vivere e morire in nome di ciò in cui si crede di Filomena Spolaor
Il progetto culturale del Nuovo Teatro Nuovo inaugurato dal direttore artistico Antonio Latella vive della creazione di una compagnia stabile composta da sei attori, che lavora con sei registi diversi. Il tema della stagione 2010/2011 è il Fondamentalismo: un concetto non legato soltanto all’accezione religiosa del termine, ma anche a quella politica e culturale, per concepire l’amore e il rapporto con l’arte. Qui Latella ha costruito una casa del teatro. Federico Bellini e Linda Dalisi sono drammaturghi che curano tutti gli adattamenti e scrivono nuovi testi per i registi e gli attori che la abitano. A loro si affiancano altri autori, italiani e stranieri, che sempre su commissione elaborano nuovi testi. Ad ogni regista viene chiesto di lavorare a due spettacoli: uno “grande” (che coinvolge l’intera compagnia) ed uno “piccolo” (un monologo). Il repertorio guarda all’ Europa: per gli spettacoli “grandi” è incentrato sulle riscritture e sugli adattamenti; per quanto riguarda i monologhi, si tratta di testi nuovi che si soffermano su personaggi specifici. Tra i registi della casa, la giovane Agnese Cornelio dirigerà Incendi da Wajdi Mouawad (il 29 e il 30 gennaio 2011), adattamento di Federico Bellini e La fame (liberamente ispirato agli scritti e alla vita di Simone Weil), composto da Linda Dalisi (dal 10 al 16 gennaio e poi dal 2 all’8 maggio); Mk (formazione indipendente costituita da Lorenzo Bianchi, un compositore di musica elettroacustica, Biagio Caravano, un musicista e performer, Michele Di Stefano, un coreografo) si occupa di performance, coreografia e ricerca sonora: curerà la rappresentazione Kamikaze (dall’11 al 13 febbraio) e Giuda (dal 10 al 16 gennaio e dal 2 all’8 maggio); la portoghese Paula Diogo adatterà la regia di Madame (liberamente ispirato a “Madame De Sade” di Yukio Mishima), di cui è autrice insieme a Linda Dalisi (in scena il 12 e il 13 marzo), e di Rosa Lux, monologo sempre composto da entrambe e dedicato a Rosa Luxemburg (dal 10 al 16 gennaio e dal 2 all’8 maggio); Tommaso Tuzzoli firmerà la regia dell’adattamento di Federico Bellini al Brand di Ibsen (in rappresentazione dall’8 al 10 marzo) e de Il velo, testo scritto dallo stesso Bellini (dal 10 al 16 gennaio e dal 2 all’8 maggio); Pierpaolo Sepe, invece, dirigerà Guardami di Linda Dalisi (dal 21 al 23 gennaio e dal 5 al 10 aprile) e Prometeo di Federico Bellini (dal 10 al 16 gennaio e dal 2 all’8 maggio); infine, il regista Andrea De Rosa curerà il testo Tutto ciò che è grande è nella tempesta di Federico Bellini (dal 15 al 20 febbraio e dal 12 al 17 aprile), mentre Linda Dalisi guiderà la messa in scena del suo testo Misfit like a clown (liberamente ispirato a Opinioni di un clown di Heinrich Boll, in scena dal 10 al 16 gennaio e dal 2 all’8 maggio). Gli spettacoli vengono rappresentati ciclicamente nel corso dell’anno – a distanza di giorni, settimane, mesi – offrendo così la possibilità ad ogni spettatore di creare un proprio abbonamento. Ad aprire la stagione del Nuovo Teatro Nuovo è stata la maratona di Auguri e figli maschi! 6 sguardi d’autore sul fondamentalismo (presentata al Napoli Teatro Festival a giugno e nuovamente in scena dal 2 all’ 8 maggio 2011), con cui Antonio Latella ha espresso la propria testimonianza sulle conseguenze morali di un movimento di pensiero e di azione che contrappone mondo globalizzato e radicalismo dogmatico. Il direttore artistico ha curato la regia di sei monologhi scritti da sei autori diversi, sei monologhi per una mostra di parole, sei quadri dipinti con visioni diverse del Fondamentalismo. Sei atti unici, alla ricerca di un linguaggio che “traduca l’estremo urlo di chi muore per un’idea, per un