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Sguardo all'indietro sul Magfest / Corpo – Parola - Potere



[Carolina Ciccarelli] Ad aprire il programma di attività teatrali abruzzesi del 2012 il festival internazionale di donne nel teatro contemporaneo MAGFEST. Nato nell'ambito del Madgalena Project, dopo ventuno anni di assenza (il primo festival italiano della rete fu organizzato nel 1988 da Silvia Ricciardelli del Teatro Koreja), il festival è stato riportato in Italia  da Annamaria Talone, Valentina Tibaldi e Gabriella Sacco con il nome attuale di Magfest, a sottolineare quel tipo di incisività caratteristica di un evento effimero quale un concerto rock. Un quadriennio, questo del MAGFEST italiano, che dal 2009 al 2012 ha visto alternarsi le città di Pescara e di Torino come sedi di dibattiti, incontri, spettacoli e seminari in un'atmosfera di respiro e riflessione tutta al femminile. Dal 4 all'8 Gennaio 2012 i luoghi del festival sono stati Pescara, Chieti e, indirettamente ma più di tutte, la città de L'Aquila, il cui terremoto segnò anche il primo Magfest abruzzese. Al termine del festival, dopo aver partecipato ad alcune delle attività del ricco programma, si capisce che esso è stato concepito come un insieme di tasselli quadrati serratamente intersecati le cui linee di demarcazione appaiono, al termine, le voci delle studiose e professioniste – teatrali e non – che hanno partecipato alla costruzione della scacchiera, la cui forma e concretezza è data dall'interno e dal valore dei singoli tasselli, ma la cui composizione, sola, dà pieno significato alla recentissima edizione concepita da Annamaria Talone. Alla fine, è come se Annamaria Talone, la direttrice artistica del Magfest abruzzese che ha scelto di intitolare questa edizione Corpo-Parola-Potere, ci avesse fatto percorrere una strada ad occhi chiusi, facendoci accompagnare fedelmente, di volta in volta, da una voce diversa, per poi metterci di fronte alla necessità di voltarci per capire il senso di tutto quel cammino intrapreso. E lì, in quell'attimo unico in cui il disegno di un intero festival appare, è proprio lì che risiede il potere dei corpi e delle parole di un evento come questo. Già il titolo, di per sé efficace e significativo, contiene nella catena di tre termini (Corpo-Parola-Potere) una pluralità di rimandi capaci di introdurre la riflessione in anfratti inaspettati come è chiaramente emerso nella conferenza finale del Magfest. Un dialogo assolutamente intenso, quello tra Julia Varley, co-fondatrice del Magdalena Project (www.themagdalenaproject.org), e Chiara Zamboni, studiosa di Diotima (www.diotimafilosofe.it), comunità filosofica femminile nata nel 1983 nell'università di Verona. Professioniste in ambiti diversi, entrambe molto legate al teatro – una in veste di artista, l'altra di spettatrice – e alla riflessione sul mondo femminile, le due donne hanno toccato i medesimi punti, da distanze diverse seppure complementari, evidenziando percorsi di connessione possibile tra i tre concetti del titolo. A partire dall'ambivalenza insita nella parola potere, si è fatta attenzione a porre la distinzione tra magt e kraft, che in lingua danese indicano rispettivamente il potere politico, quello che per Foucault ha a che fare con il dettar regole, e la potenza, quella forza positiva e dirompente che riguarda molto da vicino sia la parola che il corpo. Potenza che, come dice Julia Varley, attrice e regista dell'Odin, si dissocia dal concetto di vigore, anzi, deve necessariamente essere vulnerabile, delicata e umana perché solo l'accettazione della vulnerabilità della nostra potenza ci permette di non nasconderla dietro il potere. Potenza delle parole che, come le azioni, hanno la capacità di cambiare le cose, nel bene e nel male in quanto orientano la nostra vita levigando il nostro comportamento sin dall'infanzia, da quando, cioè, all'interno del grembo materno, percepiamo vibrazioni, ritmi e tonalità del mondo esterno. Inversamente, modellare la propria voce vuol dire modificarne i parametri sonori e, di