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Nostra Signora della Voce



Incontro con “la maestra” Chiara Guidi intorno alla verità retrograda della voce

[Jennifer Malvezzi]

Una sera d’inverno, periferia sud di Parma. Il cascinale che ospita le sale di Europa Teatri taglia la nebbia burrosa come una flebile lucciola. Come nelle fiabe, quando dopo tanto vagare per selve ostili si trova un caldo riparo, un rifugio. E dentro ad aspettarti c’è lei, Chiara Guidi, la voce di tutte le fiabe del mondo: strega, orchessa e mamma insieme.

“Come ti chiami? Chiara. E tu? Tu come ti chiami?”

Il punto di partenza è il proprio nome. La risposta al quesito che ci si sente porre da sempre, così automatica da non richiedere sforzo. Ascoltare la propria voce e seguirla con un dito. Sembra di essere tornati a scuola, nell’ora di educazione musicale, quando la maestra dirigeva insegnandoci a solfeggiare. Anche Chiara Guidi è una maestra, con la sua lunga gonna a quadri e gli occhi che brillano di entusiasmo. Una maestra speciale, di quelle che ti insegnano a scrutare nella struttura invisibile del mondo, a sentirne “le molecole”.

Di solito non dimentico mai una voce. Quando avevo undici anni mio padre morì. Mi ricordo solo la sua voce soffocata e i colpi ritmici, contro al muro, di mamma che chiedeva aiuto. Non pensavo alla morte, ma “guardavo” le voci. La voce del babbo mi aveva attratto, colpito. Per comprenderlo, la imitai. Era un modo per averlo con me. Era un modo per superare il lutto. Il canto è la voce del funerale. Il canto è la tragedia. La voce diventò per me un’ossessione, da trent’anni sono alla ricerca di un metodo per afferrare la voce che mi scappa, per andare a ritroso, recuperare una voce e rifarla. Per questo chiamo l’oggetto della mia ricerca la “verità retrograda della voce”.

La voce di Chiara può imitare tutto quello che l’orecchio umano riesce a sentire. Dopo aver ascoltato con attenzione, dopo aver “guardato”  un suono nella sinfonia del mondo, si sforza di ripeterlo fino a che non ottiene la giusta intonazione che le permette di elaborare una partitura e di “far risuonare” quella voce, una, dieci, cento volte sempre uguale.

Iniziai col cercare la silhouette della voce, tracciando una sagoma arbitraria su un foglio, mentre leggevo un testo.  Da bambini, per capire, ci si sforza sempre di copiare. Erano segni senza significato. La cosa più difficile è non lasciar trasparire il significato. Iniziai a porre queste sagome, questi disegni, queste frecce sopra le sillabe del testo. Il primo testo che assunse questa scrittura neumatica fu Uovo di Bocca. Io e Claudia (Castellucci), intonandoci, possiamo ripeterlo coralmente, in modo sempre uguale. Questo è il primo testo dove la voce si è permessa di stabilire millimetricamente, neuma per neuma, il suo passaggio sulle parole, il suo ritmo interno. Una partitura emotiva fissa che la voce stessa detta, il suono preciso di quel preciso testo.
A un certo punto ciò che mi mise in crisi fu la spazializzazione della voce. La voce si muove non solo in direzione del pubblico, ma in tre dimensioni. In quello stesso periodo cominciai ad avere delle specie di allucinazioni: vedevo nella realtà un’immagine che mi colpiva e, poco dopo, la ritrovavo proiettata sul testo, sopra ai fonemi. Avevo bisogno di un’immagine precisissima, non mi bastavano più le frecce o le sagome. Avevo bisogno di un’immagine precisa che il testo stesso richiamava. Ed ecco la soluzione: davanti a quella distesa di oggetti, anche la mia voce doveva farsi corpo, muoversi in tre dimensioni. La mia voce doveva crearsi uno spazio per poi iniziare ad abitarlo costruendoci dentro, con la voce stessa, delle figure e una storia.