Dio o per un amore”. Ogni attore è associato a una bomba, trait-de-union tra il regista e l’attore. Latella ha pensato a ciò che lo circonda, e nel tentativo di creare una possibilità altra ha ripetuto a Napoli il modello tedesco, che prevede la stanzialità degli attori per un anno, che insieme a sei registi e due drammaturghi abitano la casa del teatro. Il battito del respiro in questa residenza vuole combattere l’affermarsi dell’individualismo e dare la possibilità agli artisti di uscire dal meccanismo della vendita, della circuitazione, per riuscire a raccontarsi, ma senza pensare a una confessione. Latella ha descritto l’organizzazione di una stagione che prevede la creazione di un repertorio in cui gli attori passano creativamente attraverso registi e drammaturghi diversi, permettendo loro una crescita veloce. Lui afferma di aver scelto il tema del fondamentalismo perché il kamikaze arriva a perdere la vita per difendere la vita; è condannabile il fondamentalismo che uccide le persone. Un fondamentalismo esplorato nel suo significato politico, religioso, d’amore, come sacrificio, ma soprattutto ritornando geologicamente alle fondamenta sotto la terra, perché sono ciò che serve per creare e reggere ciò che viene dopo. Creare le fondamenta per un nuovo inizio significa, nella pianificazione di un regista critico militante, pensare di creare una casa di registi abbinati a testi e attori per cercare le basi di un tema, sviluppato in spettacoli tenuti in repertorio. Il pubblico ha la possibilità di scegliere, partecipare, intessendo un rapporto con gli attori, non condizionato da un abbinamento commerciale, ma spinto dal desiderio di andare a vedere cosa fa, come cresce un professionista della scena.
Il drammaturgo crea il pensiero della casa collaborando alla grammatica di attori e registi. Latella inserisce lo spettacolo in progettualità come quelle degli esiti precedenti su teatro e malattia, guidando vari autori a sviscerare un tema. Secondo lui il lavoro è il corpo e la parola è la differenza. Auspica la necessità di tornare alla grammatica teatrale, di possedere una conoscenza che permetta al suo atteggiamento registico (intransigente) di sapere cosa smontare, di creare per quella persona che è l’attore, di sviluppare l’ atto creativo con degli amici del palco (“numerosi blu diversi, ma per raccontare lo stesso blu”). Non potrebbe mai rinunciare all’attore e alla comunicazione sul pubblico; l’attore ha bisogno dei sottotesti della psicologia, perché questa deve aiutare l’interpretazione, ma non deve essere soggettiva. Il testo dell’autore è il suo atto di denuncia e il regista usa le arti per un pubblico che vive come un personaggio della vita, sentendosi in obbligo di trovare una lingua per non spaventarlo. “Creare un repertorio per capire cosa stai tracciando è come tenere viva una memoria, creare un terreno fertile per aiutare i giovani a raccontarsi”. I monologhi presentati nello spettacolo sono infatti una presentazione per gli attori alla città per rispondere alla crisi. Latella incita chi intraprende un proprio metodo di ricerca a riuscire a parlarlo senza citazione, sottolineando l’importanza dello scambio che avviene sviluppando reti di comunicazione.
Auguri e figli maschi! è uno spettacolo che ha trovato quella che il regista definisce “la sintesi di un segno”, il prodotto culturale con cui il genio si separa dalla sua acribia di lessicografo. Il colore viola è il fil rouge che ricama la trama dei sei monologhi, comparendo come la tinta dominante degli accessori di ciascun attore, un segno di cui il drammaturgo Federico Bellini ha rimandato il valore alla visionarietà del singolo spettatore, all’ indagine magica che egli deve compiere su i “fatti dello spettacolo”.
