ti chiami?”

Il punto di partenza è il proprio nome. La risposta al quesito che ci si sente porre da sempre, così automatica da non richiedere sforzo. Ascoltare la propria voce e seguirla con un dito. Sembra di essere tornati a scuola, nell’ora di educazione musicale, quando la maestra dirigeva insegnandoci a solfeggiare. Anche Chiara Guidi è una maestra, con la sua lunga gonna a quadri e gli occhi che brillano di entusiasmo. Una maestra speciale, di quelle che ti insegnano a scrutare nella struttura invisibile del mondo, a sentirne “le molecole”.

Di solito non dimentico mai una voce. Quando avevo undici anni mio padre morì. Mi ricordo solo la sua voce soffocata e i colpi ritmici, contro al muro, di mamma che chiedeva aiuto. Non pensavo alla morte, ma “guardavo” le voci. La voce del babbo mi aveva attratto, colpito. Per comprenderlo, la imitai. Era un modo per averlo con me. Era un modo per superare il lutto. Il canto è la voce del funerale. Il canto è la tragedia. La voce diventò per me un’ossessione, da trent’anni sono alla ricerca di un metodo per afferrare la voce che mi scappa, per andare a ritroso, recuperare una voce e rifarla. Per questo chiamo l’oggetto della mia ricerca la “verità retrograda della voce”.

La voce di Chiara può imitare tutto quello che l’orecchio umano riesce a sentire. Dopo aver ascoltato con attenzione, dopo aver “guardato”  un suono nella sinfonia del mondo, si sforza di ripeterlo fino a che non ottiene la giusta intonazione che le permette di elaborare una partitura e di “far risuonare” quella voce, una, dieci, cento volte sempre uguale.

Iniziai col cercare la silhouette della voce, tracciando una sagoma arbitraria su un foglio, mentre leggevo un testo.  Da bambini, per capire, ci si sforza sempre di copiare. Erano segni senza significato. La cosa più difficile è non lasciar trasparire il significato. Iniziai a porre queste sagome, questi disegni, queste frecce sopra le sillabe del testo. Il primo testo che assunse questa scrittura neumatica fu Uovo di Bocca. Io e Claudia (Castellucci), intonandoci, possiamo ripeterlo coralmente, in modo sempre uguale. Questo è il primo testo dove la voce si è permessa di stabilire millimetricamente, neuma per neuma, il suo passaggio sulle parole, il suo ritmo interno. Una partitura emotiva fissa che la voce stessa detta, il suono preciso di quel preciso testo.
A un certo punto ciò che mi mise in crisi fu la spazializzazione della voce. La voce si muove non solo in direzione del pubblico, ma in tre dimensioni. In quello stesso periodo cominciai ad avere delle specie di allucinazioni: vedevo nella realtà un’immagine che mi colpiva e, poco dopo, la ritrovavo proiettata sul testo, sopra ai fonemi. Avevo bisogno di un’immagine precisissima, non mi bastavano più le frecce o le sagome. Avevo bisogno di un’immagine precisa che il testo stesso richiamava. Ed ecco la soluzione: davanti a quella distesa di oggetti, anche la mia voce doveva farsi corpo, muoversi in tre dimensioni. La mia voce doveva crearsi uno spazio per poi iniziare ad abitarlo costruendoci dentro, con la voce stessa, delle figure e una storia.

Chiara Guidi ricorda, allora, che in questa fase l’incontro con Scott Gibbons e la collaborazione per la Tragedia Endogonidia (2002-2004) si è rivelata fondamentale. È lì, in quell’opera e grazie a quella collaborazione creativa, che nasce la tecnica “molecolare”, un approccio microscopico che, attraverso la sintesi granulare del suono, consente di ridurlo  in frazioni per analizzarlo, trasformarlo e ricomporlo.

