Roberto Latini e un’occasione chiamata Alfred Jarry Intervista a cura di Silvia Mei
Roberto Latini non interpreta, conduce il personaggio. Roberto Latini non fa spettacoli, convoca spettatori. Roberto Latini non fa il regista, avanza proposte sceniche. Roberto Latini fornisce indizi, non presume. Dopo il debutto pratese al Fabbricone di Prato, in coproduzione col Teatro Metastasio Stabile della Toscana, la versione féerique del suo Ubu Roi arriva a Ravenna (28 febbraio) nell’ambito delle proposte di Nobodaddy al Teatro Rasi, per proseguire a Modena (Teatro Storchi, 1-3 marzo) e a Roma (Teatro India, 21-25 marzo). Ma a Ravenna l’appuntamento raddoppia con la presentazione congiunta del volume Io sono un’attrice. I teatri di Roberto Latini (Editoria&Spettacolo, Roma 2009), a cura di Katia Ippaso, che presenzierà all’incontro. Una raccolta ragionata di materiali di lavoro - dai diari (redatti dalla curatrice nel corso del suo affiancamento) ai “testi”, vere e proprie scritture oltre la scena -, corredata da tre densi dialoghi e cinque interventi critici (A. Audino, K. Ippaso, A. Ottai, P. Quarenghi, P. Ruffini) sulle proposte sceniche di Roberto Latini/Fortebraccio Teatro relativi, in special modo, al programma Radiovisioni (inaugurato da Buio Re nel 2003 e terminato nel 2009 con Desdemona e Otello sono morti). L’arte di Latini - il titolo del volume è una sua affermazione, al limite dell’assertività esistenziale – è contro la fiera maschiezza dell’attore d’antan. Latini parla del femminile (e non dell’essere donna, che è altra cosa) come di un’Anima che si fa emergente: il femminile allora non pertiene ad un genere, non è una tonalità o un atteggiamento, bensì un impulso su base organica, come osserva per l’appunto Valère Novarina in All’attore, pertinentemente contestualizzato dalla curatrice Katia Ippaso: “Tutti i grandi attori sono femmine. Per la coscienza estrema che hanno del loro corpo di dentro. Perché sanno che il loro sesso è dentro. Gli attori sono corpi fortemente vaginati, recitano dall’utero; con la loro vagina, col loro fallo […] E gli si vuole impedire di essere femmine e di lavorare d’utero”. Non è intenzione di Roberto Latini fare originale outing, non rimanda ad un genere di teatro queer, en travesti, omosessuale: riafferma anzi la doppiezza (l’infinità) originaria dell’attore, la sua natura angelica, perché il suo corpo (dell’attore) è un corpo metamorfico, direbbe Kristeva, il corpo della significanza. Latini ribadisce l’identità ibrida e multipla del personaggio, sfonda i confini culturali di genere, rivendica i diritti dell’attore che nell’informe femminile non si crogiola o consola, piuttosto lo ri-genera nello spazio uterino della cavità scenica, fecondandola e fecondandosi attraverso la voce-phoné di beniana memoria. Ci vorrebbe forse Lacan per un caso del genere. E di questa scena, parca di attrici ma densa di femminilità, come riconosce Latini stesso, ci rende conto in un’intervista, che segue, sulla sua proposta di Ubu Roi. Una passione, quella per Alfred Jarry, che parte da Shakespeare e che a Shakespeare ritorna.
