VUOTI DI MEMORIA E FILOLOGIA DEL QUASI A proposito di Valentina Valentini, Nuovo Teatro Made In Italy 1963-2013, con saggi di Anna Barsotti, Cristina Grazioli, Donatella Orecchia, Roma, Bulzoni, 2015, 380 pagine.
Notte dopo notte dopo notte […] lavoro finché mi duole il cervello. Per arrivare all'esattezza perfetta. Per correggere il più infimo refuso in un testo che forse nessuno leggerà mai o che verrà mandato al macero il giorno dopo. L'esattezza. La santità dell'esattezza. Il rispetto di se stesso. […] L'Utopia significa semplicemente l'esattezza! (George Steiner, Il correttore [1992], Garzanti, 1992, p. 68)*
[Marco De Marinis] Gli studi teatrali italiani non godono di buona salute, nonostante un'impressione di apparente floridezza quantitativa. Soprattutto quelli riguardanti la scena contemporanea, perché in questo caso emergono drammaticamente (è il caso di dirlo), molto più che per l'antico, tutti i limiti dovuti alla mancanza di rigore e di consapevolezza metodologica, cui si aggiungono spesso una conoscenza inadeguata dei fenomeni di cui ci si occupa e poca chiarezza nei criteri delle scelte operate. Quando poi a questi limiti, quasi costitutivi per l'appunto, si sommano ancor più oscure volontà di rimozione, le scelte rispondono anche a spregevoli oltre che inspiegabili desideri di vendetta o rivalsa, e la mancanza di rigore diventa sciatteria sistematica, allora il risultato non può che essere davvero disastroso e da additare doverosamente alla pubblica disapprovazione. Purtroppo questo è il caso del volume di cui ci tocca parlare oggi, e della sua autrice-curatrice Valentina Valentini (d'ora in poi V.V.), non nuova del resto a imprese del genere. Dal momento che è lei appunto la curatrice dell'opera, oltre che l'autrice di quasi i tre-quarti delle pagine, tralascerò in questa scheda le incolpevoli (?) compagne di strada, sui cui contributi ci sarà modo di tornare eventualmente in altra sede. Né mi occuperò del sito web, a cui pure il volume vistosamente rinvia. Apparirà chiaro nel corso della mia disamina che i pesantissimi limiti del cartaceo non possono essere ovviamente rimediati in alcun modo rimandando a integrazioni elettroniche: sarebbe una ben curiosa funzione del web quella di dover riparare agli svarioni e alle omissioni delle pagine a stampa!
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Amore e anarchia. Uno spettacolo del Teatro delle Albe, a cura di Cristina Valenti, Corazzano (Pisa), Titivillus, 2015, 168 pp.
[Lorenzo Donati] Scrivere un libro su uno spettacolo teatrale è oggi operazione difficilissima. Nell'attuale panorama editoriale delle arti sceniche, infatti, il rischio di “parlarsi addosso” è dietro l'angolo. Non di rado si finisce per raccontare e dissezionare processi creativi che sono rimasti tali, dal momento che le opere finite hanno raggiunto solo una manciata di repliche; così il prodotto editoriale consuntivo spesso riflette su spettacoli a cui è mancato un confronto con diversi spettatori, con testimonianze orali, scritture critiche, note giornalistiche, saggi non premeditati etc. In questi casi, dunque, il libro corre il pericolo di restare quasi l'unico discorso sull'opera, facendo poco o nulla per alimentare quella cultura teatrale dai contorni sempre più chiusi che tutti conosciamo. Così, spesso accade di avere fra le mani volumi che non appena sfogliati “evaporano”. Un secondo rischio di un libro sui processi creativi risiede nella tentazione di mettere nero su bianco tutti i passaggi che hanno concorso a costruire uno spettacolo, conferendo ad appunti, annotazioni, dichiarazioni una dignità letteraria che spesso era consigliabile non avessero, perché naturalmente inscritte nel “chiuso” di un percorso creativo. Paratesti, insomma, estrapolati dal bagaglio di materiali “non rappresentabili” del lavoro di ogni attore e attrice e che una volta depositati sulla pagina finiscono per appiattire le “altezze” dell'arte, abbassandone il mistero, rendendo tutto troppo spiegato. Già dall'incipit è chiaro che Cristina Valenti, curatrice di Amore e anarchia. Uno spettacolo del Teatro delle Albe (Titivillus, Corazzano 2015), aveva ben presenti tali rischi ed è riuscita a evitarli. Il volume potrebbe anzi essere preso a modello per comporre libri a partire da una sola opera teatrale. «Abbiamo chiesto agli autori coinvolti di continuare il dialogo dello spettacolo», si legge nelle note introduttive a firma della curatrice, e davvero questo ci pare un punto di partenza in grado di marcare una credibilità sia scientifica che artistica.