Solo così, con l’utilizzo di questa tecnica, si possono vedere i volumi delle molecole sonore e ricostruirle. La “massa sonora” è come una zolletta di zucchero e io, con l’uso della voce, vado a separarne i granelli. Ogni oggetto ha un suo suono. Ho bisogno degli oggetti come un pittore ha bisogno della modella; non per copiare la realtà o per interpretarla, ma per  poterne toccare la sostanza, per trovare la sua linea idiomatica con cui tracciare il disegno. Si tratta di trovare la mia voce. Di vedere il corpo della mia voce. Alla fine degli anni Novanta, mentre recitavo, ho visto per la prima volta la mia voce staccarsi da me. Aveva un corpo, aveva una sua andatura. Era una signora. Volevo conoscerla. Sul palco, oltre al mio corpo visibile, la mia voce pone un altro corpo che sottomette le parole al suo dominio. Per questo ho sempre bisogno di testi. Sono avida di testi. Mi servono i testi per riprodurre le voci che ho sentito, anche se i testi spesso le respingono. Devo scegliere la forma giusta della voce combattendo. E solo quando la forma scelta resiste a una serie di prove e controprove, essa è pronta per la scena. Inoltre il corpo e la voce rispondono agli stimoli sonori dell’ambiente esterno, cambiano con essi. Per questo devo provare la stessa voce in diversi luoghi, da sola e tra gli altri, al chiuso o all’aperto. È un lavoro molto delicato.

La voce stratifica tutti i paesaggi di una vita. In ogni istante, il nostro corpo e la nostra voce rispondono al brusio del mondo equalizzandosi. Con enorme pazienza Chiara Guidi intreccia, in questa Relazione sulla verità retrograda della voce, propri ricordi di vita, esperimenti empirici di ascolto, nozioni di tecnica molecolare ad affermazioni etiche di grande rigore. Sembra di giocare, ma a un gioco serissimo. Una lezione non solo di voce, ma di vita.

Mi chiedo continuamente “come ti chiami?”. Mi alleno su questa domanda ascoltando attentamente la voce mentre emette la risposta. È dall’osservazione della realtà della voce che arrivo al palcoscenico. La voce, infatti, è per sua natura sfuggente. Occorre inseguirla. Per questo non devo evidenziarla, ma domarla. Occorre crearle un cammino lungo il quale dirigerla. La partitura è questo: il frutto di un dialogo tra la voce vera e quella copiata. E nel mezzo si deve imparare a domare la voce. A domare il teatro.
Nell’antica Grecia, tutta la società era fondata sulle due ottave dell’ordine dorico: l’intera polis era fondata sulla musica. Noi italiani, invece, l’abbiamo bandita per sempre dalle nostre scuole. Non si tratta di una semplice constatazione storica. È una questione etica. La musica, infatti, è l’unica tra le arti a non essere rappresentativa, ma manifestativa. Una voce, un suono, non si possono descrivere con le parole. Un’immagine sì. Quello che in questi giorni stiamo vivendo sulle nostre spalle come compagnia (la polemica internazionale intorno allo spettacolo Sul concetto di volto nel figlio di Dio) ne è la dimostrazione. Riceviamo quotidianamente minacce da parte di persone che, in molti casi, lo spettacolo non lo hanno neppure visto. E tutto questo per un’immagine. In questo preciso momento storico, dopo che il suono è già stato bandito, c’è un pericolo reale di censura sulle immagini. A questa censura latente corrisponde un andamento reazionario del teatro che continua ad avere un’estrema fedeltà al testo scritto, ad un’idea di “Cogito ergo sum”. Ma perché non possiamo agire come i bambini e pensare e immaginare contemporaneamente?

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Due Tempeste sulla scena teatrale londinese



[Maria Coduri]