La scena del tuo Ubu Roi ha l’aspetto di un impaginato. Gli attori sono come figurine colorate che si stagliano su un bianco assoluto e si ravvisa un certo gusto fumettistico nelle caricature dei personaggi, nel grottesco fetisch rock o nel kitsch delle loro mises. Recupera con tutta evidenza l’incastonato black and white di Noosfera, sia Lucignolo che Titanic, ma restituendo respiro e fluidità alle figurazioni. Al di là di questo aspetto puramente estetico, anche la messinscena politica di Ubu Roi richiama la precedente produzione. Darò una risposta intima. É una cosa cui ho risposto già a me stesso. Lavorare con altri attori è sempre un piacere enorme - in realtà non vorrei fare spettacoli da solo - ma eticamente non ho la possibilità di offrire risorse. Avere una produzione significa poter lavorare con altri e capire come il mio lavoro possa andare ad armonizzarsi o a disarmonizzarsi con loro. Il problema sta solo nel dove incontrarsi: se loro entrano nella mia noosfera o il contrario; oppure se creare uno spaziotempo che è il luogo di un appuntamento. Alla fine sono stati gli altri ad armonizzarsi a me, in solo 21 giorni di prove, nel contesto di una produzione mossa da una macchina quale quella del Teatro Metastasio. Sono loro, gli artisti, che mi riaccolgono in quello spaziotempo che ho partecipato a creare; loro che lo costruiscono dall’interno. Per Ubu Roi mi sembra di essere andato ad un appuntamento: la pagina bianca che la scenografia suggerisce è il foglio libero su cui disegna un bambino, e lì che vado col mio procedere. E se penso alla struttura e alle figure di Ubu Roi, immagino che la terza parte di Noosfera sia possibile. E magari è intitolata a CB, o a Pinocchio, o ad Artaud, non avendo a che fare completamente con nessuno di questi e con tutti quanti nello stesso tempo. Se estraessi le parti che compongono questo Jarry, comprendo che sono fonte della mia anomalia rispetto alla standardizzazione di certe carriere, perchè negli anni mi sono conquistato la libertà di fare quello che mi sento. Se avessi proseguito con la linea di Ubu incatenato, Fortebraccio Teatro si sarebbe ricavato una fetta di mercato come “teatro e tecnologia”, ma quel meccanismo, il dispositivo della motion capture e il resto sono stati per me solo un’amplificazione del corpo e proseguendo lungo quella direzione veniva Iago. Arrivare allora ad Ubu Roi dopo Noosfera non può non tenere conto di quello che diventa fatalmente un percorso. E “fatalmente” nel senso greco del termine.
Il tuo Ubu Roi è anche uno zibaldone shakespeariano. Per parlare della presenza di Shakespeare in questa tua “conduzione” di Alfred Jarry, proporrei due immagini che possono definirne le qualità: ovvero l’infiltrazione e il geyser. Nel primo caso, mi riferisco alla penetrazione liquida, quasi inavvertita, di una presenza che si manifesta postuma; nell’altro invece la dirompenza, la quasi citazione, di battute e situazioni, al limite del blasfemo, che diventano subito parte del paesaggio senza costituirsi in objet trouvé o trouvaille comica. Mettersi sul testo per finire poi in scena significa fare lo sforzo di dimenticare le cose che so per riconquistare l’incantamento. Devo decidere Ubu Roi costantemente: non quello che presumo, ma quello che incontro in quel momento preciso. Devo usare l’occasione Ubu Roi, quella che è dentro Jarry, stasera, non per la letteratura teatrale. Ho scelto allora un gruppo di artisti con cui ho lavorato in precedenti produzioni e che stimo per la loro passione, ma senza sapere quale sarebbe stata la distribuzione dei ruoli. Il fatto che potesse esserci Shakespeare è stata una decisione presa ad un certo punto. Jarry gioca con Shakespeare, questo è Ubu Roi. Shakespeare sta a monte e testo alla mano, scena per scena, potrei individuare chiaramente ogni riferimento: Macbeth è il più evidente, ma c’è Giulio Cesare, Amleto, Riccardo III, anche La tempesta secondo me. Ma ad un certo punto ho dovuto smettere di vedere in Jarry tutti questi riferimenti. Ero sicuro che Ubu Roi sortisse da Shakespeare e pensavo inizialmente che fossero le streghe di Macbeth a metterlo in scena. Ma era un tentativo troppo pretestuoso. Shakespeare deve essere una possibilità, “la parte esterna” una volta tanto. Hanno contato allora molto le parole, i gesti, le piccole azioni come microriferimenti. Così anche nelle cose più pop lo si può rintracciare, ad esempio nella figura dell’orso che viene da una battuta del Macbeth legata allo spirito di Banquo.
