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Cammeo di Jan Fabre al Teatro Due di Parma.

Racconto di un dialogo mancato tra arte e neuroscienza.

|Giada Lusardi|
Si è tenuto lunedì 7 novembre presso il Teatro Due di Parma l'incontro tra l'artista Jan Fabre e il neuroscienziato Giacomo Rizzolatti. La conferenza, organizzata dalla Fondazione Teatro Due in collaborazione con il Dipartimento di Neuroscienze dell’Università di Parma, si è svolta alla presenza di una sala affollata di gente ansiosa di assistere al dialogo pubblico tra arte e neuroscienza che vedeva coinvolti il padre-scopritore dei Neuroni Mirror e l’artista poliedrico e geniale di fama internazionale. L’incontro inizia con puntualità chirurgica, alle 17:00, con il professor Rizzolatti che, rivolgendosi al pubblico, introduce l'artista fiammingo con queste parole: “Presentare Jan Fabre non è facile come presentare uno scienziato di cui si dice: ha fatto questo, ha studiato questo...E’ molto più difficile!”. In effetti Jan Fabre è un'artista complesso il cui lavoro non è sintetizzabile in poche frasi o parole. Nato nel 1958 ad Anversa, nipote del celebre entomologo Jean Henri-Fabre, inizia la sua formazione artistica presso l’Istituto di Arti Decorative e Belle Arti di Anversa per poi proseguire presso la Royal Academy della stessa città.
Per amore di una donna, ci racconta sempre Rizzolatti, Fabre si appassiona al teatro e inizia a disegnare i costumi di scena di alcuni spettacoli. Negli anni '80, ad Anversa, dirige il suo primo spettacolo: Theatter geschreven met een K is een kater e This is theatre like it was to be expected and foreseen, uno spettacolo della durata di otto ore, dal tramonto all’alba. Ricorda, sempre Rizzolatti, che nel 2008 Jan Fabre è stato invitato ad esporre il proprio lavoro al Louvre, nelle sale dedicate alla pittura fiamminga, dove l’artista ha presentato un progetto intitolato The Angel of Metamorphosis. Dopo la breve introduzione di presentazione, la parola passa direttamente a Jan  Fabre che, sul filo dei ricordi, inizia ad auto-raccontarsi con queste parole: “Per me il cervello è la parte più importante del corpo”. E in effetti il cervello è stato ed è da sempre un elemento fondamentale nella sua opera. Il suo avvicinamento ai temi della percezione e dell’espressione artistica per mezzo del corpo inizia nel 1977, quando l’artista fiammingo entrò per la prima volta in contatto con la performance art scoprendo la possibilità di utilizzare “il corpo” come linguaggio espressivo. Quelli erano anche gli anni in cui Fabre sperimentava, attraverso la Blood painting, le potenzialità espressive dei liquidi corporei quali urina e sangue (si ricordi la performance My body, my blood, my landscape realizzata nel 1978 ad Anversa).
Fabre è da sempre, poi, interessato alla significazione erotica del corpo: aspetto, quello della sessualità, trattato anche nel progetto From the Feet to the Brain realizzato nel 2009 negli spazi dell’Arsenale Novissimo a Venezia. Grazie ai racconti dell’artista stesso e alle immagini proiettate alle sue spalle, anche gli ascoltatori di questo dialogo che si svolge nel foyer del Teatro Due di Parma, possono intraprendere un percorso ideale lungo le sale dell’imponente istallazione. Il progetto From the Feet to the Brain, presentato precedentemente in Austria (2008 alla Kunsthaus Bregenz), si sviluppa su cinque livelli e riprendendo lo schema del corpo umano, crea un percorso che inizia dal livello più basso, quello dei piedi, per finire, con il cervello, al livello superiore. Nel ripercorrere questo progetto Jan Fabre racconta un mondo di orrore, di bellezza e metamorfosi oscillante tra sogno e realtà.
Il percorso visivo e ideale che ci viene riproposto in questo pomeriggio d’autunno inizia, quindi, dai “piedi” sede di quella zona che l’artista definisce lo “Studio/rifugio” degli artisti, un laboratorio dove nascondersi e lavorare. Fabre ha ideato questo ambiente basandosi su diversi modelli da lui ideati negli anni ‘90.