Nel corso dei secoli The Tempest è stata interpretata in modi diversi: l’addio di Shakespeare al teatro, un viaggio di conoscenza, un’opera anti-colonialista, una metafora sul teatro. Tra le produzioni più acclamate a livello europeo c’è anche la “nostra” Tempesta, quella diretta da Giorgio Strehler che debuttò nel giugno 1978 al Teatro Lirico di Milano.
A Londra, in questa stagione teatrale, due produzioni – estremamente differenti per nomi coinvolti e mezzi disponibili – hanno animato la scena della capitale: quella diretta da Trevor Nunn al Theatre Royal Haymarket, con Ralph Fiennes nel ruolo di Prospero e Nicholas Lyndhurst in quello di Trinculo, e una diretta da Jonathan Holmes per la sua compagnia, la Jericho House, andata in scena nella suggestiva cornice della chiesa medievale di St Giles’ Cripplegate, unico edificio antico tra i grattacieli eretti intorno al Barbican Centre. Né l’una, né l’altra produzione hanno ricevuto critiche particolarmente favorevoli e, nella maggior parte dei casi, quanto espresso sui giornali e sulle riviste inglesi, ci trova d’accordo. Sul “Guardian”, Michael Billington afferma che The Tempest di Nunn non offre alcuna delle “startling revelations or insights in the manner of Peter Brook, Jonathan Miller or Giorgio Strehler versions”. Secondo il critico inglese, dunque, la messa in scena strehleriana del 1978 rivelò più dell’opera scespiriana di quella di Nunn che, ad oggi, ha diretto ben trenta plays del drammaturgo inglese.
Nunn legge TheTempest come una parabola che sancisce il trionfo del perdono e della riconciliazione sulla vendetta, lettura leggittima ma, a tratti, un po’ marcata e che, in alcune scene, dà origine ad accenti eccessivamente sentimentali. Ben distante quindi da quell’amarezza (bitterness) di cui parlava Jan Kott nel suo Shakespeare Our Contemporary, il Prospero di Nunn congeda Caliban con un bacio sulla fronte e mostra il suo totale e incondizionato perdono verso coloro che gli avevano arrecato offesa, stringendo la mano del traditore Antonio. È un vero e proprio happy ending.
Punto di forza dello spettacolo è senz’altro l’interpretazione di Fiennes. L’attore recita i versi scespiriani con chiarezza e ponderazione, assaporandone il suono e trasmettendone l’importanza. È un Prospero dal portamento nobile ed elegante, una figura virile ed imponente che incute rispetto e riverenza ma che, allo stesso tempo, esprime con efficacia il suo tormento interiore e mostra una personalità fondamentalmente benevola e particolarmente tenera nei confronti di Miranda. Questa è piuttosto giovane, ha quindici anni, quindi Nunn si è distanziato volutamente dall’immagine del mago anziano con la barba bianca. Tuttavia è malinconico, tristemente assorto, come se portasse su di sé il peso di un’intera vita e si sentisse ormai un po’ distante dagli avvenimenti che lui stesso ha creato. Differentemente dal testo originale, è lui che apre lo spettacolo, figura maestosa – seppur vestito di stracci – che rende immediatamente chiaro il suo ruolo di mago, di artefice dello show, presentandosi in proscenio con il libro e il bastone magico per poi allontanarsi verso il fondo della scena da dove osserverà silenziosamente lo svolgersi della “sua” tempesta.
In generale, il ritmo dello spettacolo è piuttosto lento, soprattutto nella prima parte; si fa più incalzante nella seconda, in particolare grazie ad alcune trovate sceniche di grande effetto come la discesa di Ariel-arpia sulla tavola imbandita per il banchetto, una figura magica dalle grandi ali bianche che recita i suoi versi sospesa nell’aria. Tuttavia, alcuni momenti risultano eccessivi, troppo coreografici: in particolare nella scena del banchetto preparato dagli spiriti che, come una muta di cani segugi, si danno all’inseguimento dei marinai in una specie di danza che crea un’atmosfera evocativa di famosi musical. Bella l’interpretazione di Nicholas Lyndhurst e di Clive Wood, rispettivamente nei ruoli di Trinculo e Stephano. Lyndhurst, conosciuto soprattutto per il personaggio di Rodney Trotter nella sit-com Only Fools and Horses, è un Trinculo un po’ timido e afflitto che ben si contrappone all’ubriaco e rozzo Stephano.
In generale, The Tempest di Nunn ammorbidisce molte delle asprezze del testo originale e offre una lettura rassicurante pervasa, soprattutto nella seconda parte, da un’atmosfera quasi favolistica.

