(perAspera Festival / Drammaturgie Possibili, parzialmente 17, 18, 24 giugno 2011)
[Tihana Maravić ] I torsi magri e nudi, del musicologo slovacco Milan Adamčiak (65 anni) e del musicista performer ungherese Imrich Kovács (25 anni), che vediamo eseguire un'improvvisazione musicale in un hangar - spazio che funge da strumento e si presenta come una composizione astratta tra i fili d'acciaio, stringhe di diverso materiale e spessore, piatti metallici, oggetti risonanti, microfoni, impiccati, tirati, sospesi - esprimono qualcosa di strano e di straniante. Apparentemente non succede niente d’inusuale: è in corso una sperimentazione artistica che può assomigliare ad un happening musicale degli anni sessanta - Adamčiak infatti dichiara l'influenza di John Cage e della poetica dei Fluxus - all'inizio della quale gli artisti si consultano su come svolgere il compito che si sono dati. È questo dialogo infatti - (nel quale i due concordano di suonare quaranta minuti creando un punto di silenzio e portandolo dal basso in alto), che comincia con una serietà mortale e finisce con un ridere aperto e con una pacca sulla spalla che il vecchio dà al giovane come per dire "coraggio, divertiti" - che rivela la fragilità e la vulnerabilità di un processo artistico. Sia lo spazio che i corpi dei performer sono nudi, spogliati, e come disarmati di fronte alla camera di Luis De Matos per il video Feedback che noi, spettatori di perAspera, abbiamo avuto occasione di vedere (in rete sul sito: http://www.youtube.com/watch?v=Qf_8A0tLnkU). L'atmosfera di questo lavoro - che definirei strana (ammicca alle rivoluzionarie sperimentazioni del secolo scorso e con un'idea est-europea dell'approccio all'arte), e straniera, in quanto non familiare - è creata da un perfetto disequilibrio tra il serio e lo scherzo, tipica del gioco infantile: la serietà di una dedizione assoluta e la scherzosità di un gioco supremo. È con questa immagine-desiderio di un fare sul serio, non prendendosi troppo sul serio, che ho osservato gli altri eventi proposti da perAspera (composto soprattutto dai lavori creati nel territorio, e in parte minore dai lavori degli artisti più o meno stranieri a questo territorio), cercando di capire qual è l'impronta domestica e quale quella forestiera (sia nel senso territoriale sia nel senso di straniante-dionisiaco, di ciò che deriva da fuori, e di ciò che ci porta fuori). Un'altra domanda che mi ha accompagnato nel mio percorso all’interno di perAspera è stata quella di capire finno a che punto gli ideatori/organizzatori del festival sono riusciti nel loro intento di stimolare gli artisti ad adattare i propri lavori alle strutture del luogo ospitante, cioè al complesso storico di Villa Aldrovandi Mazzacorati. Una perla con "altro" respiro è stata, sicuramente, la performance La regina degli Elfi, tratto da un monologo di Elfriede Jelinek, della Compagnia Angela Malfitano. Un piccolo corteo funebre, cammina solennemente sotto il porticato laterale della Villa portando sulle spalle una bara di legno con dentro l'Attrice (la Malfitano in veste di Paula Wessely, attrice del Burgtheater di Vienna, famosa e apprezzata già prima e durante il Terzo Reich), una super donna, decadente e splendente, piena di emozioni contrastanti, di lusso, di grazia, della disperazione, che saluta il suo pubblico, noi, con un "Cari Viennesi!". Qui la Malfitano, attraverso le parole della Jelinek e dell'affascinante figura della Wessely, vuole incontrare il suo maestro Leo De Berardinis, e fa incontrare anche noi con l'idea della morte, sempre presente nel legno del palcoscenico, ma soprattutto con la nostra idea del teatro (del suo potere, del ruolo dell'Attrice e della sua maestranza nell'esprimere le emozioni e i pensieri in un modo volutamente esagerato ed esasperato che noi, non-attori, non sappiamo mettere in pratica, ma amiamo e abbiamo bisogno di vedere in scena). Questo tipo di performance teatrale - spettacolare e riflessiva con al centro la grande attrice - che oggi è diventata rara, ne La regina degli Elfi c'è, e, tra le righe, ci pone la domanda: "che tipo di cittadini siamo noi bolognesi e qual è il nostro teatro oggi?".
