l’ultima avventura del Théâtre du Soleil di Silvia Mei
È inutile, dobbiamo arrenderci: di registi del calibro di Ariane Mnouchkine, classe 1939, tempra di un giovane virgulto, si è perso lo stampo! L’ultima creazione collettiva diretta della regista francese, Les Nauphragés du Fol Espoir (Aurore), in replica alla storica sede della Cartoucherie-Chateau de Vincennes, Paris (www.theatredusoleil.fr), è una festa per gli occhi e “un orgasmo dello spirito”, per dirla con Jean Vilar. L’arte e il popolare, la cultura e la scienza, l’artigianato e la tecnologia, si incontrano in una miscela esplosiva che è il cinema delle origini quando, ancora incerto nel suo specifico, si sarebbe di lì a poco agglutinato nelle esperienze formaliste ed elitarie delle avanguardie. L’arte popolare diventa l’occasione per intessere un discorso che unisce la settima arte col teatro, il cui sapere e competenze tecniche vennero attinte a piene mani dal cinematografo. Una ragione in più per esprimere continuità con le poetiche popolari d’arte del Théâtre du Soleil, che debutta con questo nome quarant’anni fa, nel 1970, nello spazio del Piccolo di Milano (non è un caso) col memorabile 1789. Spettacolo, quest’ultimo, che non poteva resistere alle tentazioni cinematografiche di Mnouchkine, figlia del noto produttore di origine russe Alexandre, che nel 1945 costituirà l’importante società Les Films Ariane, segnando già nel nome anche il destino dell’infanta. In effetti Les Nauphragés - alla fine uno spettacolo nello spettacolo, un sistema a scatole cinesi, sia narrativamente che nei dispositivi scenici, reali e fittizi - è il tournage di un film in nove quadri o episodi allestito nel solaio di un’osteria dei suburbi parigini alla vigilia dei fatti di Sarajevo. In una mise en abyme potenziata, il pubblico assiste alla produzione di un film muto in un improvvisato teatro di posa: è cinema allo stato puro, consigliato a genuini cinefili come a teatromani puristi.
Dopo l’ultimo lavoro Les Ephémères (2006), di non unanime consenso critico, l’avventura di Mnouchkine (perché di avventura si tratta e il naufragio è la metafora del lavoro di un collettivo come quello della sua “troupe”) tocca il traguardo di 45 anni di onorata attività teatrale (40 come Théâtre du Soleil, i primi come ATEP, legato all’associazionismo studentesco della capitale) con una creazione che sprizza di gioventù e dell’entusiasmo dell’iniziato al duro mestiere e all’onesta arte del teatro. Trenta attori in perfetto sincrono (non come le prime proiezioni del cinematografo) tra cui gli storici e superbi attori della compagnia, Maurice Durozier, Juliana Carneiro de Cunha e Duccio Bellugi-Vannuccini, nei ruoli principali, se ci viene passata l’espressione, dal momento che non sarebbe opportuno parlare di protagonisti (storici o narrativi) né di ruoli.
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Sans Objet Poesia della macchina.
di Giulia D'Amico
Aurelien Bory porta in scena al Mime Festival di Londra uno spettacolo futurista, in cui un braccio meccanico dà vita ad intense sequenze di poesia visiva. Humour, danze acrobatiche e sorprendenti effetti di luce non possono che affascinare la platea ed interrogare sul processo di meccanizzazione e d’evoluzione che l’uomo e la nostra società stanno vivendo.
L’atteso London International Mime Festival (www.mimefest.co.uk) è uno di quei pochi eventi teatrali che attira l’attenzione di un pubblico di tutte le età. Un evento in grado di ammaliare anche chi non ama particolarmente il teatro di figura e che permette ai più accaniti seguaci della scena internazionale di seguire il lavoro degli artisti più d’avanguardia.