Di altro tono è la produzione della Jericho House. Forte, secondo il regista Jonathan Holmes, è la corrispondenza fra le avventure e sventure coloniali all’epoca di Shakespeare e il nostro presente costellato di storie di esilio, migrazione e conflitti territoriali. Non a caso lo spettacolo, prima di approdare a Londra, è statoportato a Gerusalemme, in Cisgiordania – a Nablus e a Betlemme – e ad Haifa. Una delle rappresentazioni ha avuto luogo proprio all’ombra del muro che separa Gerusalemme da Betlemme in una situazione piuttosto scespiriana con il pubblico che si muoveva liberamente durante lo spettacolo. Ecco dunque che, in quel contesto, il tema del matrimonio tra Miranda e Ferdinando e la riconciliazione finale assumevano un significato particolare.
Un ruolo fondamentale è giocato in questo allestimento dalla musica e dai suoni. Holmes sostiene che The Tempest fu un lavoro congiunto tra Shakespeare e Robert Johnson, compositore e liutista del re. Non a caso, dice, The Tempest è l’opera più breve di Shakespeare con alcuni personaggi e alcune situazioni non totalmente sviluppati. Era proprio la musica, secondo il regista, che doveva supplire alla brevità del testo. E così lo spettacolo risulta fortemente sonico, accompagnato, per l’intera durata, da musica, rumori, suoni (“The isle is full of noises,/Sounds and sweet airs that give delight and hurt not”, osserva Caliban). Veramente bella la voce di Ariel (Ruth Lass), le cui canzoni, dal sapore spiccatamente mediorientale, creano un’atmosfera inusuale e magica all’interno della chiesa di St Giles’ Cripplegate. L’Ariel di Lass è alquanto differente dall’etereo Tom Byam Shaw della Tempesta di Nunn. Tanto delicato e femmineo quello, quanto mascolina e, a tratti, quasi minacciosa questa. Sicuramente dotata di ottime qualità attoriali, non è parso, tuttavia, corrispondere all’idea di Ariel che ci dà Shakespeare nelle parole di Prospero: “my delicate Ariel” o “my bird”. Lass è agilissima ma è anche forte, muscolosa e il suo viso è alquanto spigoloso. È però un piacere seguirla nei movimenti e, soprattutto, godere della sua incantevole voce.
È una produzione “in piccolo”, allestita in uno spazio limitato. Per qualche ragione manca il personaggio di Gonzalo (forse per insufficiente numero di attori) e Antonio e Stephano diventano Antonia e Stephania, interpretate dalla stessa attrice, Nathalie Armin. Se il personaggio di Antonia può funzionare, l’interpretazione di Stephania che si prodiga in scene di seduzione con Caliban, ci pare sovvertire il rapporto esistente tra i due. Mentre nel testo originale Caliban si sottomette totalmente a Stephano (“Let me lick thy shoe”), nello spettacolo di Holmes è piuttosto Stephania che, usando tutte le sue strategie seduttive, cerca di farsi accettare da Caliban, in una resa che non sembra corrispondere alle intenzioni del drammaturgo.
Venendo infine al personaggio di Prospero, tanto è nobile nell’atteggiamento e maestoso quello di Fiennes, quanto minimale e contenuto è quello di Alan Cox. Anche qui vediamo un Prospero giovane, forse troppo però, anche perché ben lontano dalla presenza scenica di Fiennes. Come quest’ultimo Cox recita i suoi versi con chiarezza ed eleganza ma, solo di rado, esprime la complessità del grande personaggio scespiriano.