conseguenza, orientarne il senso e i significati della comunicazione. Non solo un contenuto di verità delle parole, quindi, con la possibilità incommensurabile di segnarci, ma anche la forma che a quelle parole diamo attraverso il corpo. Sono i caratteri della lingua della madre, dice Chiara Zamboni, un linguaggio corporeo e affettivo, una lingua tipicamente femminile le cui caratteristiche, in età adulta, ritroviamo nella poesia, in quell'univocità di suono, senso e percezione a cui non chiediamo chiarezza, ma densità e profondità di immagine. Una lingua a cui non chiediamo definizioni, ma da cui desideriamo che ci porti in un altro posto. Su questa parola, che è una parola-verbo e non parola-descrizione - una differenza a cui fa più volte riferimento Julia Varley nella conferenza finale di questo Magfest- bisogna lavorare. Poetica e femminile, questa parola non ha la pretesa di essere obiettiva, ma assolutamente personale ed intima, essa deve diventare parola di donne del Magdalena Project capace di abitare lo spazio che viene a loro dedicato sulla rivista The Open Page. Uno spazio, quello della rivista, di scambio e divulgazione del senso profondo del loro lavoro che parte dal loro essere donne, e non solo professioniste, e che nasce dalle loro esperienze di vita fissate una volta per tutte nella loro carne e nel loro corpo. Solo una parola così, vera in quanto attaccata ad un corpo che ha la libertà di raccontarsi, può scatenare tanta potenza da segnare chi legge o chi ascolta. Su questa capacità di trasmissione di sapere, di rivelazione di una forza intima agli altri attraverso la parola e il corpo, poggia il mestiere dell'attrice. La donna, come afferma Chiara Zamboni, è in grado di vivere tra sogno e realtà, in quel valico che le permette di dischiudere agli altri gli accessi di una inedita visione. Un limite che coincide con la soglia tra presenza e azione e di cui l'attrice è, secondo Julia Varley, la custode. Entrare nell'azione, continua l'attrice dell'Odin, vuol dire agire per cambiare, creare un sogno dentro cui perdersi per ritrovare, finalmente, se stessi. È quello che ha fatto Helen Chadwick con Dream through your singing mouth in uno degli spazi della città occupati dal Magfest, il Matta di Pescara, ex mattatoio ora adibito a  spazio teatrale. Attrice, cantante e compositrice, Helen, come molte delle protagoniste del festival, è un'artista poliedrica e sorprendente. Protagonista indiscussa delle sue performances è la voce che diventa musica e sibilla narratrice di racconti e storie, accompagnata, in questa occasione, da un bodhrán, un tipico tamburo irlandese della tradizione popolare che, dal canto suo, a causa del freddo, optava inizialmente per il non suonare permettendoci, così, di scoprire tutta la vitalità di quest'artista che, lasciata a piedi dal suo strumento e lavorando di sola voce, ha saputo abilmente intessere e mantenere i fili dell'intera performance con vivacità e scaltrezza. Pur arrangiando solo qualche parola in italiano, Helen Chadwick ha ammaliato con la sua voce e l'incredibile forza comunicativa dando un saggio al vero di come le potenzialità di trascendenza della parola /verbo riescano a travalicare anche le - all'apparenza insormontabili- differenze di lingua. Incantare per insegnare, per trasmettere una parte della propria vita ed esperienza, per indurre a sognare senza avere paura di farlo. Helen Chadwick invita gli spettatori a scrivere su un foglio il loro sogno ed anche il probabile modo di realizzarlo, chiede loro di riporlo in una busta con su scritto il proprio indirizzo e c'è da scommettere che presto ogni spettatore riceverà a casa la propria lettera in cui è custodito il suo sogno, scritto di suo pugno, come forma di testamento scritto a cui poi, nuovamente sollecitati all'azione, dovranno dare forma e vita, fedeli a se stessi e a ciò che mettono per iscritto. Perché i sogni, come le bolle di sapone che al termine dello spettacolo Helen fa fare agli spettatori, sono sì “sottili come un capello, ma concrete e leggere come i sogni”.