Fra le compagnie francesi in programma, il Festival presenta, per la quinta volta, Companie 111 – Aurelien Bory (www.cie111.com) con la loro ultima produzione dal sapore futurista, Sans Objet. Elemento centrale e protagonista indiscusso dell’intera performance è un enorme braccio meccanico, tecnologia industriale nata negli anni ’70. Lo spettacolo ha inizio e l’intera scena è coperta da un immenso telo di plastica nero, il cui odore penetrante arriva sino in platea. Il braccio meccanico si muove lentamente e il telo inizia a scricciolare e a piegarsi. È l’intervento dell’uomo a rivelare l’aspetto della macchina: due uomini in completo nero entrano in scena e la liberano dal telo che l’avvolge. Si percepisce una certa curiosità fra il braccio meccanico e i performer, che pian piano iniziano ad entrare in relazione, seppur con qualche timore. L’evolversi del rapporto fra macchina e uomo sembra imprevedibile, oscillando continuamente fra gioco e guerra, fra scherzo e derisione, fra collaborazione ed imposizione. Si tratta di un rapporto di potere, forse di prigionia. Gli spettatori, testimoni di questo incontro, si ritrovano a partecipare empaticamente alle varie fasi di questo dialogo senza parole e grazie ad uno squisito tocco di humour, la visione dello spettacolo risulta particolarmente leggera e piacevole.
Da un punto di vista scenico, Bory è in grado di raggiungere momenti di pura poesia visiva, creando sorprendenti effetti di luce o semplicemente mettendo in relazione gli elementi che la scena gli offre. Particolarmente interessante il diverso impiego dei materiali, come il telo di plastica nero, che viene esplorato sia a livello sonoro, che olfattivo e visivo. Lo spettatore non può che sentirsi avvolto e coinvolto in questa performance plurisensoriale.
Il punto di partenza della ricerca di Bory sembra risiedere nello spazio da esplorare nella sua tridimensionalità, sfidandone la forza di gravità, grazie alla forza del braccio meccanico. Senza sforzo alcuno, la macchina è in grado di smantellare il pavimento della scena, utilizzandone le assi per erigere, in pochi minuti, una città di grattacieli. Ancora più affascinante è vedere il braccio meccanico prestarsi come base d’appoggio per i performer, sollevandoli in aria e dando vita a solenni danze acrobatiche. Il contatto fisico con il braccio meccanico influenza enormemente il corpo dell’uomo e i suoi movimenti nello spazio, sia a livello di ritmo che di traiettoria. Controllo e precisione: le parole chiave che guidano i loro muscoli. In scena, i loro corpi sono silenti, non si sentono i rumori dei passi né dei respiri, se non in un'unica sequenza in cui sono costretti a correre come dei criceti imprigionati in una ruota. Questo processo di meccanizzazione dell’uomo è seguito da un processo di umanizzazione della macchina, che non sembra semplicemente eseguire i comandi del tecnico che lo manovra da un angolo della scena, bensì i suoi movimenti appaiono, ai nostri occhi, come delle vere e priorie azioni precedute dal pensiero. Ma entrambe le trasformazioni nascondono qualcosa di mostruoso ed angosciante. Soprattutto verso la fine dello spettacolo in cui il braccio meccanico si trasforma in uno strumento di distruzione e la sottomissione dell’uomo diventa inevitabile.
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Il 2 gennaio scorso è scomparso il prof. Sisto Dalla Palma, eminente personalità degli studi teatrali in Italia, professore di Storia del Teatro e dello Spettacolo all'Università Cattolica di Milano e storico fondatore e animatore del CRT in quella stessa città per oltre trent'anni. Ci associamo al cordoglio e al rimpianto di quanti lo hanno conosciuto, apprezzato e amato, pubblicando due ricordi di allievi, oggi a loro volta importanti esponenti della nostra disciplina: Annamaria Cascetta e Claudio Bernardi
Un ricordo di Annamaria Cascetta
Sisto Dalla Palma se ne è andato. Una breve malattia che sembrava banale ha fiaccato sorprendentemente una tempra di straordinario vigore che ha profuso senza risparmio per decenni intelligenza, energia, idee, genialità, passione nel mondo della ricerca e della formazione universitaria e nel mondo delle istituzioni della cultura teatrale. Mario Apollonio fu il suo maestro. Fu lui ad aprirgli gli orizzonti del teatro, a far slittare la sua vocazione alla scrittura e alla fruizione solitaria della letteratura verso una più profonda vocazione alla parola partecipata della drammaturgia, che si gioca nella pienezza della presenza del corpo e del coro e nella concretezza del tempo e dello spazio dell’evento. Fu Apollonio, ormai in procinto di ritirarsi dalla mischia, dopo gli incomponibili dissensi con quel Piccolo Teatro alla cui fondazione aveva partecipato redigendo la famosa lettera programmatica, a alimentare in Sisto il desiderio di essere studioso e operatore insieme, a combattere una battaglia capace di giocarsi nell’intelletto e nella prassi. Quale drammaturgia? Non la routine o il mestiere del teatro, non la merce o lo svago digestivo, marginale nella città, non il rito mondano o sofisticato, non l’epidermica stimolazione della sensualità, ma la convocazione della comunità intorno allo spessore di senso del segno che si invera nel corpo e nel coro, che identifica il gruppo nelle sue fondazioni, nel suo progetto, nella sua utopia.