 
Sguardo all'indietro sul Magfest / Corpo – Parola - Potere



[Carolina Ciccarelli] Ad aprire il programma di attività teatrali abruzzesi del 2012 il festival internazionale di donne nel teatro contemporaneo MAGFEST. Nato nell'ambito del Madgalena Project, dopo ventuno anni di assenza (il primo festival italiano della rete fu organizzato nel 1988 da Silvia Ricciardelli del Teatro Koreja), il festival è stato riportato in Italia  da Annamaria Talone, Valentina Tibaldi e Gabriella Sacco con il nome attuale di Magfest, a sottolineare quel tipo di incisività caratteristica di un evento effimero quale un concerto rock. Un quadriennio, questo del MAGFEST italiano, che dal 2009 al 2012 ha visto alternarsi le città di Pescara e di Torino come sedi di dibattiti, incontri, spettacoli e seminari in un'atmosfera di respiro e riflessione tutta al femminile. Dal 4 all'8 Gennaio 2012 i luoghi del festival sono stati Pescara, Chieti e, indirettamente ma più di tutte, la città de L'Aquila, il cui terremoto segnò anche il primo Magfest abruzzese. Al termine del festival, dopo aver partecipato ad alcune delle attività del ricco programma, si capisce che esso è stato concepito come un insieme di tasselli quadrati serratamente intersecati le cui linee di demarcazione appaiono, al termine, le voci delle studiose e professioniste – teatrali e non – che hanno partecipato alla costruzione della scacchiera, la cui forma e concretezza è data dall'interno e dal valore dei singoli tasselli, ma la cui composizione, sola, dà pieno significato alla recentissima edizione concepita da Annamaria Talone. Alla fine, è come se Annamaria Talone, la direttrice artistica del Magfest abruzzese che ha scelto di intitolare questa edizione Corpo-Parola-Potere, ci avesse fatto percorrere una strada ad occhi chiusi, facendoci accompagnare fedelmente, di volta in volta, da una voce diversa, per poi metterci di fronte alla necessità di voltarci per capire il senso di tutto quel cammino intrapreso. E lì, in quell'attimo unico in cui il disegno di un intero festival appare, è proprio lì che risiede il potere dei corpi e delle parole di un evento come questo. Già il titolo, di per sé efficace e significativo, contiene nella catena di tre termini (Corpo-Parola-Potere) una pluralità di rimandi capaci di introdurre la riflessione in anfratti inaspettati come è chiaramente emerso nella conferenza finale del Magfest. Un dialogo assolutamente intenso, quello tra Julia Varley, co-fondatrice del Magdalena Project (www.themagdalenaproject.org), e Chiara Zamboni, studiosa di Diotima (www.diotimafilosofe.it), comunità filosofica femminile nata nel 1983 nell'università di Verona. Professioniste in ambiti diversi, entrambe molto legate al teatro – una in veste di artista, l'altra di spettatrice – e alla riflessione sul mondo femminile, le due donne hanno toccato i medesimi punti, da distanze diverse seppure complementari, evidenziando percorsi di connessione possibile tra i tre concetti del titolo. A partire dall'ambivalenza insita nella parola potere, si è fatta attenzione a porre la distinzione tra magt e kraft, che in lingua danese indicano rispettivamente il potere politico, quello che per Foucault ha a che fare con il dettar regole, e la potenza, quella forza positiva e dirompente che riguarda molto da vicino sia la parola che il corpo. Potenza che, come dice Julia Varley, attrice e regista dell'Odin, si dissocia dal concetto di vigore, anzi, deve necessariamente essere vulnerabile, delicata e umana perché solo l'accettazione della vulnerabilità della nostra potenza ci permette di non nasconderla dietro il potere. Potenza delle parole che, come le azioni, hanno la capacità di cambiare le cose, nel bene e nel male in quanto orientano la nostra vita levigando il nostro comportamento sin dall'infanzia, da quando, cioè, all'interno del grembo materno, percepiamo vibrazioni, ritmi e tonalità del mondo esterno. Inversamente, modellare la propria voce vuol dire modificarne i parametri sonori e, di conseguenza, orientarne il senso e i significati della comunicazione. Non solo un contenuto di verità delle parole, quindi, con la possibilità incommensurabile di segnarci, ma anche la forma che a quelle parole diamo attraverso il corpo. Sono i caratteri della lingua della madre, dice Chiara Zamboni, un linguaggio corporeo e affettivo, una lingua tipicamente femminile le cui caratteristiche, in età adulta, ritroviamo nella poesia, in quell'univocità di suono, senso e percezione a cui non chiediamo chiarezza, ma densità e profondità di immagine. Una lingua a cui non chiediamo definizioni, ma da cui desideriamo che ci porti in un altro posto. Su questa parola, che è una parola-verbo e non parola-descrizione - una differenza a cui fa più volte riferimento Julia Varley nella conferenza finale di questo Magfest- bisogna lavorare. Poetica e femminile, questa parola non ha la pretesa di essere obiettiva, ma assolutamente personale ed intima, essa deve diventare parola di donne del Magdalena Project capace di abitare lo spazio che viene a loro dedicato sulla rivista The Open Page. Uno spazio, quello della rivista, di scambio e divulgazione del senso profondo del loro lavoro che parte dal loro essere donne, e non solo professioniste, e che nasce dalle loro esperienze di vita fissate una volta per tutte nella loro carne e nel loro corpo. Solo una parola così, vera in quanto attaccata ad un corpo che ha la libertà di raccontarsi, può scatenare tanta potenza da segnare chi legge o chi ascolta. Su questa capacità di trasmissione di sapere, di rivelazione di una forza intima agli altri attraverso la parola e il corpo, poggia il mestiere dell'attrice. La donna, come afferma Chiara Zamboni, è in grado di vivere tra sogno e realtà, in quel valico che le permette di dischiudere agli altri gli accessi di una inedita visione. Un limite che coincide con la soglia tra presenza e azione e di cui l'attrice è, secondo Julia Varley, la custode. Entrare nell'azione, continua l'attrice dell'Odin, vuol dire agire per cambiare, creare un sogno dentro cui perdersi per ritrovare, finalmente, se stessi. È quello che ha fatto Helen Chadwick con Dream through your singing mouth in uno degli spazi della città occupati dal Magfest, il Matta di Pescara, ex mattatoio ora adibito a  spazio teatrale. Attrice, cantante e compositrice, Helen, come molte delle protagoniste del festival, è un'artista poliedrica e sorprendente. Protagonista indiscussa delle sue performances è la voce che diventa musica e sibilla narratrice di racconti e storie, accompagnata, in questa occasione, da un bodhrán, un tipico tamburo irlandese della tradizione popolare che, dal canto suo, a causa del freddo, optava inizialmente per il non suonare permettendoci, così, di scoprire tutta la vitalità di quest'artista che, lasciata a piedi dal suo strumento e lavorando di sola voce, ha saputo abilmente intessere e mantenere i fili dell'intera performance con vivacità e scaltrezza. Pur arrangiando solo qualche parola in italiano, Helen Chadwick ha ammaliato con la sua voce e l'incredibile forza comunicativa dando un saggio al vero di come le potenzialità di trascendenza della parola /verbo riescano a travalicare anche le - all'apparenza insormontabili- differenze di lingua. Incantare per insegnare, per trasmettere una parte della propria vita ed esperienza, per indurre a sognare senza avere paura di farlo. Helen Chadwick invita gli spettatori a scrivere su un foglio il loro sogno ed anche il probabile modo di realizzarlo, chiede loro di riporlo in una busta con su scritto il proprio indirizzo e c'è da scommettere che presto ogni spettatore riceverà a casa la propria lettera in cui è custodito il suo sogno, scritto di suo pugno, come forma di testamento scritto a cui poi, nuovamente sollecitati all'azione, dovranno dare forma e vita, fedeli a se stessi e a ciò che mettono per iscritto. Perché i sogni, come le bolle di sapone che al termine dello spettacolo Helen fa fare agli spettatori, sono sì “sottili come un capello, ma concrete e leggere come i sogni”.
Porta a riflettere su come creare uno spazio altro per esserci, invece, il progetto Living Rooms appositamente ideato dalla studiosa Giulia Palladini per il Magfest. Partendo da un pezzo di storia al femminile, quello delle Preziose del seicento che avevano la consuetudine di riunirsi nei salotti delle proprie case per discutere e riflettere sui più disparati argomenti, eruditi e non, Giulia Palladini ha invitato quattro donne de L'Aquila ad accogliere nel proprio salotto altre donne, alcune completamente estranee, per intavolare conversazioni su tematiche prestabilite. Eppure, se le Preziose seicentesche non avevano difficoltà ad accogliere nella propria dimora, luogo garante di familiarità e riservatezza, altre donne, sicuramente la concomitanza storica non è stata altrettanto favorevole per queste donne aquilane: i salotti erano, infatti, quelli delle case ricostruite dopo il terremoto, luoghi di dimora (si spera!) non permanente, privi, quindi, di quella dimensione intima ricca di storia familiare di cui erano intrise le mura crollate nella notte fatale del 6 aprile 2009. Non home ma house, direbbero gli inglesi. Queste donne non avevano mai invitato nessuno nella loro abitazione provvisoria. Costringendole a mettersi in gioco, Giulia ha scosso dei fili e lo ha fatto con mano leggera e decisa, per trasmettere loro la parola che è necessario ricominciare a vivere e che, farlo, significa ripartire dal ricostruirsi un gruppo di relazioni umane, all'interno di mura transitorie, sì, ma intrise di preziosa vita presente.