Altare per voce sola: Maria Il colore del ciclamino ammanta le gradinate e il palcoscenico del Nuovo Teatro Nuovo di Napoli. Uno sciame di barbies posizionate in file diagonali a gambe divaricate e con il capo inclinato lo sovrastano, intersecate da un cerchio di luce in movimento che divinizza l’ingresso di uno spazzino, che carica le bamboline su un carrello. Entra una vedette, un’attrice protagonista di un Reality Show teatrale, un fuoco d’artificio in un tutù fucsia a cui sono appese le barbies, che ruota vorticosamente il suo ventre, canticchiando con un filo di voce e improvvisando tentacolari tentativi di presentazione. Sogna uno spettacolo che riesca a cambiare il mondo tra credenze televisive e costringe il pubblico ad ascoltare la sua storia. Accomodatasi su una sedia, Maria racconta che è nata nella città turca di Batman, “Città delle suicide”, trasferendosi a Istanbul per frequentare la scuola dove ha conosciuto Petek, la sua migliore amica. Ammonendo gli spettatori di pagare per sentirsi in diritto di ascoltare, tra vocalizzi inseriti nella veemenza del soliloquio, la sua voce confidenziale si contrae in un racconto che difende il corpo femminile, oltraggiato dalla fede turca che impone la rigida autorità della famiglia. Lo scontro con la tradizione si radicalizza in espressioni in cui il femminile di una figlia è definito come un peso che il padre si porta sulle spalle. Le regole che la famiglia impone sono l’obbligo della preghiera e del non pensare. La compagna di banco è un’ombra sullo sfondo, la cui spensieratezza sarà strozzata dal tragico destino imposto dalle leggi del clan con l’impiccagione, mentre Maria è riuscita fortunatamente a fuggire in Italia. La sua nuova vita nello spettacolo è un continuo gioco all’ effetto, accentuato dalla mirror ball che culla sullo sfondo un brand come il pallone di rugby, mischiandosi al senso del Corano. Il flusso magnetico dei suoi occhi, incapsulati in una sorta di autoriflessivo quanto ossessivo one man show, cattura il pubblico con il febbrile roteare del corpo e una masticazione impulsiva, fino a raccogliere in atto di superbia le barbies della gonna sullo stomaco, al ritmo di una macabra danza che implode sotto una richiesta di riconoscenza. L’adolescenza riflessa nel motivo del musical Grease, con cui alterare l’ansia di una mediocrità personale, e la maturità espressa nell’imitazione dell’attrice che canta il marketing-ritornello delle caramelle tic tac, rompono in note di frammentismo postmoderno la noia della generazione del terzo millennio, ironizzano su un fallo come quello di un onore da salvare. L’impiccagione dell’amica Petek, comparata allegoricamente con quella a cui sarebbe costretta dal padre una figlia ribelle erede della Giulietta shakespeariana, è ricordata con sincerità rammaricata, a confermare, secondo la visione caustica di Latella, che nel teatro dei reality il dolore privato può apparire con l’esibizione spettacolare. Appare il video di una bambina orientale intervistata da una presentatrice di un programma televisivo americano. Maria sostituisce la ripresa televisiva con il suo corpo ecletticamente addobbato, per elencare al microfono le donne picchiate e violentate dal marito, da sconosciuti, strangolate dal padre, dal fratello, rendendo testimonianza di quei fatti quotidiani, per cui per onte subite i genitori chiedono alla figlia di uccidersi, come Petek si è impiccata. L’interprete di Maria è Valentina Vacca, una giovane attrice napoletana vincitrice nel 2007 del Premio Fersen per la scrittura del monologo Tina è il rosso del vino. Ha studiato con P. Sepe, L. Curino, D. Livermore, C. Collovà, e con Eric Lascade al Festival di Avignone. Di eccellenti doti canore, ha saputo temperare il crudele realismo documentario del testo di Ken Ponzio, con il personaggio stravagante e culturalmente pop del teatro di “vetrina” occidentale, marchiando di impulsività inconscia le pulsioni represse svelate dal monologo di Ponzio. Ken Ponzio è nato in Giappone nel 1967, diplomandosi in recitazione all’ Accademia dei Filodrammatici di Milano nel 1994, diretto da A. Latella in Romeo e Giulietta, Otello, Riccardo III e autore della traduzione di Re Lear per l’adattamento dello stesso Latella.
