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La sindrome di Bogart



Al Magazzino Parallelo di Cesena la confessione di un (ex)duro

[Silvia Mei] In tempi di “celodurismo”, l’icona del macho tronista dalle battute assimilabili all’“Ehi, bambola”, rimescola nelle mutazioni di un oggi dove pantaloni e borsalino non sono più prerogative di genere.
Lo sa bene un galante del set francese come Jean Dujardin, prossimo alla scalata degli Oscar con The Artist, intimato a ritirare i poster del suo ultimo film Les infideles, per pose equivoche e blagues politicamente poco corrette sulla donna come oggetto (sessuale, s’intende).
Matteo Garattoni, performer di assortiti registri traghettato dalla danza al teatro senza soluzione di continuità, recupera tuttavia con grazia la figura retrò di un duro anni Cinquanta, Humphrey Bogart, stimolato da similitudini fisiche e attingendo all’autobiografico: Bogartismo.
La scena da bungalow clandestino in una desolata area industriale del cesenate è uno speciale collante drammaturgico al cabaret poetico – così recita il sottotitolo – traslato dal leggendario, cinematografico Rick’s Café Américain di Casablanca, quell’area franca dove si pizzicavano nazisti francesi e resistenti in fuga sulle note di As time goes by di Herman Hupfeld. Qui, invece, non ci sono cercatori di teste o graduati compiacenti per una bella amicizia, i tempi sono cambiati, e anche la geografia si aggiorna: non più europei in cirenaica ma marocchini e vucumprà nel centro città, che offrono ad un avventore assorto e contemplativo, forse anche ammorbidito da vari cicchetti, e dalla virilità ben esposta, una serie di pretesti per confessare le proprie fragilità e ossessioni (ad esempio la vertigine dei cinquanta modi per ri-qualificare il sesso femminile).
É una questione di stile, prima di tutto, essere maschi: sapersi addobbare di un cappello o vestire un trench non è roba da modelli, bisogna essere in grado di interpretare un ruolo e di saperlo sostenere. Evidente allora quanta autocritica, ironia ed esagerazione grottesca – quel ciarpame da uomo che non deve chiedere mai, che ancora vive il complesso delle dimensioni e del leporello dongiovannesco – riposino nel dramma intimo e nella crisi d’identità maschia che l’artista cesenate con rassegnazione e indolenza constata: “È troppo dura fare il duro”, dichiara allo scoppio di una sigaretta-petardo che gli affumica il cappello, e nostalgicamente reclama la canzone del cuore, citando la Bergman-Ilsa di Casablanca con la battuta entrata nella storia del cinema: “Suonala ancora, Sam” (che, in bocca ad uomo, si apre a non indifferenti ambiguità).
Bogartismo è mimo, grammelot, pirotecnia vocalica e da vocalist, invenzione goliardica alla Roberto Benigni (per il campionario lessicale) e all’Alessandro Bergonzoni d’antan (nei calembour che giocano sulla letteralità delle parole), rimescolamento trash nell’oggettistica giocattolo che predica un ritratto maschile tutt’altro che impietoso, bensì tenero, fragile e nostalgico da genere in via d’estinzione.

 
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