Teatro: un’arte sui generis
[Silvia Mei] Sulle colonne del numero 30 (giugno 2013) di “alfabeta2”, per il dossier a cura di Valentina Valentini, Nuovo teatro italiano (pp. 28-30), si è consumata una surrettizia “riflessione” intorno alla nuova scena italiana degli ultimi dieci anni o del primo decennio di nuovo millennio. Il “dialogo”, promosso con metodi quantomeno insoliti da Valentini, intorno a fenomeni oggi in atto nel teatro di ricerca nostrano, articola piuttosto – come probanti coefficienti linguistici, stilistici e retorici tradiscono – un’istruttoria o un’antidialettica a partire dal mio Gli anni Dieci della nuova scena italiana. Un tracciato in dieci punti, in apertura di dossier. Il suddetto contributo non è stato originariamente prodotto nella forma lì pubblicata, al contrario l’ho ripensato, dietro invito di Valentini, secondo un taglio più giornalistico e per un lettore non necessariamente edotto in fatto di teatro (e per di più di un teatro in Italia non certo maggioritario). Il mio tracciato prendeva allora le mosse da una comunicazione presentata al Colloque International di Charleville-Mézières dedicato alle eredità contemporanee di Gordon Craig e di Tadeusz Kantor e promosso da una prestigiosa istituzione pedagogica e di ricerca come l’Institut International de la Marionnette. In attesa della pubblicazione bilingue (francese-inglese) degli atti, il contributo, formulato per una presentazione orale in lingua francese, ha conosciuto un’estensione saggistica in italiano all’interno del Festschrift in onore della studiosa magiara Ilona Fried, "Sul fil di ragno della memoria" (Elte BTK, 2012), per trovare successivamente una più rapida capillarità grazie alla rivista online degli “Annali” di Lettere dell’Università di Ferrara (n. VII/2 2012), per cui ringrazio sentitamente la redazione. Cercando di andare oltre l’occasionalità di alcuni interventi di matrice critica (penso, primo fra tutti, alla panoramica di Gianni Manzella, Un nuovo teatro per gli anni dieci?, “Art’ò”, n. 30, 2011) e di diversa tascabilità (come gli utilissimi e imprescindibili breviari della serie Iperscene, ideata da Paolo Ruffini per Editoria&Spettacolo, con collazione di schede, iconografia, interviste, scritti d’artista e brevi, militanti interventi di studiosi e liberi battitori della ricerca), il mio saggio ha il merito (o forse il demerito) di rappresentare un primo, coraggioso (poi scoraggiato) tentativo di sguardo globale e di bilancio, mai esaustivo e assolutizzante, su di una realtà estremamente variegata e magmatica come il teatro di ricerca italiano di ultima generazione, diversamente etichettato suo malgrado. Ebbene, questo mio provvisorio tentativo di istruire scientificamente e storiograficamente una cartografia orientativa sulla fenomenologia della nuova scena, mettendo a frutto un monitoraggio di anni spesi in affiancamento e collaborazioni artistiche coi gruppi selezionati, come nell’esercizio critico che mi compete formalmente almeno dal 2009, è diventato bersaglio di una vera e propria confutatio a quattro mani di Matteo Antonaci e Chiara Pirri, aspiranti critici ancora in formazione, diversamente legati a Valentini e alla “scuola romana”. Lungi da me l'idea di negare che una polemica intellettuale possa virare anche in tonalità accese con stoccate e toccate degne del miglior fioretto – proprio come si addice ad uno schietto confronto tra studiosi di rango –, ma l’architettura del dossier a partire dalle interrogazioni retoriche e dalla subdola neutralità dell’editoriale, non promuove una dialettica, non incentiva un dibattito, non apre a un confronto, tantomeno si pone come terreno di prova per studiosi in erba. Non penso si possano istituire priorità in fatto di ricerca, esistono semplicemente studi e studiosi che, onestamente, faticosamente e coraggiosamente in questi tempi tristissimi svolgono con dedizione e rigore un lavoro non certo remunerativo o gratificante. In questo senso vogliamo darci la possibilità di replicare pubblicamente al dossier di Valentini e alla penna di Antonaci-Pirri, entrando nel metodo delle modalità e delle forme e nel merito dei contenuti, dal momento che una proposta di replica su quelle stesse pagine non è stata accolta.
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I Giusti per l’Italia del ‘77
Dal 2 al 4 aprile al Teatro Tordinona torna in replica, dopo il debutto nel dicembre 2012 nello spazio occupato del padiglione 31 dell’Ex Ospedale Psichiatrico di Santa Maria della Pietà a Roma, 1977 La rivoluzione è finita. Abbiamo vinto, testo di Francesca Pirani, regia di Eugenia Scotti e Francesca Pirani.