Fondamentalismo dell’illuminismo Anche Caterina Carpio è un’attrice napoletana, diplomatasi nel 2003 alla Scuola del Teatro Stabile di Torino diretta da M. Avogadro. Ha interpretato Medea per la regia di Branciaroli nel 2004, Donne in parlamento di Aristofane per la regia di Serena Sinigaglia nel 2007, e l’anno successivo con C. Rifici in un adattamento teatrale del libro Chie Chan ed io di Banana Yoshimoto. Ha donato la sua arte drammatica al monologo poetico di Alexandra Millner, autrice che vive a Vienna, critica letteraria e drammaturga che ha pubblicato libri e saggi sulla letteratura contemporanea asburgica. Fondamentalismo dell’illuminismo è ispirato alla storia di Ayaan Hirsi Ali, una musulmana che si libera del velo nero e della repressione islamica. La Millner ha ripercorso la dolorosa vicenda della politica e scrittrice somala, impegnata a favore dei diritti umani e delle donne. Costretta ad un matrimonio combinato che l’aveva privata della libertà, Ayaan Hirsi Ali chiese asilo politico come rifugiata in Olanda. Nel 2001, dopo alcuni casi di violenza dei musulmani contro alcuni occidentali, ha avuto il coraggio di scrivere che l’ Islam è una religione che non accetta la libertà individuale. Nel 2002 si è candidata alle elezioni, inserendo il problema delle donne musulmane nell’agenda politica del suo paese d’adozione. Nel 2004 ha scritto la sceneggiatura del film cortometraggio Sottomissione, in cui si denunciano gli abusi che subiscono le donne nel mondo islamico. Il 2 novembre del 2004 il regista Theo Van Gogh viene assassinato. L’interpretazione della protagonista esprime l’aspetto del potere legato al corpo, coinvolto in fatti realmente accaduti che le consentono di enunciare con frenata temperanza una riflessione filosofica evinta dalla drammaturga austriaca. Nell’esilio europeo in Olanda, nel Nuovo Mondo, questa figura femminile impegnata in un combattimento contro la propria cultura, studia la filosofia dell’illuminismo, la libertà di pensiero che ha dato valore ai diritti umani. L’attrice siede ricurva su una sedia, al cui fianco giace steso un abito in raso. Una luce proveniente da una lampadina che emana un colore ramato si dilata tra il labirinto di un costante pensiero raziocinante. Il racconto emula la devozione e la castrazione, chiama in causa il monoteismo che impone la legge che essere senza velo significa allontanarsi da Allah. Come raggi divini due riflettori illuminano un corpo stanco, condizionato, che tenta di sciogliersi da un crampo capitale. Il disagio provocato dal machismo spinge nella sua contesa verbale il grido di musulmane catturate e disonorate. La sua gola appare legata come quella degli animali macellati, per onore di un dio che è obbligata a descrivere. I suoi capogiri, come chiodi sulla terra, contorcono a sé il permesso e il divieto di esprimere una propria idea sul fondamentalismo, votati per tutto il tempo al lutto. La sua espressione intellettuale esplica la volontà della comparsa di una nuova grammatica, del diritto a un fatale radicalismo, ma il ragionamento non le impedisce di schiaffeggiare i suoi genitali. Denuncia chi priva gli uomini dell’illuminismo, chi l’ha definita “Voltaire d’ Islam, fondamentalista dell’ Illuminismo, musulmana sbagliata”, chi ha paura perché rappresenta una minoranza tenuta da parte. Le sue parole comprimono gli spazi come anelli, mentre confermano che l’ Illuminismo è libertà in primo luogo per l’ individuo, poi per il gruppo. Rammemora l’idea della tolleranza, la raccoglie nel suo corpo. Indossa l’ abito steso, un tailleur elegante grigio perlato e i tacchi a spillo. Sul sottofondo di una musica rap, non riuscendo a camminare sui tacchi, cade e ricade per terra, prova a camminare a gambe aperte irradiata da potenti luci viola. Poi al microfono racconta la violenza subita da tre marocchini in Olanda, segmentando il linguaggio parlato come cicatrici segnate dall’odio, quello per il suo successo definito come appartenente al “clone indigeno” della sua persona. Il testo