Lo studio/rifugio (un cubo di cemento) è costituito da un ingresso, una stanza aperta al pubblico e dallo studio segreto dell'artista. Nel corridoio che conduce verso la stanza aperta al pubblico, Fabre presenta tre lampade che pendono dal soffitto e che si riferiscono al battesimo, il lavacro spirituale di Cristo. Nella stanza aperta al pubblico l'artista ha messo sette vasche da bagno fatte di latta di colore blu e due "gambe di cervello" che pendono dal soffitto. Le vasche da bagno rappresentano un luogo rituale di purificazione, ma sono anche un riferimento all'insonnia dell'artista, che le utilizza come una specie di sarcofago, dove si rilassa per poi poter disegnare e lavorare. "Le gambe di cervello" invece rappresentano la memoria dei piedi, i piedi come cervello. Lo spazio segreto è uno studio riempito di munizioni e di materiale organico sperimentale.
Procedendo al primo livello (Fabre utilizza questi termini ma in verità lo spazio dell’Arsenale Novissimo è orizzontale e lo spettatore percorre delle stanze che si trovano allo stesso piano), si incontra il riferimento al “sesso” a cui si faceva riferimento prima. Il sesso per Fabre rappresenta il punto più potente del corpo, il luogo in cui alberga la forza creativa. L'artista presenta se stesso come giovane uomo che giace su un letto fatto di 150 lapidi e fa mostra d'una erezione permanente che eiacula un liquido che rimanda allo sperma. Fabre definisce questa zona del corpo dotata di incontenibile energia vitale come la “fontana del mondo” da cui sgorga la forza creativa. Le scritte sulle lapidi su cui giace corrispondono a nomi di insetti che però ricordano i nomi di artisti, di filosofi e di scrittori che secondo Fabre entreranno a far parte della storia del mondo. Intorno a quest'installazione sono appesi i disegni giovanili "La fontana del mondo", i quali sono valsi da modello di pensiero per quest'opera. Si ritrova inoltre in questa installazione quel riferimento all’utilizzo dei liquidi del corpo che Fabre aveva già sperimentato in passato anche nei disegni realizzati con sangue, sperma, lacrime e urina.
Passando al livello successivo incontriamo la zona de “La pancia”. Per quest’opera Fabre ha riprodotto una parte di un’altra installazione permanente realizzata per la Sala degli Specchi del Palazzo Reale di Bruxelles nel 2001. Riprendendo il tema della decorazione del soffitto della sala del Palazzo Reale che illustrava le imprese di Leopoldo II in Congo, ex-colonia Belga, Fabre decide di capovolgere il soffitto che aveva ricoperto con più di un milione di ali di coleottero buprestide. In questo modo, ci dice Fabre, il pavimento come un prato si rispecchia nel soffitto/cielo e diventa dello stesso colore come accade anche nell’opera di un importante artista fiammingo della tradizione: Bosch. L’artista vuole mettere in evidenza le contraddizioni della storia del suo popolo e per far questo capovolge metaforicamente la Storia (quindi il soffitto sul quale viene tradizionalmente narrata da secoli la storia Europea) e ci presenta un uomo nero (congolese) che cerca di scappare dalla rappresentazione occidentalizzata del Colonialismo Africano.
La penultima tappa del cammino verso il cervello è il “Cuore”. Per creare due altari situati uno davanti all'altro, Fabre utilizza 3000 ossa umane e dieci teschi realizzati in vetro di Murano. Alcune di queste ossa e di questi teschi sono dipinti con inchiostro da biro di colore blu – un riferimento diretto alle vasche da bagno nello studio/rifugio e alle ali di coleottero buprestide. Il colore blu rappresenta l'ora blu, il momento mistico in cui gli animali notturni vanno a dormire e gli animali diurni si svegliano. Su uno di questi due altari Fabre presenta un cuore maschile chiuso. Sull'altro si trova un cuore femminile molto più piccolo ed elegante, aperto. Guardando con maggiore attenzione si scopre che questi due cuori sono composti da un mosaico di ossa umane ma perché?  Fabre in quest’opera suggerisce una riflessione sul futuro del nostro scheletro. Come le biotecnologie cambieranno la materia del corpo? Il futuro del corpo è la sua mercificazione?
La rappresentazione del “cervello” è la tappa finale del nostro percorso attraverso il Corpo dell’uomo. Questa zona, la più importante del corpo secondo la confessione di Fabre, è rappresentata da una trincea in cui l’artista-lillipuziano poggia il piede su un grande cratere che scopriamo essere la testa scorticata di un gigante. Da un balcone di legno, ispirato a una tipica scala fiamminga, Fabre invita il visitatore a dirigere lo sguardo su un campo di battaglia fuori dal tempo, dove appunto quattro trincee conducono a una grande testa dove si riconosce l’artista/lillipuziano intento a farsi strada scavando nel cervello del gigante. Mentre il sesso rappresenta la forza creativa dell'artista, il cervello è il luogo dove nasce e cresce tale energia.