E le istanze della coralità furono la grande passione di Sisto, ben prima che la sociologia e l’antropologia della cultura tematizzassero le ragioni del pubblico: era l’idea dell’animarsi della vita collettiva, dell’artista che parla a un gruppo, ma anche risponde a un gruppo in un rapporto stringente che il teatro pone in essere più di ogni altra forma artistica, un movimento circolare, un dialogo “tra una vasta platea, e dei protagonisti, tra un coro e delle singolarità più autenticamente creatrici, che non si costituiscono mai come figure isolate, ma che sono piuttosto entità concretamente calate nel flusso della vicenda umana”.
Essere coro significa “non solo essere all’interno del gruppo come individualità creatrici solitarie, ma come coscienze capaci di un moto di condivisione collettiva, coinvolti in un processo di continua identificazione che può trascendere le singole determinatezze individuali e farsi rappresentazione universale”.
Fu questo il perno intorno a cui ruotarono le sue lezioni che affascinarono generazioni di studenti all’Università Cattolica di Milano, la sua Università, e all’Università di Pavia, dove ricoprì la cattedra di Storia del Teatro, intorno ai tragici greci, a Dante, a Manzoni, a Pirandello, a Beckett, agli artisti del teatro di ricerca e di sperimentazione. Fu questo il punto di avvio della grande avventura del CRT: il Centro di Ricerca per il Teatro che Sisto Dalla Palma fondò a Milano nel 1974 e che fece scoprire a una scena ancora avvitata sul teatro borghese o sul teatro nazional-popolare, il grande teatro di ricerca internazionale: in serate indimenticabili al CRT incontrammo Jerzy Grotowski e Tadeusz Kantor, Bob Wilson e Julian Beck, Richard Foreman, Meredith Monk il Bread and Puppet, l’Odin Teatret. Sisto non ospitava artisti, ma li ispirava, stabiliva con loro relazioni creative intense. Erano i maestri, ma anche i giovani talenti di cui egli fu attento e perspicace scopritore e valorizzatore: Sandro Lombardi e Federico Tiezzi, Gabriele Vacis, Daniele e Cesare Lievi, Romeo Castellucci, Silvio Castiglioni e tanti tanti altri fino alle ultime generazioni: Mimmo Sorrentino, Antonio Tarantino e Emma Dante di cui ha prodotto gli spettacoli più belli e della quale diceva con ammirazione: “E’un’artista, una donna ancora capace di indignarsi”. Indignazione e amarezza, grande amarezza accompagnò questi ultimi suoi anni in cui pure non rinunciò mai a combattere con il coraggio, lo sprezzo dell’isolamento che sempre ebbe: un leone. Lui che visse e animò gli anni belli e vivaci della cultura guardava con inquietudine al rischio di ripiegamento autoreferenziale dei giovani artisti del teatro e alla epidermica creatività delle forme della moda, soffriva la deriva della cultura che mortifica questi nostri anni.
