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La mitopoiesi e il suo opposto

Chiosa a Cédric Andrieux di Jérôme Bel al Comunale di Ferrara
di Silvia Mei

 

Ci aspettavamo Lutz Förster, come da programma, al terzo appuntamento di danza promosso dal Teatro Comunale di Ferrara, da tempo impostosi in Italia come cartellone tra i più aggiornati e alternativi in materia (www.teatrocomunaleferrara.it), anche in ragione della grande spinta alla nuovissima coreografia italiana (dal 2007 col microfestival Fuoristrada, alla sua quarta edizione).

La stagione si è aperta lo scorso 15 ottobre con Travelogue I di Sasha Waltz & Guests, datata creazione (1993) della coreografa tedesca, erede, a torto o a ragione, del Tanztheater di Bausch o, preferibilmente, nome di punta del post-tanztheater. “Travelogue” rimanda nell’etimo al motivo del viaggio e, per la precisione, sta ad indicare un reportage di spedizioni turistiche. Nel trittico di Waltz, sorta di “trilogia della villeggiatura”, si lavora sulla dimensione domestica – interno di casa di studenti o stanza d’albergo abitata da una strampalata umanità (come nella terza puntata) – affacciata su esterni altrettanto bizzarri e permeabili al living room. La drammaturgia è un serrato e surreale intreccio di situazioni, venata di un humor e di una comicità a tratti esilarante.

Ha dunque sorpreso, lo scorso 9 novembre, la cancellazione dello spettacolo di Jérôme Bel con e su (e in parte di) Lutz Förster, intenso danzattore a Wuppertal, noto ai più per l’interpretazione mimico-gestuale dell’aria The man I love, in frak e cravatta, capelli perfettamente impomatati, tradotta col linguaggio dei muti e straordinariamente filmata dalla cineasta belga Chantal Ackerman, che ha apposto come titolo del celebre documentario sul Wuppertaler Tanztheater proprio le parole di Förster: “Un jour Pina a demandé…” (1984).

 

Nell’anno delle commemorazioni di Bausch – ricordiamo sempre a Ferrara l’ultima creazione di Alain Platel, Out of context. For Pina (13-14 novembre) – quello di Bel si annunciava come uno straordinario ed elegante omaggio. Lo spettacolo è stato invece sostituito con un altro solo, di certa tenuta e vigore, appartenente comunque nel progetto biografico dell’eretico e indisciplinato coreografo parigino, che dagli esordi, nel 1994 con Nom donné par l’auteur, ha cominciato a interrogare la forma performance in quanto struttura relazionale e operazione concettuale. Mai come in questa circostanza che vuole Förster in terapia, si è potuta percepire la fragilità di una danza che è essenzialmente fatta di presenze pure, dati reali di individualità non contraffabili. Föster non è sostituibile, non è interpretabile, non è rimpiazzabile: è. Quanto basta per spiazzare la logica commerciale, da compagnia di giro, del secondo cast e dei sostituti, su cui si è da sempre nutrita l’aneddotica di tante étoiles, dalla Pavlova alla Fracci, la cui epifania artistica si è avverata in virtù delle disgrazie di esimie colleghe. E questo non è che un leitmotiv nelle (auto)biografie di uomini e donne (soprattutto) di teatro.

Dopo l’illuminante solo di Véronique Doisneau, danzatrice subjet in quel baluardo della tradizione che è la compagnia dell’Opéra di Parigi, Bel prosegue lungo la china dell’(auto)biografia in forma di conferenza-spettacolo. La creazione su Doisneau viene proiettata in film, prodotto dall’Opéra de Paris con France 2 e Mezzo, dopo la prima alla sede Garnier, dove la solista ha salutato il pubblico con la sua ultima apparizione, a otto giorni dalla retraite a soli 42 anni di età. Celebre terza ombra, variazione in allegro, nel secondo atto, notturno e onirico, di La Bayadère, Véronique parla delle sue frustrazioni in modo secco e privo di qualsiasi partecipazione, ricordando con devozione l’illustre lezione del maestro, Rudolf Nureyev: “Il avait tout compris. Il nous a donné cette idée, que c’est par la maîtrise du langage de la dance que l’on arrive à l’émotion”. È sicuramente un fil rouge che attraversa i tre soli (per quello di Förster andiamo a intuito, senza correre rischi), quello della distanza emotiva stridente nell’atto di nominazione e dichiarazione anagrafica dell’incipit: il verbo essere alla prima persona è garanzia di autenticità, se così non fosse, cioè se vigesse la logica sostitutiva della rappresentazione, regolata dalla distribuzione di una parte, e il nome, che coincide col titolo, diventasse un personaggio, verrebbe a cadere il presupposto dell’intera operazione promossa da Bel.

Il danzatore, da vero solista, parla di se stesso senza interpretarsi, senza improvvisare, senza mentire, senza costruirsi un monumento. A quello ci pensa Bel, con la scelta di nomi defilati, mai altisonanti, mai divi, altrimenti troppo spazio dovrebbe concedere alle smanie narcisistiche ed esibizionistiche dell’étoile. Sarebbe un recital, una beneficiata, uno show. La logica di Bel vuole infrangere invece tutti i luoghi comuni e in uno spazio scarno, ampio e vuoto, scevro dagli orpelli e dagli accessori decorativi che ornano il corpo, lo camuffano, lo esaltano, “abbandona”, in abbigliamento da lavoro, niente costumi, niente musica, il performer.

Doisneau danza scandendo vocalmente la musica, cantandola mentre la esegue, e l’acme lo si raggiunge col Lago dei cigni per il quale chiede al tecnico, Bruno, di mettere la musica: siamo al pas de deux del secondo atto che danza interamente nel ruolo che è stato suo per tutta una carriera, quello di cigno nel corps de ballet. Esistono invero diverse prospettive che non quella centrale e “suprematista” dei protagonisti: Doisneau e Bel ci fanno vedere quello che di solito non viene valorizzato ma che valorizza in quanto decorativo e funzionale: la cornice. L’intensità e precisione esecutiva è troppo forte per non liberare, a quel punto, nel pubblico una cascata incontenibile di applausi.

Medesima dimensione ascetica e antidivistica per Cédric Andrieux: curriculum ineccepibile per il danzatore francese diplomatosi al Conservatoire parigino, poi fino al 2007 nella compagnia di Merce Cunningham e oggi nel balletto dell’Opéra di Lyon. Vessato per anni dal training del padre fondatore della postmodern dance, temprato dalle dure sedute di composizione coreografica del maestro e dagli scarti delle performance, dove la partitura musicale è un tappeto di suoni indipendente dalla danza, Andrieux trova nuove risposte alla sua condizione di danzatore grazie all’affondo biografico che gli propone Bel, dopo un viaggio in treno e una corrispondenza mail.

Jérôme Bel propone un esercizio di mitopoiesi al contrario: la piccola biografia, senza grandi eventi, senza strappi e furori, fatta piuttosto di piccoli quotidiani incidenti, di normalità, di silenzi e anche di noia versus le grandi memorie e l’aura delle star. È una frecciata la sua allo star system, all’Arte con la maiuscola che richiede Vite Eccellenti, nomi illustri. Ma c’è un’arte che è anche mestiere, dietro il quale si può scorgere un’umanità più ricca e anche più prossima che merita di diventare esemplare.

In conclusione, se dicessimo che Bel è il miglior erede e prosecutore di Bausch, potrebbe apparire blasfemo e inopportuno, tuttavia tanto del suo pensiero, molto della sua poetica porta alla coreografa di Wuppertal, che per tutta la vita ha raccontato di sé con le parole degli altri.

 
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