*Recensione apparsa sulla webplatform Visioni Di Uomini e di Cani
|Adele Cacciagrano| Nella sala bianca di Lenz Teatro a Parma – nella cornice del festival Nd’T 2011 – una donna e un cane si concedono il tempo per l’apparizione di una impercettibile danza. Cristina Rizzo e un cane, meglio una cagna, razza Schnauzer a pelo nero, di nome Gaia, si incontrano per quasi un mese ogni giorno, in una sala del Lenz prima, in una piccola stanzetta del centro città poi, per segnare una coreografia fatta principalmente di avvicinamento e di costanza che andrà a costituire la performance/spettacolo intitolata Micro-Danze con un cane addestrato. La cagna arriva, annusa la sua compagna, osa manovre di instabile avvitamento, tenta un morso che è segno d’amore, trasgressione e libertà rispetto a quello che è il suo codice di addestramento. La danza è l’esile cucitura finale di una partitura che è già scritta nelle manovre di conoscenza e di accostamento, nelle anse di movimento che il cane e la sua compagna umana sperimentano ogni giorno lavorando sul confine tra permettibile e non concesso. Del concetto stesso di rappresentazione questa micro-coreografia mantiene solo il lacerto di una composizione che arriva, come un atto cogente di chiusura, a determinare un primo punto di assestamento e, quindi, un momentaneo finale. Non così le musiche, una playlist che Cristina Rizzo ha commissionato a Michele Di Stefano e che nelle sue diverse coloriture ambientali, ritmiche ed emotive, diventano parte dell’ossatura di questo viaggio di conoscenza tra la danzatrice e la controparte canina-animale. Cristina, infatti, mette su la musica e Gaia si lascia andare, sospende per un attimo le inibizioni dovute all’apprendimento di un codice di comportamento e interagisce con salti, pause, avvitamenti e scatti densi di una bellezza che è pura energia animale. Le due repliche delle Microdanze con un cane addestrato che si sono svolte nella Sala Est di Lenz Teatro a Parma il 22 e 23 Novembre sono, quindi, istantanee di assestamento di una creazione altamente instabile e, proprio per questa sua qualità fragile, preziosa. Qui il fine della creazione, se ce n’è uno, non è neppure lontanamente la rappresentazione, ma l’agguantamento di un corpo di cagna prepotente in scena che chiede, all’altra, di non rappresentarsi mai, meno che mai di fingersi, ma di replicare istante per istante alla sua imponente sferzata di presenza anche quando, in teatro, decide di sottrarsi trasformandosi così in una inconfortevole e sconvolgente assenza. Due corpi presi in una relazione intima, cangiante e mutevole, in cui la partitura dell’incontro, se è vero che esiste, è costantemente minacciata non solo dalle incognite legate alla durata o alle diverse modalità di reazione in avvento, ma nella possibilità stessa di una effettiva rispondenza al desiderio di attuazione. Cristina Rizzo e Gaia entrano in scena. Gaia decide di ispezionare gli astanti, incuriosita e vogliosa di scoprire qualcuno che, per odore, corrispondenza, simpatia o calore, possa risultare, alla sua percezione, interessante. Chi più chi meno, ogni spettatore risponde al muso di quella scodinzolante presenza. Poi Gaia se ne va. Decide che nessuno dei presenti seduti in fila risponde ai suoi requisiti di decenza e torna da lei, la coreografa, che l’attende e chiama, gentilmente, per nome: «Gaia!». Lei ci sta. A volte no. Quando decide di starci, cammina al fianco della compagna danzatrice e coreografa, si esibisce in una elegante passeggiata in circolo molto simile a quelle cliché di una qualsiasi esposizione canina. Cammina con schiena ben dritta e gambe posteriori inarcate. Alla destra della danzatrice, ne segue o ne anticipa i passi, mai inseguendo o lasciandosi trascinare. È fiera: una bestia di razza superiore che di tanto in tanto ci perscruta dall’alto di un’antica sapienza animale fatta di istinto e rispondenza ad un qui ed ora che, per lei, è improrogabile legge di vita. Le micro-danze, se Gaia ci sta, si