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vivere e morire in nome di ciò in cui si crede di Filomena Spolaor
Il progetto culturale del Nuovo Teatro Nuovo inaugurato dal direttore artistico Antonio Latella vive della creazione di una compagnia stabile composta da sei attori, che lavora con sei registi diversi. Il tema della stagione 2010/2011 è il Fondamentalismo: un concetto non legato soltanto all’accezione religiosa del termine, ma anche a quella politica e culturale, per concepire l’amore e il rapporto con l’arte. Qui Latella ha costruito una casa del teatro. Federico Bellini e Linda Dalisi sono drammaturghi che curano tutti gli adattamenti e scrivono nuovi testi per i registi e gli attori che la abitano. A loro si affiancano altri autori, italiani e stranieri, che sempre su commissione elaborano nuovi testi. Ad ogni regista viene chiesto di lavorare a due spettacoli: uno “grande” (che coinvolge l’intera compagnia) ed uno “piccolo” (un monologo). Il repertorio guarda all’ Europa: per gli spettacoli “grandi” è incentrato sulle riscritture e sugli adattamenti; per quanto riguarda i monologhi, si tratta di testi nuovi che si soffermano su personaggi specifici. Tra i registi della casa, la giovane Agnese Cornelio dirigerà Incendi da Wajdi Mouawad (il 29 e il 30 gennaio 2011), adattamento di Federico Bellini e La fame (liberamente ispirato agli scritti e alla vita di Simone Weil), composto da Linda Dalisi (dal 10 al 16 gennaio e poi dal 2 all’8 maggio); Mk (formazione indipendente costituita da Lorenzo Bianchi, un compositore di musica elettroacustica, Biagio Caravano, un musicista e performer, Michele Di Stefano, un coreografo) si occupa di performance, coreografia e ricerca sonora: curerà la rappresentazione Kamikaze (dall’11 al 13 febbraio) e Giuda (dal 10 al 16 gennaio e dal 2 all’8 maggio); la portoghese Paula Diogo adatterà la regia di Madame (liberamente ispirato a “Madame De Sade” di Yukio Mishima), di cui è autrice insieme a Linda Dalisi (in scena il 12 e il 13 marzo), e di Rosa Lux, monologo sempre composto da entrambe e dedicato a Rosa Luxemburg (dal 10 al 16 gennaio e dal 2 all’8 maggio); Tommaso Tuzzoli firmerà la regia dell’adattamento di Federico Bellini al Brand di Ibsen (in rappresentazione dall’8 al 10 marzo) e de Il velo, testo scritto dallo stesso Bellini (dal 10 al 16 gennaio e dal 2 all’8 maggio); Pierpaolo Sepe, invece, dirigerà Guardami di Linda Dalisi (dal 21 al 23 gennaio e dal 5 al 10 aprile) e Prometeo di Federico Bellini (dal 10 al 16 gennaio e dal 2 all’8 maggio); infine, il regista Andrea De Rosa curerà il testo Tutto ciò che è grande è nella tempesta di Federico Bellini (dal 15 al 20 febbraio e dal 12 al 17 aprile), mentre Linda Dalisi guiderà la messa in scena del suo testo Misfit like a clown (liberamente ispirato a Opinioni di un clown di Heinrich Boll, in scena dal 10 al 16 gennaio e dal 2 all’8 maggio). Gli spettacoli vengono rappresentati ciclicamente nel corso dell’anno – a distanza di giorni, settimane, mesi – offrendo così la possibilità ad ogni spettatore di creare un proprio abbonamento. Ad aprire la stagione del Nuovo Teatro Nuovo è stata la maratona di Auguri e figli maschi! 6 sguardi d’autore sul fondamentalismo (presentata al Napoli Teatro Festival a giugno e nuovamente in scena dal 2 all’ 8 maggio 2011), con cui Antonio Latella ha espresso la propria testimonianza sulle conseguenze morali di un movimento di pensiero e di azione che contrappone mondo globalizzato e radicalismo dogmatico. Il direttore artistico ha curato la regia di sei monologhi scritti da sei autori diversi, sei monologhi per una mostra di parole, sei quadri dipinti con visioni diverse del Fondamentalismo. Sei atti unici, alla ricerca di un linguaggio che “traduca l’estremo urlo di chi muore per un’idea, per un Dio o per un amore”. Ogni attore è associato a una bomba, trait-de-union tra il regista e l’attore. Latella ha pensato a ciò che lo circonda, e nel tentativo di creare una possibilità altra ha ripetuto a Napoli il modello tedesco, che prevede la stanzialità degli attori per un anno, che insieme a sei registi e due drammaturghi abitano la casa del teatro. Il battito del respiro in questa residenza vuole combattere l’affermarsi dell’individualismo e dare la possibilità agli artisti di uscire dal meccanismo della vendita, della circuitazione, per riuscire a raccontarsi, ma senza pensare a una confessione. Latella ha descritto l’organizzazione di una stagione che prevede la creazione di un repertorio in cui gli attori passano creativamente attraverso registi e drammaturghi diversi, permettendo loro una crescita veloce. Lui afferma di aver scelto il tema del fondamentalismo perché il kamikaze arriva a perdere la vita per difendere la vita; è condannabile il fondamentalismo che uccide le persone. Un fondamentalismo esplorato nel suo significato politico, religioso, d’amore, come sacrificio, ma soprattutto ritornando geologicamente alle fondamenta sotto la terra, perché sono ciò che serve per creare e reggere ciò che viene dopo. Creare le fondamenta per un nuovo inizio significa, nella pianificazione di un regista critico militante, pensare di creare una casa di registi abbinati a testi e attori per cercare le basi di un tema, sviluppato in spettacoli tenuti in repertorio. Il pubblico ha la possibilità di scegliere, partecipare, intessendo un rapporto con gli attori, non condizionato da un abbinamento commerciale, ma spinto dal desiderio di andare a vedere cosa fa, come cresce un professionista della scena.