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Pas d’habitude_Bologna - Atelier Sì





[silvia mei]

Lo si denuncia fin dal titolo: la rassegna indipendente ideata e promossa da Fiorenza Menni/Teatrino Clandestino non vuole essere una stagione né un florilegio, tantomeno un appuntamento routiner. Nessuna serata è uguale a se stessa per questo Pas d’Habitude è una tantum all’interno del progetto Sì*Metrica, una modalità, quest’ultima, di radicamento nel territorio, ma con respiro nazionale e internazionale, partita nel 2011 ed oggi alla sua seconda edizione. Lo spazio di Teatrino Clandestino, lo storico teatro San Leonardo a Bologna, dove si espresse la terza vita di Leo de Berardinis, è oggi un luogo di coagulazione di afflati artistici e spiriti poetici. A partire dalla concessione nel 2008 a Teatrino Clandestino da parte del Comune di Bologna, i locali di via San Vitale 67, ridenominati con slancio affermativo Sì, si sono gradualmente costituiti a luogo denso di pensiero, lavoro, azioni, incontri, produzioni e promozioni culturali in ascolto della città e dei suoi artisti, dei loro progetti e delle loro necessità. Con Pas d’Habitude, il progetto Sì*Metrica articola un palinsesto di spettacoli con incontri, workshop e liveset non esenti da vedute transmunicipali e nazionali (www.atelier-si.org).