esorta il pubblico a svegliarsi a un pensare nuovo, al diritto di criticare una cultura a cui non si sente di appartenere e si chiude con l’immagine dell’omicidio del cineasta Theo Van Gogh, che sul petto portava il messaggio: in nome di Allah, all’assassino sorridente, aggressione contro gli aggressori. Signora Ali, terrore all’ Islam, crociata contro l’ Islam. Infedeltà. La morte è verità. Il suo cuore deve implorare ad ogni battito l’ Essere Supremo. L’ Islam trionferà attraverso il sangue dei martiri. La morte separa verità e menzogna. Spada della fede, Theo è morto. L’attrice traduce il suo pensiero nella solitudine di un volto rado, illuminato nel suo profilo, mentre cieco resta il caso dell’antinomia finale, quella di un Islam vissuto come gabbia mentale e un Ovest sentito come una gabbia fisica.
Kamikaze Number Five Un kamikaze con il numero 5 firmato su una tuta ginnica, sotto la quale indossa una maglietta con la sveglia che segna 00:00, entra con due buste in mano, spargendo coriandoli ed evocando i ricordi del padre. Annuncia che ci saranno 5 esplosioni e che offrirà il suo corpo liberando il suo popolo. Mentre si prepara nelle sue ultime ore, vengono a fargli visita i fantasmi della famiglia morta: il padre, il fratello, la madre e la sua unica figlia, coi quali tenta un’ultima disperata confessione terrena in attesa di riabbracciarli nel Grande Giardino Felice. Fossile sulla scena, il suo corpo vive in un incipiente stato d’allerta, sopra cui le parole esplodono in cenere. Come un martire, ad alta voce invoca l’autoimmolazione, ma non si distingue dal resto del mondo a cui piacciono le barzellette da raccontare per capire l’abbraccio di un fratello. Parla di armi come i mitra, i gas, i fumogeni, elenca al microfono la sostanza di cui sono fatte le bombe, parole che giocano per metonimia con l’effetto pirotecnico emanato dalle multicolori barre Leid. Accenna al pubblico che tiene nascosta nel petto della dinamite, rivela che ha sentito la “chiamata” quando sua madre non era in casa a pregare per i loro morti, perché era andata a schiantarsi contro il filo spinato sognando un mondo di uomini buoni. Come in un numero di macabro varietà, estrae un fazzoletto viola con cui afferma di aver coperto il capo alla mamma, per poi agganciare quello di un tecnico fuori scena che gli lancia un pacchetto. La tensione emotiva espressa dal testo consente all’attore di costruire una partitura calibrata come quella dell’imbonitore sulla suspense. La logica consecutiva delle azioni permette di osservare il ricamo frattale compiuto dal regista intorno a un Gestus come quello del kamikaze. Estrae un paio di scarpe infantili, viola, da un altro pacchetto, facendo mostra della retorica contenuta nelle favole della speranza, perché per lui esiste la memoria soltanto se non si porta il conto del seppellimento di una figlia. Si lega la scatola al petto, insistendo sulla credibilità del fatto che la vittima e il boia non sono la stessa cosa. Fantasmagoriche le luci rosse, blu, verdi delle barre Leid, la cui funzione drammaturgica è quella di sospendere l’uso narrativo dei riflettori pre-puntati sull’attore perseguito dai sagomatori. L’autore del monologo è Giuseppe Massa, palermitano del 1978. Ha debuttato come attore nel 1997 incontrando Latella nel 2002, con cui ha recitato Bestia da stile. Nel 2006 ha ricevuto una segnalazione al Premio Ubu per il testo Sutta Scupa, come “Nuovo Testo Italiano”. Nel giugno del 2008 ha debuttato al Festival delle Colline Torinesi, con Rintra ‘U Cuòri come autore e regista, spettacolo ospitato al Festival dei Teatri Uniti d’ Europa. Tra le esperienze cinematografiche The Palermo shooting del regista Wim Wenders. L’attore protagonista è Massimiliano Loizzi, formatosi presso la Civica Scuola d’Arte drammatica Paolo Grassi di Milano. Nel 2004 ha debuttato con la compagnia Mercanti di Storie (da lui fondata) in un monologo musicale, Mi sono arreso a un nano. Ha recitato con Paolo Rossi nello spettacolo Studio su la povera gente (2009).