svolgono come un filo dipanato al rotolo e dalla passeggiata si passa ad un gioco di andirivieni in quinta, quando da sotto il telo bianco che funge da micro-sipario tra il corridoio dei camerini e il palco, Gaia spunta e scompare, si assenta del tutto e poi riappare, per quarti donandoci in pasto la sua metà posteriore con tanto di buco anale e coda ben alzata, o come quando, decide di restare da sola su quella soglia della scena e per un attimo si volta e ci guarda. C’è poi il momento della lotta, con Cristina Rizzo che torna in scena munita di un giubbotto nero impellicciato e Gaia che si aggancia al braccio offerto per un appuntato gioco d’azzanno su una colonna sonora ritmata e vivace. E ancora, Cristina Rizzo che appoggia il suo peso a quello di Gaia e lei che per un po’ la trascina, poi scivola via, ma infine ritorna, si accuccia distante, mentre con la coda duetta con un movimento di braccio battuto a terra che la danzatrice ha evidentemente preso in copia dall’animale. E poi la cagna gira, volteggi e salta, atterra malamente con le zampe sul pavimento scivoloso e si lascia slittare, pattina e si rialza pronta per un altro balzo, come una improbabile danzatrice hip hop di decennale esperienza. Ma Gaia, alla prima serata, decide, invece, che a quel gioco al teatro decisamente non ci sta. La presenza del pubblico la infastidisce. Quegli sguardi insoliti e appuntati sul suo corpo, devono crearle la sensazione di poter diventare una preda, e questo la secca e irretisce.
Dopo aver annusato ad uno ad uno gli abitanti della prima fila di spettatori, Gaia si dirige verso la porta d’ingresso e, in piedi, a quattro zampe o muso a terra, di lì difficilmente si sposterà. Anche quando, di tanto in tanto, chiamata o per istinto, va in soccorso della sua compagna umana rimasta sola in scena, è sempre alla porta che lei ritornerà. Cristina Rizzo la chiama: «Gaia». «Gaia?». «Gaia…». Ma lei fa finta che non sente, non se ne cura. La lascia lì a fare la sua danza, mentre lei chiede alla maschera femminile che tiene chiusa la porta di lasciarla andare. Per il rientro in quinta decide che si può fare, ma non ha voglia molta voglia di giocare e dopo un po’ si assenta dietro il sipario. Poi torna in scena al fianco di Cristina per la danza della lotta ad azzanno, ma dopo un po’ si stanca e vorrebbe andarsene, ma poiché Cristina la incentiva a continuare si avventa nervosa e arrabbiata abbaia. Un latrato, sordo e secco, che investe il corpo teso, in disequilibrio emotivo, degli spettatori, come una bomba che ti venga scagliata deflagrante in faccia. La danzatrice risponde con un altrettanto secco «Òh». Le parti minime di concesso e permissibile si ristabiliscono e Gaia torna a sfuggire verso la porta in silenzio. Cristina tornerà ancora a chiamare la sua compagna, ma spesso sarà una pura richiesta inutile. Cristina si siede in un angolo, si sistema con un fondotinta la faccia, torna a ballare sotto le luci rosse. Quando le luci rosse spariscono il suo volto è dolorosamente sfigurato. Una maschera rossa di bellezza estinta e appassionata. Il segno di un dolore per un incontro al limite del possibile che questa sera, qui, sembra non essere avvenuto. Continua a danzare. La sua solitudine, con Gaia che non risponde ai richiami, assume in un attimo tutto il peso importabile di una solitudine cosmica. È l’animale che non risponde all’umano. È una dea canina e inarrivabile che decide di sottrarre la sua faccia alla povera mortale questuante. È semplicemente l’amato o amata che non risponde al richiamo del o dell’amante. Cristina Rizzo si avvicina al tavolo della regia, al mixer audio e prende un microfono. Canta, sommessamente, dolcemente, le parole di una famosissima canzone degli anni ’80, la Isla Bonita di Madonna, diventa in questo finale di partita la dolce voce di una potente Eco il cui corpo lentamente si disfa e scompare sotto i colpi dell’amare un Narciso decisamente inarrivabile.
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