Porta a riflettere su come creare uno spazio altro per esserci, invece, il progetto Living Rooms appositamente ideato dalla studiosa Giulia Palladini per il Magfest. Partendo da un pezzo di storia al femminile, quello delle Preziose del seicento che avevano la consuetudine di riunirsi nei salotti delle proprie case per discutere e riflettere sui più disparati argomenti, eruditi e non, Giulia Palladini ha invitato quattro donne de L'Aquila ad accogliere nel proprio salotto altre donne, alcune completamente estranee, per intavolare conversazioni su tematiche prestabilite. Eppure, se le Preziose seicentesche non avevano difficoltà ad accogliere nella propria dimora, luogo garante di familiarità e riservatezza, altre donne, sicuramente la concomitanza storica non è stata altrettanto favorevole per queste donne aquilane: i salotti erano, infatti, quelli delle case ricostruite dopo il terremoto, luoghi di dimora (si spera!) non permanente, privi, quindi, di quella dimensione intima ricca di storia familiare di cui erano intrise le mura crollate nella notte fatale del 6 aprile 2009. Non home ma house, direbbero gli inglesi. Queste donne non avevano mai invitato nessuno nella loro abitazione provvisoria. Costringendole a mettersi in gioco, Giulia ha scosso dei fili e lo ha fatto con mano leggera e decisa, per trasmettere loro la parola che è necessario ricominciare a vivere e che, farlo, significa ripartire dal ricostruirsi un gruppo di relazioni umane, all'interno di mura transitorie, sì, ma intrise di preziosa vita presente.

Julia Varley, nel suo intervento a chiusura del festival, ha commentanto il progetto di Giulia Paladini dicendo che c'è qualcosa di profondamente teatrale nel meccanismo di incontro messo in atto da questo lavoro, o meglio, che ad esso sottendono i presupposti del teatro quali il ritrovarsi, comunitariamente, in uno stesso luogo per aprirsi allo scambio di esperienze, alternandosi nel vestire i panni dell'attore e dello spettatore. Realizzato tra il 21 e il 27 ottobre  2011, è stato girato anche un video-documentario. Le autrici Erminia Cardone e Cristina Vuolo, lo hanno presentato il 5 gennaio, in un pomeriggio interamente dedicato alla città de L'Aquila in cui hanno trovato spazio altre due voci femminili, quella dell'architetto Camilla Inverardi e quella dell'artista Rossella Viti, unite nel progetto L'Aquila in due: due donne, due linguaggi, due paesaggi.
Camilla Inverardi fa parte dello studio associato Terrae Mutatae nato a seguito del terremoto dall'unione di più studi d'architettura del centro storico de L'Aquila. Con l'aiuto di diversi professionisti e tecnici di settore, è nata “Un'idea per L'Aquila”, un progetto edilizio assolutamente originale per ricostruire la città sfruttando il sottosuolo avvalendosi, in ciò, delle più avanzate tecnologie. Presentato all'Expò di Shangai del 2010, il progetto è stato accompagnato da un cartone animato che, secondo il parere di Camilla Inverardi, lo ha reso più appetibile alla popolazione cinese, abituata da alcuni anni a iniziative simili, tecnologicamente molto avanzate, per rendere più vivibili le città  (il video del cartone è su http://www.studio-inverardi.it/cms/index.php?option=com_content&view=article&id=49&Itemid=51&lang=italiano).
La città de L'Aquila viene, quindi, ripensata da un punto di vista prettamente creativo, femminile, ma anche, aggiunge Annamaria Talone, non bisogna dimenticarlo, marginale innanzitutto perché progettare la ricostruzione di una città a partire dal sottosuolo vuol dire porsi ai margini dell'innovazione, vuol dire partire da presupposti "altri" rispetto a quelli consolidati dell'edilizia cosiddetta canonica. Marginale, poi, perchè riguarda una città che ha sempre inteso, anche prima del terremoto, la periferia come luogo al di fuori rispetto ad un centro e, quindi, rispetto ad esso, svantaggiato e provinciale. Julia Varley, sempre nel suo discorso a chiusura del festival, faceva notare che non è un caso se molte donne di teatro, oggi, scelgono di lavorare sulla o nella periferia, che è, appunto, una zona di rischio, ma proprio per questo bisognosa non di potere ma di quella potenza-forza dirompente che sottende la scelta di portare il Magfest in Abruzzo, essa stessa terra ingiustamente relegata ai margini e periferica. Sì, la conoscenza di queste donne di teatro può servire ancora, anche quando si trattasse solo di un piccolo gruppo di ascoltatrici, e Julia Varley può liberarsi di qualsiasi dubbio a riguardo perché qui Corpo-Parola-Potere hanno agito sul presente, sul futuro e a ritroso per modellare dei comportamenti comunitari e ridare voce e presenza ad un'identità femminile capace di operare incisivamente anche quando si trova, per scelta o necessità, ai margini: ecco il senso del Magfest.

 
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