Questa di Ubu Roi è una versione fiabesca della pièce, adatta ad un pubblico variegato e trasversale anagraficamente. La combinatoria, i colori, le composizioni, le sagome che si muovono in scena sanno di saga cartoon dove il gusto esotico, diventa un tocco che seduce e spiazza. Lo Zar alla giapponese, gli ombrellini cinesi, le canne di bambù di eremiti simil tibetani, il rituale del tè trasfigurato in un barbecue… tutto questo e molto altro ha risvegliato in me il ricordo del celebre Hamletmaschine dei Magazzini Criminali, anche se la tua è una patinatura da caratterista, un gioco, e non risponde alla necessità di un rapporto dialettico con l’Oriente, tantomeno ha valore simbolico-espressivo. L’esotismo ha a che fare con un sapore, non ha pretesa di riferirsi ad alcunché. Mi sono reso conto che avevamo bisogno di pensare a Ubu Roi come ad uno spaziotempo in viaggio. Ubu Roi è Altro, è un’alterazione, ma vale come tale se lo si mette a confronto con la normalità, con quello che sarebbe il teatro al di fuori di Ubu. Se però lo guardiamo dall’interno, siamo il Mondo. Ubu ci dice un’invenzione con coraggio, inventa un gioco circoscrivendolo nella serietà del mondo intorno, secondo quella modalità che operiamo da bambini. Gli Ubu sono un pianeta in movimento e le scimmie, quelle maschere che ho tanto cercato, sono i testimoni di questo mondo qua. L’arrivo del personaggio di Pinocchio diventa allora qualcosa che dà dignità a loro stessi, in quanto ospite-testimone. Una dignità che ha anche a che fare con la carne, con la materia, perché c’è bisogno che le idee diventino tattili, tangibili, usate, praticate.
Hai deciso che in questa produzione non avresti fatto parte della “meccanica” scenica bensì avresti condotto la regia. Ti sei tuttavia ritagliato questo ruolo, per citarti, di “testimone” attraverso la silhouette pinocchiesca, che se da una parte fa il verso a Carmelo Bene, dall’altro acquista nuances sadomaso - soprattutto nel suo alterego scheletrico, che non può non ricordare la performance di Marina Abramovic Cleaning the Mirror. L’idea del burattino e dello scheletro sono andate insieme e in mezzo c’è la carne.
Cioè il problema dell’incarnazione… Che peccato, ho sempre pensato, a chi crede o spera che il burattino di legno diventi un bambino. Se ci togliamo questo “che peccato”, rimangono due parentesi che contengono un bel niente. È solo una questione di immaginazione. La richiesta è di riferirsi a Pinocchio con me in scena e penso che uno dei momenti più importanti della mia proposta sia quando Padre Ubu [Savino Paparella] si rivolge a Pinocchio, e si guardano, come in uno specchio.
Mi domando però se questa versione hard del burattino è da ascrivere ad una tua scelta o se Marion D’Amburgo, qui coinvolta come costumista, ha in qualche modo influito. Marion D’Amburgo non è (solo) una costumista ma è (anche) un’attrice che si è messa addosso tanti costumi. Qui non sta mettendo in scena la sua visione ma sta mettendo addosso a degli attori delle cose che sa che gli attori possono usare. Con Marion condivido una grammatica, che sentita da fuori è sgrammaticata ma tra noi funziona e ha generato questo darkside of Pinocchio, sorto dalle nostre visioni incrociate. Le avevo chiesto un Pinocchio filologico a partire da CB – ma sapevo perfettamente che non lo avrei imitato in nessun modo - e parlandole dell’idea di serialità, di un Pianeta delle scimmie che immaginavo per Ubu, le è venuta in mente l’Arancia meccanica e mi ha sottoposto l’idea della banda di Kubrick, riaffrontata, come fa lei, recuperando il teatro antico. Lo spettacolo alla fine fornisce indizi e la verità non è presunta…suggerire ha più chance di dichiarare.
Bologna, 21 febbraio 2012
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