Tra gli eventi speciali il Festival PerAspera ospita Civile, progetto curato da Fiorenza Menni/Teatrino Clandestino e Elena di Gioia che fa parlare gli attori (Eva Geatti, Alice Keller, Andrea Mocchi Sismondi, Laura Pizzirani, Andrea Alessandro La Bozzetta, tutti presenti a perAspera) di loro stessi e quindi anche del loro fare artistico, del loro teatro, in luoghi non specificamente teatrali, creando incontri intimi tra gli artisti che si raccontano e il loro pubblico. Nel caso della Villa Mazzacorati questi incontri sono avvenuti "a chiamata" (l'orario di queste performance non è definito nel programma), in angoli bui, dietro o accanto al palazzo principale, ed entrambi queste caratteristiche spazio-temporali della visione hanno fatto sì che lo spettatore si sentisse "capitato" ad assistere a qualcosa di imprevisto o di nascosto, o quantomeno di non ufficiale. Ed è lì veramente che succede qualcosa di delicato: abbiamo la possibilità di sentire, attraverso un racconto diretto, quello che gli attori pensano di sé stessi e della loro posizione nel mondo. In un modo o nell'altro, quasi tutti parlano della scelta, della libertà, della responsabilità, del lavoro, del sogno e della realtà (tutti i racconti degli artisti sono leggibili, alcuni udibili e visibili, sul sito www.civile-net.org). L'accento però è posto sul ruolo dell'artista nella società di oggi e qui, di nuovo, abbiamo l'occasione di provare a rispondere alla domanda che Civile espone esplicitamente: "che tipo di cittadini siamo noi bolognesi e qual è il nostro teatro oggi?".
Questa vena real-intimista la ritroviamo, pur se in modi completamente diversi, anche nei lavori del Gruppo Mirasole/Matteo Garattoni e della compagnia La Pesatura dei punti. Entrambi, infatti, elaborando delle immagini di questa nostra città, Bologna, ci parlano di solitudine. Nella performance di cabaret poetico Bogartismo Garattoni, attraverso la voce e lo charme di un Humphrey Bogart rivisitato, mette in scena alcune figure borderline, due venditori ambulanti della street culture bolognese, creando così un collage di assoli (Garattoni con la sua performance cabarettistica, e i due vu cumprà, uno africano e uno nostrano, con le loro personalissime e teatralmente sofisticate performance di vendita). Con maestria e delicatezza, Garattoni riesce a rappresentare la vita di strada sul palcoscenico del teatrino settecentesco di Villa Mazzacorati, dove le note malinconiche superano quelle comiche, restituendoci una visione drammatica della "dura vita" che sotto i portici di questa città rimane più o meno marginale.
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Intervista a Roberta Nicolai, direttore artistico della rassegna a cura di Anna Maria Bruni
Mentre fervevano i preparativi per la gran serata di chiusura di una ricchissima otto giorni dedicata alla scena contemporanea, per il quinto anno consecutivo nel quartiere Garbatella a Roma, abbiamo incontrato Roberta Nicolai, la ‘mente’ di Teatri di Vetro, per provare ad indagare a fondo il senso di questa kermesse. Una vera rassegna di creazioni artistiche fra teatro, danza, videoart, installazioni sonore, laboratori e quant’altro, che ha messo a confronto la scena più classica con la creazione più introspettiva.