Il 19 e 20 novembre 2011 si è aperta la rassegna col delicatissimo lavoro di Anna Amadori, attrice lirica e pedagoga tosco-emiliana, cofondatrice nel 1990 del Teatro Reon con Fulvio Ianneo. Wonderwoman si è trasferita è la prima nazionale, a cura di Elena Di Gioia, di un solitario monologo interiore, sotto i cieli e nel frastuono di occidentali latitudini, nella presa di coscienza della fragilità femminile. Il pretesto letterario è nei racconti compresi in Bassure, raccolta prima della scrittrice Premio Nobel per la Letteratura 2009 Herta Müller, le cui figure muliebri, spigolate da una prosa asciutta e deittica, prendono corpo nel personaggio di Irene Fisher che Amadori ha creato come ricamo sulle eroine quotidiane della rumeno-tedesca. Il lavoro teatrale è una tessitura di echi dai racconti, facendone un dramma che li raccoglie tutti. Sormontata dall’icona kitch di Wonderwoman, una madonna in bikini aureolata di lucine colorate intermittenti, Irene lascia scorrere la sua vita di donna moderna efficientista, anche se un po’ maldestra, spesa in un lavoro che non ha più bisogno di lei. La tragedia del licenziamento le sollecita una coscienza emotiva che si impone in terza persona, ora come bocca della verità amplificata, ora nella grana dell’urlatrice punk-rock Nina Hagen, ora nel doppio burattinesco di una marionetta che cala dall’alto, dono mandato dal cielo: alter ego, infante desiderato, giocattolo che ritorna dal passato, è l’aiutante magico con cui volare disinvoltamente sulla cima di un grattacielo contemplando l’inerzia operosa di spazzini notturni.

Il prossimo 13 e 14 gennaio arriva per la prima volta a Bologna il neonato gruppo ravennate Erosanteros col debutto della loro seconda produzione Nympha, mane!, interrogazione teatrale del mito di Ninfa. Il paradigma culturale formulato da Warburg nei primi del Novecento, diventando un’ossessione nei fantasmi del moderno che lo avevano rianimato, porta a un esito scenico dalla forma ben leggibile e narrativa: dalla soluzione diaristica (con testi tratti da componimenti letterari che selezionano Dante e Schreber, Mallarmé e Boccaccio) alla fisiologia dei colori nel filtro di una membrana di tulle che raccoglie, uterina, le allucinazioni visive di un essere indeciso sessualmente e la cattività di un androide che prende il sopravvento fisico e mentale sul suo Narciso. L’immagine umbratile e fantasmatica dei due corpi diventa superficie di sovrimpressione di una battitura che registra un’azione scenica trascorsa diegeticamente ma differita scenicamente. Lo spettatore legge una storia che si visualizza in loup con svelamento progressivo di particolari per una scena double face, autoalimentata attraverso il cablaggio degli attori che regolano la texture luminosa e sonora.

Ma la serie di appuntamenti prosegue fino a marzo a ritmo cadenzato con artisti tra i più diversi: a partire dalla mostra performance dei bizzarri Fratelli Broche - in intersezione al programma di Arte Fiera OFF - con una messinscena della storia del cappellino del Novecento (28 gennaio); la performer romana Elvira Frosini/Kataklisma (2-3 febbraio); l’attore-autore Daniele Timpano, che torna dopo il successo per Dux in scatola con una nuova graffiante tappa sulla storia d’Italia intorno al caso Moro (10-11 febbraio); il trio Dassu-Fugaro-Piga (3-4 e 17 marzo); la formazione Macellerie Pasolini (24-25 marzo), per arrivare a chiudere con l’elegante humour di Stefano Questorio (29-30 marzo).