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La prima, la migliore: il lungo elastico che porta guerra e morte in scena
[Laura Budriesi] “Fare teatro per noi è un atto di fede. Tanto di ‘pelo’, si dice a Taranto”. Così racconta Gianfranco Berardi del suo essere attore, e del particolare lavoro drammaturgico sviluppato insieme a Gabriella Casolari per lo spettacolo La prima, la migliore. Una messa in scena che si rifà al romanzo Niente di nuovo sul fronte occidentale di E.M. Remarque, ma attinge anche a più memorie biografiche della prima guerra mondiale (1914-1918), come ad esempio Giornale di guerra e prigionia di C.E. Gadda, con il preciso intento, per sua stessa ammissione, di lavorare sulla pietà. Una messa in scena che ha il respiro, il ritmo del teatro di narrazione e di denuncia, padroneggiando i frutti del “novecento teatrale”. In primis la costruzione dello spazio scenico, reso vivo, parlante, nella sua materialità, soprattutto attraverso gli oggetti che lo abitano: in particolare, la sedia di Berardi è rimando immediato a quella simbolo del teatro di narrazione, da Marco Baliani (Kohlhaas) ad Ascanio Celestini (Radio Clandestina). Poi c’è un lungo elastico che svolge funzioni multiple e di volta in volta si fa colpo di fucile che dà la morte, si trasforma in fangosa e soffocante trincea: un oggetto di scena dinamicizzato nel suo interagire con la corporeità dell’attore, il quale a sua volta plasma e riplasma il proprio corpo attraverso la plasticità dell’oggetto in questione, come nel caso del defunto dondolante sulle corde elastiche, portavoce inerte ed infilzato da vessilli delle nazioni in guerra, o dell’agonizzante fante ferito e bendato che osserva fissamente la morte.
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Marco Martinelli, Farsi luogo. Varco al teatro in 101 movimenti, Bologna, Cue Press, 2015, 47 pp.
[Marco De Marinis]
Studiando il teatro del XX secolo stiamo, con fatica e approssimazione, prendendo coscienza che la grande rivoluzione del teatro che il nostro passato ha vissuto qualcos'altro. Non era la Regia, il teatro come arte, era una diversa esperienza di uomini nel teatro e con il lavoro di teatro, esperienza che ha certo costruito mezzi espressivi e tecniche e cultura, ma soprattutto è stata la ricerca per definirsi in nuove situazioni. […] Nel teatro del Novecento c'è stata una esigenza costante e comune di originalità e di eccezionalità. […] I diversi teatri del Novecento sono vissuti cercando e dichiarando il loro prodotto come evento unico e irripetibile, al di fuori della serie 'normale' degli spettacoli, come espressione invece di una creazione originaria e fondante. E dunque è costante, nel Novecento, l'automatismo del legare l'evento teatrale ad un manifesto di poetica o ad una sistemazione intellettuale del lavoro, tanto che anche i diversi spettacoli diventano momenti esemplificativi, di parziale raggiungimento dell'unica idea/modello di teatro che è invece pienamente enunciata nel manifesto.
Fabrizio Cruciani, In Theatrum oratio (1982), in Registi pedagoghi e comunità teatrali nel Novecento (e scritti inediti), Roma, Editori & Associati, 1995, pp. 227-228.
Prologo sul “Teatro politttttttico”
Vorrei parlare di due giovani, un uomo e una donna, che irruppero in un serissimo (seriosissimo?) convegno sul teatro politico (organizzato da Beppe Bartolucci a Narni, nell'aprile del 1987, mi vedeva tra i partecipanti) e lessero un breve testo intitolato Teatro politttttttico, con ben sette t! In realtà a leggere fu solo lui, tutto compunto, mentre lei “gli stava accanto in posizione orante: indossava una giacchetta verde sulla quale aveva[no] infilzato delle forchette che sembravano entrare nella pelle, come un San Sebastiano di fine millennio”. Questi due giovani, serafici provocatori erano Marco Martinelli ed Ermanna Montanari, all'epoca appena trentenni e cofondatori, quattro anni prima, del Teatro delle Albe a Ravenna, insieme a Luigi Dadina e a Marcella Nonni. Il Teatro politttttttico oggi figura quasi all'inizio del loro volume Primavera eretica. Scritti e interviste: 1983-2013 (Corazzano [Pisa], Titivillus, 2014), pubblicato - con la nota descrittiva citata prima - in occasione del trentennale della compagnia e già recensito in questo sito (clicca qui).
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Un omaggio sospeso al tempo e alla memoria
[Rosaria Ruffini] Come a voler tornare indietro di trent’anni per rincorrere il tempo e chiudere un cerchio. E ridipingere i colori del passato, riportando il teatro de Les Bouffes du Nord all’aspetto che aveva nel 1985, quando diventò il tempio di uno dei rituali teatrali passati alla storia delle scene: il Mahabharata. Lo spettatore che entra nel teatro parigino per assistere alla nuova pièce di Peter Brook, Battlefield, è colto da stupore di fronte alla visione di uno spazio incantato e completamente spoglio. Illuminato di un rosso pompeiano (grazie al sapientissimo e segreto lavoro di luci di Philippe Vialatte), lo spazio verticale de Les Bouffes non è mai stato così regale. Su tutto sembra aleggiare una misteriosa e ricostruita polvere del tempo. Le pareti graffiate come a riportare tracce, il pavimento consumato e ricreato con un impercettibile tappeto ocra, svelano un’operazione che sembra un lavoro di restauro a rovescio che ricostruisce le rughe del tempo e ripresenta una delle concezioni spaziali più evocative che il ‘900 abbia conosciuto. D’altronde anche gli spettatori sembrano essere gli stessi che videro il Mahabharata nel 1985. La platea incanutita è composta quasi esclusivamente da visi segnati dall’età, fatto sorprendente per Les Bouffes solitamente frequentato da giovanissimi e scolaresche. Ma questa è il momento della nostalgia. Anche per Brook, che propone oggi un episodio inedito di quel lungo e intenso lavoro che fu il Mahabharata, lo straordinario poema indiano adattato da Jean-Claude Carriere. La breve pièce s’intitola Battlefield (ovvero Campo di battaglia) e non è certo un caso che il titolo metta l’accento sul luogo. Battlefield infatti omaggia ed esalta lo spazio vuoto totale de Les Bouffes, testimone e protagonista di anni di ricerche teatrali.
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