Su cosa si basa la scelta dei lavori che decidi di far partecipare alla rassegna? Su un punto sostanziale: cercare dentro un lavoro, a prescindere se sia un lavoro compiuto, le tracce di un autore di teatro. Non tanto originalità, quanto autenticità, qualcosa che si differenzia e che va verso la definizione di un linguaggio personale. Escluso quindi tutto quello che scaturisce da un trend o da una moda piuttosto che da una necessità. Chiaramente accanto a questo contano elementi che riguardano la preparazione tecnica: la capacità di strutturare il lavoro, dalla composizione, al linguaggio, all’estetica che lo esprime. Il compito è quello di individuarne la natura, nel rispetto del lavoro e di chi lo ha proposto, capendo di che vive. A volte è più semplice perché si appoggia a codici condivisi; uno spettacolo come quello della compagnia MusellaMazzarelli (Milano, in scena con Figli di un brutto dio, ndr) che ha portato una drammaturgia ben scritta, ben interpretata, con una narrazione lineare, è immediatamente decodificabile. A volte invece la decodifica è più complessa, succede di guardare dei lavori in cui io stessa fatico a capire che cosa sta succedendo e quali sono gli elementi messi in campo, quali gli obiettivi, quale la convenzione che l’autore vuole creare rispetto allo spettatore. Per la danza ho una consulente, Anna Lea Antolini, che vede tutti i lavori e poi ne discutiamo assieme, e così anche per il teatro, insomma cerco di affiancare il mio sguardo a quello di qualcun’altro proprio perché la difficoltà di leggere i lavori lo rende necessario. L’atteggiamento però è quello, per evitare di ospitare solo percorsi che già si conoscono, ma al contrario attraverso quel lavoro cominciare a conoscere nuovi percorsi. Penso che sia importantissimo dare a tutti la possibilità di essere visti, e quindi con me c’è una sorta di corresponsabilità, e anche se ancora a livello embrionale un pensiero rispetto al teatro e a che tipo di rapporto si intende instaurare con lo spettatore. Questo è il primo tassello del festival, essere costantemente un campo di indagine di ciò che viene creato sul territorio nazionale.
In diversi casi in effetti il teatro che abbiamo visto non è comprensibile ai più, e non sembra molto preoccuparsi di farsi comprendere, ma poiché è l’arte a dover andare dalla gente e non il contrario, e non basta collocare un teatro in un quartiere popolare ti domando, quando parli di spettatore a chi pensi? Per la varietà di proposte il festival vuole coprire un arco di possibili spettatori abbastanza ampio. In questo arco sta la differenziazione, che è anche l’arco della scena contemporanea. Al suo interno ci sono delle linee di ricerca che prevedono la comunicazione, altre che invece la mettono in discussione - di certo quella che passa attraverso codici noti, mentre al contrario sperimentano una capacità di comunicazione attraverso invenzioni, astrazioni, e chiedono allo spettatore di mettersi in un'altra posizione. Penso al lavoro di Alessandra Cristiani (Roma, in scena con Opheleia, ndr), che obbliga lo spettatore ad una posizione diversa da quella con cui è entrato in sala, cominciando dal suo ritmo vitale, che deve mettere da parte perché obbliga a un rallentamento dovuto alla rarefazione del tempo provocata dalla rielaborazione del butoh, base del suo lavoro. Ma la trasformazione del segno attraverso il movimento provoca una così forte empatia emozionale con lo spettatore, che pur sfuggendo al meccanismo noto di interpretazione del livello comunicativo, so che comunica in maniera molto potente e con una presenza assoluta, attinge a qualcosa di assolutamente intimo, personale, a paesaggi interiori che sono solo suoi, e che lei veicola in una narrazione, danzata o meno, in maniera così forte che è raro che lo spettatore si senta escluso. In altri casi invece vi sono lavori che non intendono pensare nella maniera più assoluta alla comunicazione, ma mettono in campo un’azione, in una logica di reciprocità in cui lo spettatore non è lì come destinatario, ma come un altro attore. Lo spettacolo di questa ultima sera invece è molto più immediato, più convenzionale dal punto di vista della ricerca, e quindi sicuramente di fruizione più semplice (Punta Corsara, compagnia dei ragazzi di Scampia, Il signor de Pourceaugnac, riduzione da Moliere, ndr). In sostanza quando io penso alla scena contemporanea non penso a uno spettatore, penso a molti cittadini, ed ognuno con la sua sensibilità può trovare al suo interno qualche cosa che gli corrisponde.