Maria L’immagine di un cerchio a mosaico è riflessa sul pavimento della sala, circonda la figura di una penitente in collant viola che sostiene tra le braccia una grande statua della Madonna, conficcata nel petto imperlato da una lunga collana. Candida Nieri dona lo spirito a un monologo che parla della sofferenza tra una madre e la malattia che contagia il figlio, feto e delirio. “Un delirio d’amore, un atto quasi divino, che incarna la vita, che mostra la crepa imperfetta dell’infinito, che fa sussultare l’umanità e la inginocchia imponendole la ferita insanabile del distacco” chiarisce l’autrice del testo. Francesca Manieri è una giovane diplomata in sceneggiatura presso il Centro Sperimentale di Cinematografia. Ha scritto e girato alcuni documentari tra cui Solo per oggi e Zanzibar. Dal 2004 collabora con Pierpaolo Sepe, di cui ha seguito come assistente Erodiade di G. Testori con Maria Paiato; ha composto, per la regia di Pierpaolo Sepe, Il senso della lotta andato in scena al Teatro Colosseo nel dicembre 2007, scrivendo e curando la regia nel 2008 del monologo Via Longoni – notturno per una regina in scena al Teatro Colosseo nel settembre 2008. Il testo anfrattuoso svela che il fondamento su cui si basa la realtà di una donna in difficoltà nel chiamarsi “madre” è stato demolito dalla falsa testimonianza su cui sopravvive la società. Maria annienta la purezza con un volto svezzato dalla Gloria, la caratteristica del suo corpo è la superficie, mentre il resto intero è “liquido convesso”. La voce attacca i propri fantasmi consci, si scaglia selvaggia contro la forma oscena della parola madre, algida come la statua di pietra che stringe tra le braccia. Nel monologo la figura materna della Sacra Famiglia viene scarnificata da verbi come “imbevere, inzuppare, gonfiare le vene, squarciare la corteccia”. L’ intensità tragica con cui il dolore sgorga da una gola infiammata dal patimento, somiglia alle isteriche convulsioni delle frasi spezzate di Sarah Kane. I gomiti storpiano le curve levigate della statua, mentre la potenza iconoclastica rappresa nel senso del dramma conduce la performance verso il tono melodrammatico di una lamentazione sacra, che schianta al suolo la fragilità della protagonista con la sua Madonna. Chiusa in un corpo che chiama “nido deserto”, replica della scena-ventre a mosaico entro cui si è impalata, assume la posizione del parto, incurva l’ arco isterico, esprime un canto di morte quasi sepolta sotto il masso di pietra della Vergine, in una follia d’amore che recita “ama la tomba che sei”. L’uso dei fari che la folgorano in orizzontale, legano per anafora la sua figura umana a quella divina del pupo statuario che trascina con sé. La canzone Like a Virgin di Madonna la assale e lei si traveste da cocotte in parrucca bionda, inalando del talco al Cielo. Traina un carrello pieno di Madonne mezze decapitate e inizia a prezzare delle borsette. Con l’interrogazione infelice di “Dove hai messo mio figlio?” rivolta alle Madonne che “ripulisce” con uno spolverino, grazia la sua condanna all’anatema. L’attrice si chiama Candida Neri, diplomatasi alla Scuola del Piccolo Teatro di Milano nel 1999. Ha recitato per Marco Leone (Processo alle streghe.1647? di C. Rotelli nel 1993, Studio su Natale in casa Cupiello di Eduardo De Filippo), Antonio Capuano (in Hamlet Machine di H. Muller) e nel 2008 ne Le lacrime amare di Petra Von Kant di Rainer Werner Fassbinder, regia di Antonio Latella.