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una conversazione con Tomasz Kirenczuk a cura di Chiara Pirri
Corso Teatro è un progetto promosso dal Teatr Nowy di Cracovia, dal Ministero per i Beni Culturali Polacco e dall’Istituto Polacco di Roma, teso a far conoscere, in Italia, pratiche e teoriche del teatro di ricerca polacco degli ultimi vent’anni. Curato dall’associazione Teatr Nowy di Cracovia, una delle istituzioni culturali più popolari in Polonia per la ricerca teatrale, e dall’Istituto polacco a Roma nelle persone di Piotr Sieklucki e Tomasz Kirenczuk, ha presentato un ciclo di spettacoli all’Angelo Mai e alla Casa delle Culture a Roma.
Come sottolinea il curatore la scelta degli spettacoli privilegia un teatro giovanissimo, con attori e registi tra i venticinque ed i trent’anni, e dai caratteri internazionali, sia nei temi trattati che nelle estetiche. La fine del mezzoporco è l’esempio di questo carattere “globale” a cui anche il giovane teatro polacco sembra attenersi.
Gli attori-performer, dalle notevoli capacità espressive, interpretano un testo che prende spunto dalle metamorfosi di Kafka. Affrontano, non solo attraverso la parola, ma utilizzando significativamente sia la musica che il corpo, che la scena, come il teatro postdrammatico ha abbondantemente insegnato, temi riconoscibili anche dal nostro pubblico: il rapporto di potere tra uomo e donna, in cui spesso la donna soccombe, il significato ed il senso dell’essere attore in questo teatro dove non c’è più finzione e ciò che il pubblico si aspetta è solo un po’ di sano voyeurismo (tutti nudi!), la macellazione, a cui non solo il maiale ma anche il corpo umano è oggi sottoposto. La luce ed il candore della scena mettono in evidenza la materia, la carne umana bestializzata della donna che attua a comando un movimento ripetitivo, su e giù, a ritmo di musica, mentre il marito la presenta, frutto del terzo matrimonio, bell’oggetto del suo possesso. Marito e moglie stazionano in due perimetri quadrati ai due estremi della scena: i due poli opposti ed interscambiabili di un conflitto senza soluzione. L’interpretazione espressiva ed antinaturalistica accentua il carattere grottesco della situazione. La moglie e il marito coinvolgono gli spettatori in un ruolo di semi passività rivolgendosi con battute irriverenti a coloro che entrano in sala a inizio spettacolo, poi la donna avvicinandosi alla platea inscena una danza semi erotica per spettatore solista con i-pod alle orecchie. Come da estetica postmodernista il testo è frammentato, la ripetizione vige: sia come loop di frasi ripetute, sostenute dalla musica elettronica creata in scena da un dj, che come strumento del capovolgimento di ruoli tra uomo e donna, attraverso lo scambio di battute, pronunciate prima dall’uno e poi dall’altro.
Ho incontrato il curatore del progetto, docente di teatro presso l’università di Cracovia e direttore artistico di un teatro indipendente della stessa città, per tentare di inquadrare con lui il contesto culturale e politico in cui il teatro di ricerca polacco si sviluppa e tentare di tracciare un confronto proficuo con la situazione italiana…
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