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NOVITA'
Marco De Marinis Il teatro dell'altro Interculturalismo e transculturalismo nella scena contemporanea La casa USHER - edizione 2011
Dalla metà di Giugno è disponibile in libreria il nuovo libro di Marco De Marinis intitolato Il teatro dell'altro. Interculturalismo e transculturalismo nella scena contemporanea in uscita per la collana Oggi, del Teatro della casa editrice fiorentina La casa USHER. Nel libro vengono prese in esame le questioni dell'identità e dell'alterità, così come esse sono state portate all'attenzione generale dai maestri contemporanei, cioè dai protagonisti delle due fasi della riforma teatrale nel XX secolo, e così come si pongono oggi nei settori più avanzati della scena. Tre, in particolare, sono le esperienze teorico-pratiche che fungono da riferimenti guida. La prima, anche in ordine cronologico, è quella di Artaud e del suo viaggio in Messico, esempio precoce ed estremo di osservazione partecipante. Deluso dal teatro e dalla cultura occidentali, Artaud parte per il Messico in cerca di una cultura organica e del vero teatro, cioè di un teatro inteso come azione efficace, capace di trasformare in profondità l’essere umano. La partecipazione ai riti del peyotl presso i Tarahumara lascia sul visionario francese un segno indelebile, e il tentativo ininterrotto di renderne conto attraverso la scrittura costituisce uno degli sforzi grandiosi della sua ultima stagione creativa. La seconda esperienza teorico-pratica è quella dell’antropologia teatrale di Eugenio Barba e dell’ISTA, l’International School of Theatre Anthropology. Varata alla fine degli anni Settanta dal fondatore e regista dell’Odin Teatret, l’antropologia teatrale si è offerta da allora come indispensabile campo d’indagine e preziosa prospettiva scientifica, caratterizzati dalla messa a fuoco dell’alterità tecnica del comportamento scenico, alla cui base sono reperibili, per via comparativa, pochi, essenziali principi pre-espressivi interculturali o, più esattamente, transculturali. Questi ultimi, a loro volta, danno vita a una ben più ampia pluralità di tecniche extra-quotidiane, riguardanti i modi in cui l’attore mette in forma il corpo, costruendo così la propria presenza scenica. Il terzo esempio è quello di Jerzy Grotowski, che in qualche modo funge da filo rosso, legando i diversi capitoli del volume. In effetti, un libro come il presente, consacrato alle questioni dell’altro e dell’alterità nella scena contemporanea, non poteva non trovare nel regista e teorico polacco la figura eponima. Tutta la ricerca di Grotowski, dall’inizio alla fine, dall’arte come presentazione all’arte come veicolo, rappresenta uno straordinario tentativo di fare del teatro uno strumento particolarmente idoneo a esplorare e a esperire direttamente le varie forme e dimensioni dell’alterità.
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[Giulia D'Amico] Uovo Tutti, il nuovo spettacolo di Circo Paniko, debutta alla seconda edizione del Buskers Festival di Bologna, presso il parco “Caserme Rosse”, dove ha allestito il proprio tendone giallo. Un evento atteso dagli amanti e seguaci di questa compagnia, collettivo internazionale di artisti circensi e musicisti che da oltre quattro anni si esibisce in giro per l’Europa, il Sudamerica e l’Asia. Una compagnia che ha fatto del proprio nomadismo un modello di vita, basato sulla cultura della festa, dell’inclusione e della cooperazione. Filosofia che si rispecchia nei rapporti interni al gruppo, per cui nessuno sovrasta gli altri e la creazione avviene sempre collettivamente, e nei rapporti verso l’esterno, ossia rimanendo aperti all’incontro e alla collaborazione con artisti esterni. Alla regia di questo spettacolo, troviamo per la seconda volta Giovanni Dispenza (che già aveva diretto nel 2010 “? Punto di domanda”) il quale ci tiene a sottolineare: “Uovo Tutti è frutto della creazione di ognuno, inoltre la maggior parte degli artisti che vediamo in scena sono nuovi, c’è solo un acrobata che appartiene alla prima generazione del collettivo”. Seguendo le linee stilistiche di quel genere circense detto Nouveau cirque, “Uovo Tutti” unisce la disciplina dell’acrobatica aerea ai linguaggi del teatro di strada, della musica e della danza, dando vita a una performance variegata, in grado di attirare l’attenzione di un pubblico di tutte le età. In scena, troviamo una scenografia semplice, ma ricca di sorprese. Il classico fondale nero è qui realizzato con un muro di vestiti cuciti fra loro che sputa sulla scena personaggi immaginari, creati dalla mente di un’eccentrica scrittrice, ed alcuni manichini sfuggiti al controllo di una sarta. Contrariamente alle classiche aspettative, l’incontro fra queste strambe creature non genera un tessuto narrativo, bensì piccoli episodi non-sense, che aprono lo spazio all’assurdo, alle ossessioni del sogno e della fantasia. Cifra stilistica dello spettacolo, questo non-sense sembra voler attaccare i linguaggi stessi del teatro, come alla ricerca di una nuova anarchia spettacolare, che vuol mostrarsi nella sua libertà creativa incensurata. Spettatore inerte di questa finzione caotica è un uovo (vero), appoggiato nel suo portauovo. E quando, per un attimo, il silenzioso ovetto tenterà di farne parte, si rivelerà al pubblico in tutta la sua fragilità. Uno spettacolo dal ritmo sfrenato e inconsueto, a tratti difficile in termini di fruibilità, ma sicuramente in grado di stupire il proprio pubblico. Se da una parte l'atto Paniko si propone proprio questo, ossia di stupire e colpire in modo inaspettato, dall’altra l’elemento magico (e poetico) proprio del Circo, avrebbe bisogno di momenti più sospesi per poter emergere fra un numero e l’altro.