Chiara Guidi ricorda, allora, che in questa fase l’incontro con Scott Gibbons e la collaborazione per la Tragedia Endogonidia (2002-2004) si è rivelata fondamentale. È lì, in quell’opera e grazie a quella collaborazione creativa, che nasce la tecnica “molecolare”, un approccio microscopico che, attraverso la sintesi granulare del suono, consente di ridurlo  in frazioni per analizzarlo, trasformarlo e ricomporlo.

Solo così, con l’utilizzo di questa tecnica, si possono vedere i volumi delle molecole sonore e ricostruirle. La “massa sonora” è come una zolletta di zucchero e io, con l’uso della voce, vado a separarne i granelli. Ogni oggetto ha un suo suono. Ho bisogno degli oggetti come un pittore ha bisogno della modella; non per copiare la realtà o per interpretarla, ma per  poterne toccare la sostanza, per trovare la sua linea idiomatica con cui tracciare il disegno. Si tratta di trovare la mia voce. Di vedere il corpo della mia voce. Alla fine degli anni Novanta, mentre recitavo, ho visto per la prima volta la mia voce staccarsi da me. Aveva un corpo, aveva una sua andatura. Era una signora. Volevo conoscerla. Sul palco, oltre al mio corpo visibile, la mia voce pone un altro corpo che sottomette le parole al suo dominio. Per questo ho sempre bisogno di testi. Sono avida di testi. Mi servono i testi per riprodurre le voci che ho sentito, anche se i testi spesso le respingono. Devo scegliere la forma giusta della voce combattendo. E solo quando la forma scelta resiste a una serie di prove e controprove, essa è pronta per la scena. Inoltre il corpo e la voce rispondono agli stimoli sonori dell’ambiente esterno, cambiano con essi. Per questo devo provare la stessa voce in diversi luoghi, da sola e tra gli altri, al chiuso o all’aperto. È un lavoro molto delicato.

La voce stratifica tutti i paesaggi di una vita. In ogni istante, il nostro corpo e la nostra voce rispondono al brusio del mondo equalizzandosi. Con enorme pazienza Chiara Guidi intreccia, in questa Relazione sulla verità retrograda della voce, propri ricordi di vita, esperimenti empirici di ascolto, nozioni di tecnica molecolare ad affermazioni etiche di grande rigore. Sembra di giocare, ma a un gioco serissimo. Una lezione non solo di voce, ma di vita.

Mi chiedo continuamente “come ti chiami?”. Mi alleno su questa domanda ascoltando attentamente la voce mentre emette la risposta. È dall’osservazione della realtà della voce che arrivo al palcoscenico. La voce, infatti, è per sua natura sfuggente. Occorre inseguirla. Per questo non devo evidenziarla, ma domarla. Occorre crearle un cammino lungo il quale dirigerla. La partitura è questo: il frutto di un dialogo tra la voce vera e quella copiata. E nel mezzo si deve imparare a domare la voce. A domare il teatro.
Nell’antica Grecia, tutta la società era fondata sulle due ottave dell’ordine dorico: l’intera polis era fondata sulla musica. Noi italiani, invece, l’abbiamo bandita per sempre dalle nostre scuole. Non si tratta di una semplice constatazione storica. È una questione etica. La musica, infatti, è l’unica tra le arti a non essere rappresentativa, ma manifestativa. Una voce, un suono, non si possono descrivere con le parole. Un’immagine sì. Quello che in questi giorni stiamo vivendo sulle nostre spalle come compagnia (la polemica internazionale intorno allo spettacolo Sul concetto di volto nel figlio di Dio) ne è la dimostrazione. Riceviamo quotidianamente minacce da parte di persone che, in molti casi, lo spettacolo non lo hanno neppure visto. E tutto questo per un’immagine. In questo preciso momento storico, dopo che il suono è già stato bandito, c’è un pericolo reale di censura sulle immagini. A questa censura latente corrisponde un andamento reazionario del teatro che continua ad avere un’estrema fedeltà al testo scritto, ad un’idea di “Cogito ergo sum”. Ma perché non possiamo agire come i bambini e pensare e immaginare contemporaneamente?


Spettacolo visto il 21 gennaio 2012

 






 
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