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Hotel Noosphere: un programma radio a misura dello spettatore


[Carolina Ciccarelli] Un luogo di incontro e di ascolto, accessibile all'occhio dello spettatore e all'orecchio dell'ascoltatore: questo è stato Hotel Noosphere il programma radio di 19/20, collettivo di artiste tutto al femminile composto da Fedra Boscaro, Tihana Maravich, Federica Falancia, Costanza Savini e Linda Rigotti, trasmesso in diretta streaming attraverso la web radio Ælia Media dalla splendida cornice di Villa delle Rose - nel quartiere bolognese di Saragozza – il 20 dicembre scorso
Canale d'arte e d'informazione multimediale, Radio Ælia Media (www.aeliamedia.org) nasce dalla mente di Pablo Helguera in occasione della prima edizione del Premio Internazionale di Arte Partecipativa e vuole essere spazio, reale e virtuale, in cui, dalle strade e dai luoghi della città, dar voce a chi fa e produce cultura, mirando alla creazione di una rete di conoscenze e riflessioni e sfruttando le potenzialità di un vecchio mezzo di comunicazione – la radio – adattato alle possibilità dei nuovi mezzi di trasmissione.
Dopo l'esperienza delle dirette da Piazza Puntoni, Ælia Media è tornata a trasmettere dalla sua sede ufficiale di Villa delle Rose, concessa alla web radio dal MAMbo – Museo d'Arte Moderna di Bologna, per la puntata di Hotel Noosphere – Prova aperta per una trasmissione radiofonica. Per l'occasione, la stanza della diretta è trasformata in un luogo di creazione di sinergie e di relazioni, accogliente e familiare, uno spazio comune di dibattito, che nega al pubblico presente l'obbligo dello spettatore limitato all' “ascoltare assistendo”. Come brave padrone di casa, le 19/20 tessono fili di partecipazione attiva all'evento offrendo caramelle e vino, coinvolgendo gli ascoltatori presenti nella creazione narrativa di un collage su di una stanza immaginata, invitandoli ad intervenire nelle discussioni e a porgere domande. Prova aperta, quindi, anche di partecipazione civica e relazione virtuale con un ascoltatore la cui presenza non viene mai dimenticata.
Hotel Noosphere chiede al pubblico di attivare la propria capacità immaginifica per creare camere e spazi di un hotel che ospita conversazioni, interviste e dialoghi, momenti di approfondimento sull'arte e la cultura condotti dalle donne del collettivo 19/20 e rivolti ad altre donne del mondo del lavoro.
Intervallate dall'ascolto di ottima musica – tra cui due omaggi ad Amy Winehouse e a Cesaria Evora  – Karin Andersen, artista visiva, Julia Draganovic, curatrice culturale, Vega Partesotti, giornalista, Lavinia Savini, avvocato, Matilde Soligno, fotografa e Paola Venturoli, sensitiva, hanno parlato dei loro mestieri o delle loro opere, mentre le loro immagini virtuali erano trasmesse live su uno schermo in sovrapposizione a quelle di vari interni di un hotel.
Intervistata ciascuna da un membro di 19/20, le sei ospiti-protagoniste si sono ritrovate a rispondere a questioni poste dalle ospiti stesse per un incrocio di domande e risposte infilate abilmente come dentro un vaso di Pandora. Interrotte dal suono di un campanello, le ospiti-intervistate venivano invitate alla pesca da una fantomatica presenza che le donne del collettivo 19/20 hanno lasciato immaginare al pubblico da casa nella figurazione divertente di una coniglietta velina. Le risposte alle domande sull'essere donna, sull'essere madre, sul giusto livello di “casalinghitudine” per la donna moderna hanno smosso l'interesse delle intervistatrici e acceso il dibattito intorno alla dimensione più quotidiana ed intima dell'universo femminile. Così, se Julia Draganovic ha parlato dell'essere casalinga come prerogativa necessaria ed indispensabile per potersi dire indipendenti, la sensitiva Paola Venturoli ha difeso la scelta del rifiuto della maternità ribadendo il fatto che non essere madri non vuol dire essere donne a metà. Due le artiste intervenute per parlare del loro lavoro: la poliedrica Karin Andersen, nata in Germania ma bolognese di adozione, la cui arte, svincolata da una visione antropocentrica, si lega alla riflessione sul confronto tra uomo e animale; e Matilde Soligno, giovane fotografa, formatasi tra Milano e New York, che ha fatto della fotografia una materia artistica di memoria visiva, in forte connessione con la quotidianità.

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