Il Gatto Nero L’autrice del monologo è Letizia Russo, nata a Roma nel 1980, scrittrice e traduttrice per il teatro. Nel 1988 ha vinto il Premio Grinzanescrittura, nel 2001 il Premio Tondelli con Tomba di cani e nel 2003 il Premio Ubu come migliore novità italiana. Nel 2002 ha scritto su commissione del National Theatre di Londra Binario morto- Dead end e Asfissia per il Premio Candoni Arta Terme. Del 2003 è Babele e del 2005 Primo Amore. The black Cat- il Gatto Nero è una storia già raccontata da Edgar Allan Poe. Un uomo appassionato del suo gatto nero, precipita in un inferno che lo porterà ad uccidere, a perdere il controllo del proprio destino. Nel monologo la storia è raccontata dal punto di vista del gatto, “causa di tutti i mali, oppure, semplicemente, portatore di un amore fanatico, impresentabile al mondo” aggiungono le note al testo. Una serie di riflettori (un artistico montaggio di puntati) circonda come un filo spinato un attore incatenato a un tubo verde fosoforescente, che siede su una poltrona viola da cui si sviluppa un lungo strascico; indossa una parrucca viola e la sua bocca è serrata dallo scotch. Si slega e inizia a raccontare la storia finita di un duo, il cui tempo è stato passato a svuotare i bicchieri e a pensare di ammazzare qualcuno. Il narratore, in una situazione di soffocamento sartriano, sussurra a tratti i suoi pensieri sull’ alcolismo e sul pianto di un suo compagno che lo voleva ammazzare. I fonemi richiamano le amputazioni amorose delle mani atterrite, sul sottofondo prodotto dal rumore di un ventilatore che ruota in alto appeso alla parete rossa. I riflettori si accendono all’improvviso tutti insieme, mentre il dramma poetico di Letizia Russo tenta di uscire da una presenza claustrofobica che implora “il farsi di vetro, allungare l’arrivare, appendersi ai rami degli alberi”. Sul petto dello smunto felino è visibile una sottile collana con una pallina legata a un elastico, che richiama metaforicamente il miagolio impresso da un campionatore su un motivo di musica classica. E mentre il suo corpo si svuota come a perdere la propria anima lentamente, le parole sentenziano che la differenza tra gatto e cane si comprende quando si ama il proprio padrone. Terminata una lunga corsa verso la putrefazione interiore, decide, meditando sull’ incontrarsi di dismemorie collettive, di indossare l’ impermeabile sopra il completo viola di giacca e pantaloni. I sui occhi vigili vengono fasciati da un filtro sagomatore fatto a mascherina, che produce un taglio netto sulla luce di un riflettore che gli illumina lo sguardo come un gatto nato per vivere più volte. Daniele Fior si è diplomato presso l’ Accademia Nazionale d’ Arte Drammatica “ Silvio D’ Amico” di Roma nel 2002, lavorando in seguito con Anton Milenin, Matthias Langhoff, Fura dels Baus, Irene Papas, Michele Monetta, Mimmo Cuticchio e Danio Mafredini. A esperienze legate al mondo della commedia dell’arte ne alterna altre con registi romani come Andrea Baracco, Stefano di Pietro o compagnie come Muta Imago. Ha fondato la compagnia Lococtavia nel 2002, mettendo in scena opere di S. Mrozek, A. Hurkmans e Hamlet di William Shakespeare.