Il cervello è al centro di un’altra recentissima mostra, quella realizzata in occasione della 54° Biennale di Venezia negli spazi della Nuova Scuola Grande di Santa Maria della Misericordia. Qui Fabre presenta il cervello sotto forma di scultura in marmo bianco puro. Ancora una volta l’artista ci illustra il progetto attraverso un video. Il titolo dell’opera questa volta è Pietas. Il cervello – dice l'artista – è la più importante pietà, è li che albergano i sentimenti e tra i sentimenti, la pietà rappresenta il sentimento che per eccellenza instaura un legame empatico con l’altro perché induce l'uomo ad amare e rispettare il prossimo.
Nella successione delle singole sculture, si passa da un cervello che rappresenta intrinsecamente una visione pagana della religione, a un altro dove si avverte una visione più cristiano-cattolica. Procedendo nel percorso, s’incrocia un cervello col bonsai, legato allo scintoismo giapponese e infine uno con delle tartarughe la cui presenza rappresenta un esplicito riferimento alla religiosità cinese, indiana e degli antichi greci. Infine, dopo aver compiuto un percorso iniziatico che si svolge su una pedana dorata, si giunge di fronte ad una scultura che rappresenta la personale rilettura dell'artista della Pietà Michelangiolesca. Il titolo di questa ultima scultura realizzata completamente in marmo bianco di Carrara, è Sogno compassionevole (Pietà V) nella quale la Madonna è uno scheletro e il Cristo è l’artista stesso, un Fabre/Gesù in giacca e cravatta ma con i piedi nudi, avvolto da lumache, mosche, scarabei e che regge nella mano un cervello umano. Tutte le cinque sculture poggiano su una grande pedana dorata alla quale era possibile accedere dopo aver indossato un paio di “pantofole” messe a disposizione in otto postazioni laterali, per compiere il rito sacrale della visione.
L’artista vide lo spazio per la prima volta mentre partecipava alla 53° Biennale di Venezia e fu immediatamente colpito dalla sua intensa aura spirituale. "Avevo già in mente il tema della Pietà, e stavo lavorando su delle bozze. Quando vidi questa chiesa sconsacrata del XVI secolo, trasformata in un'accademia del pensiero, capii che questo era il luogo ideale per esibire il mio lavoro. Qui s’incrociano arte, scienza e spiritualità".
Quindi Arte, scienza e spiritualità ritornano nell’opera di questo artista. Fabre dichiara infatti che l’opera è nata grazie alle suggestioni che gli sono derivate dalle ricerche del neuroscienziato che gli sta al lato: Giacomo Rizzolatti. Fabre prosegue dicendo che Rizzolatti attraverso i suoi studi ha provato che l'empatia è un sentimento che non si genera nel cuore ma si origina direttamente nel cervello ed è registrato nei nostri neuroni ecco perché allora la Pietas di Fabre regge un cervello nella mano. La rappresentazione di tutti gli altri grandi Cervelli dice sempre l’artista, “Rappresentano il pensiero umano filtrato alla luce della religione e la pietà è invece la rappresentazione di un corpo svelato”. Con queste parole l’artista riconduce il significato della parola Pietas all’epoca precristiana in cui per pietà non si intendeva il senso di misericordia ma il legittimo sentimento originato dal cervello umano di una madre che vuole sostituirsi al figlio morto.
Il riferimento ad “Arte” e “Scienza” è emerso nitidamente dalle parole di Fabre ma quello che è mancato è stato il dialogo tra le due discipline. Un’aspettativa delusa quindi, quella di assistere ad un confronto tra i due mondi che forse ci era stato suggerito anche dal titolo dell’incontro: “Tra arte e neuroscienze”, un titolo che non è bastato per dare una forma al contenuto. Dopo l’importante parte dedicata all’illustrazione dell’opera dell’artista fiammingo è seguita soltanto qualche generica domanda rivolta da Rizzolatti a Fabre (perché l'arte classica si comprende meglio della moderna? Cos'è per te la bellezza? E’ una questione culturale o è un dato oggettivo? Cos'è la creatività?), mai in grado di affondare le questioni legate alla relazione tra il mondo della creatività e quello della ricerca scientifica. Banali, se confrontate con il calibro intellettuale dei conferenzieri.
Le risposte ugualmente concise non hanno sollecitato nessun approfondimento e l’illustrazione della visione della Scienza su questi temi non è emersa da nessun intervento, in primis quello del neuroscienziato Rizzolatti.


 
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