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[ Adele Cacciagrano ] Entra rotolando su se stessa come un corpo in assenza di gravità, come se quella massa di terra fine che ricopre il proscenio della sala spettacolo di Lenz Teatro a Parma si fosse d'improvviso trasformata in una zolla di suolo lunare memorialmente impresso dai salti cinematograficamente leggeri dell’astronauta Aldrin. L’attrice Barbara Voghera, nota al pubblico di Lenz per essere uno degli elementi cardine delle produzioni della compagnia parmense, si sdraia a terra, supina, e la convocazione immaginaria di un’Ofelia preraffaellita che sorge dalla sua messa in posa introduce in pochi secondi il tema acquoreo che è l’elemento cardine di questo quarto quadro dell’Isola dei cani, la nuova creazione di Lenz Rifrazioni che tenta di declinare attraverso le parole e le immagini di Eliot, Buchner, Shakespeare, Ovidio e altri autori cari alla compagnia, la nerezza delle passioni al femminile. Barbara Voghera, il cui volto e fisico sono segnati da una invalidità mentale permanente, battezza il suo dire scenico con un monologo in condizione post-mortem di cadavere intento a ricordare le circostanze del proprio sparire: quell’onda lunga della Cornovaglia che l’ha trascinata via, che l’ha consumata fino a renderla bianca e pura e che ancora adesso la condanna a un ballo impossibile fatto di continui affioramenti , affondamenti, nell'acqua, dall’acqua. L’attrice prende un sacchetto di plastica da uno dei cinque cani-simulacri che abitano la scena, si dirige verso la poltrona terapeutica sull’angolo destro della scena e, dopo essersi seduta con le gambe completamente allargate, infila la testa nel sacchetto di plastica. Con la voce microfonata e distorta, il nome di Ofelia echeggia per un attimo che è puro lampo, interpunzione infinitesimale in una sonata che si appresta a prendere il volo nell’onnubilarsi di qualsiasi demarcazione attore/personaggio. L’attrice, nella forma canonica del lamento, sgrana gli stasimi di una eretica via crucis che ha per oggetto la liquefazione del cadavere: dall’inabissamento in fondo al mare con tanto di incontro con un polipo che lecca i piedi e fa male, alla menzione proto-liturgica delle parti del corpo anatomico nel tentativo di preservare/nominando quelle tette marce che non sanno di niente, quel cuore pieno di vermi, quel corpo gonfio di piscia, di merda e di cacca. L’impressione di trovarsi di fronte a una profetessa-prefica invasata svanisce nell’attimo stesso in cui la voce da distorta torna normale e se la Barbara-Ofelia implora un “perdono, papà! Sto morendo, papà!”, la tessitura drammaturgico-vocale ci ha già riportati indietro, nella piena visibilità del personaggio con il conseguente disincanto per la fine di quel fuoco vacuo che, unico, ha illuminato una produzione, per il resto, ancora altalenante in particolare per la recitazione spesso di mera tecnica e intenzione delle altre profetesse in scena - Sandra Soncini, Elena Sorbi, Valentina Barbarini e Monica Bianchi -, e per un discorso visivo che in questa produzione si è dimostrato un po' discontinuo e lapidario assemblando, come in una wunderkammer caotica, riprese video di dettagli di natura, una mappa londinese dell’Isle of Dogs di Londra ai video-ritratti, stile Cindy Sherman, delle interpreti in scena con lunghe zoomate sui plessi inguinali a fare da didascalia, commento e contrappunto.
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