Caro George Federico Bellini ha lavorato come assistente per il regista Antonio Latella nello spettacolo I negri, prodotto dal Nuovo Teatro Nuovo di Napoli nel 2002. Ha collaborato con Latella in qualità di drammaturgo per Querelle dal romanzo di J. Genet nel 2002, I trionfi dal poema omonimo di G. Testori nel 2003, La cena de le ceneri dall’omonimo trattato di G. Bruno nel 2005, Studio su Medea nel 2006, Moby Dick nel 2007, Non essere-Hamlet’s portraits nel 2008, Le metamorfosi e altri racconti da F. Kafka (per Schauspiel di Colonia) e Don Chisciotte nel 2009. Nell’ottobre del 1971, a Parigi, una retrospettiva consacrò Francis Bacon come uno dei più grandi pittori del suo tempo. Alla vigilia della mostra, il suo amante e modello George Dyer, si suicidò nella stanza d’albergo che ospitava entrambi. Incorniciato da una pila di luci disposte a raggiera e da una ruota di bicchieri disposti in cerchio, di fronte ai dipinti che raffigurano George, Bacon rivive la relazione con il compagno. Addossato su una sedia, sovraccarico di un’ ampia veste lattiginosa composta di guanti in lattice variopinti che lo trasformano in un albero di foglie secche, con una tiara viola sul capo dà inizio ad un monologo in cui il momento del trionfo artistico e del fallimento esistenziale si confondono. Spogliatosi del costume organico, sfoggia un completo elegante (con fazzoletto viola nel taschino della giacca) ed elenca i ritratti di George, seduto di spigolo con le gambe incrociate, corpo volitivo che domina i riflessi. Si sente un pugile, che lotta tra sterline e vanità consumata. Come gli altri monologhi, anche questo testo rende testimonianza dello scempio da compiere su un’immagine mono-tematica, della coscienza politica per cui chi rimane offesa è la piccola bestia proletaria, che non poteva assistere mentre l’artista si dipingeva. La poesia si esprime in ritratti di un corpo combattente e si mescola alla metafisica della pittura che si fa contenitore della vita, con cenni al cannibalismo per cui, come scrive Bellini, Bacon “aveva una testa che si nutriva di altre teste”. Giovanni Franzoni, interprete disgustato dall’articolazione della propria Bocca (di beckettiana memoria), parla di un compagno anatomizzato come suo modello, stonando le sillabe e inserendo minime gesticolazioni di una biografia ri-narrata del pittore irlandese, come un dondolio di portachiavi, la morsa di una bottiglia stretta tra i frammenti di suoni di roulette. Dopo essere stato ingabbiato scenicamente entro i segni dei parallelepipedi che circondavano il ritratto di George Dyer, l’attore scivola dalla sedia come a ingoiare la macchineria barocca del suo trionfo, come una carcassa scalza. Rimane in mutande, frastornato da una luce verde acido, per proclamare che “il verbo scende dalla croce per darsi alle cose affamate”, per chiudere questa maratona con il cuore dell’ attore e la sua macelleria. Giovanni Franzoni si è diplomato al Teatro Stabile di Genova; è stato diretto da Sciaccaluga, V. Gassman, De Capitani, Shammah, Pizzi, Gallione, Dall’ Aglio, Servillo, Barberio Corsetti, Loris. È stato diretto da Antonio Latella in Amleto, Romeo e Giulietta, Riccardo III e Querelle nel 2002 e La Bisbetica Domata nel 2004. Tra gli ultimi lavori Ultimi rimorsi prima dell’oblio (2008) di Jean Luc Lagarce diretto da Lorenzo Loris e Passaggio in India (2008) per la regia di Federico Tiezzi. |