[Silvia Mei] Preparativi per un attentato. Sfaldamento interno al movimento tra chi crede nella libertà attraverso la solidarietà umana e chi pratica la rivolta come un balsamo da somministrare sulle piaghe sociali. Stepan e Yanek vivono diversamente l’ingaggio per un mondo migliore, che può operarsi attraverso la poesia oppure con le bombe. Così come Giuliano e il Picchio, che tra la messa in prova dei Giusti di Albert Camus (ambientato nella Russia prerivoluzionaria tra il 1901 e il 1906) guardano, polari, alla loro missione salvifica nell’Italia del 1977. Un anno cruciale nella storia della Prima Repubblica italiana, per la svolta interna al Movimento rivoluzionario che dal Sessantotto cominciò seriamente a credere che si potesse cambiare il mondo lanciando sanpietrini e sovvertendo l’ordine con la P38. Non sembrava impossibile a una generazione che tutto ha potuto ma molto ha anche fallito, facendo delle sue utopie un’ideologia delirante che contemplò l’omicidio (Aldo Moro) e senza ancoraggi alla realtà (per attutire il devastante “compromesso storico” del PCI).
Nasce da una profonda conoscenza della storia, anche vissuta per corrispondenza anagrafica, il testo di Francesca Pirani, sceneggiatrice (di Marco Bellocchio, tra gli altri) e autrice, che ha passato in rassegna centinaia di lettere di giovanissimi ardimentosi del Movimento del ’77. Il testo rievoca fedelmente un’atmosfera di euforia e giovinezza, di irrazionalità e sogno di giovanissimi che vanno all’università e fanno teatro, senza tuttavia aderire a una ricostruzione di fatti specifici ma parlando di un anno breve dopo le vertigini degli anni Sessanta e prima della lotta organizzata. “Il ’77 – scrive nelle sue note Pirani - è un cerino che brucia da due parti: nell’arco di pochi mesi si propaga in tutta Italia un movimento giovanile che genera l’idea o piuttosto l’illusione di una trasformazione in atto, che poi non riesce a svilupparsi e crolla sotto il peso di ciò che non si compie: all’euforia subentra la rabbia e con essa la disperazione, per un fallimento avvertito come incipiente”. Il ’77 è qui inteso “un momento all’interno di un quadro più ampio, una storia in cui si ripropone una partita sospesa, rimandata, che affonda le radici nei crolli ripetuti dei movimenti storici, a partire dalla rivoluzione d’Ottobre”.
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Swan Lake – Emerged
[Silvia Mei] Ha le dimensioni di un leporello dongiovannesco il catalogo delle new editions, restyling, riletture, adattamenti e coregie di una pietra miliare del balletto classico come Il Lago dei cigni; monumento caduto nel dimenticatoio per oltre trent’anni dal debutto nel 1895 prima del riallestimento integrale al Sadler’s Wells di Londra nel 1931. Da quel momento nessuno coreografo è riuscito a resistere alla tentazione di cimentarsi nella ripresa e nella declinazione moderna e/o contemporanea di un coreomélo tra il fantasy e il noir. Basta leggere il primo soggetto moscovita del libretto ottocentesco per capire le dimensioni e la varietà di ambienti che avrebbe potuto contenere: dal realismo della reggia alla lunare riva lacustre fino al mondo sottomarino dove i due promessi amanti riposano finalmente uniti nella morte.
Recentemente abbiamo apprezzato la versione darkskin della promessa sudafricana Dada Masilo (lo scorso ottobre nell’ambito della stagione di danza per I Teatri di Reggio Emilia), che ha lavorato letteralmente sul contrasto archetipico bianco/nero secondo un coro di cigni di colore, scalzati e a piedi nudi, come veri anatidi, che affondano in profondi pliés dalle terga sporgenti rievocando antiche danze tribali. Di ben altro calibro e diversa lavorazione concettuale è invece La stanza del Principe di Enzo Cosimi (il prossimo 8 maggio a Bologna per La Soffitta/Danza), che tematizza il ratto della vergine declinandolo in un set installativo multifocale incorniciato da una teoria di cignette, inerti oggetti di una violenza oscena ora rievocata da immagini di case di tortura.
Ma l’infiltrazione del balletto di Petipa-Ivanov nell’immaginario collettivo è forse più rimarchevole e probante di una seppur copiosa lista di remake. Solo due episodi: l’apparizione di Björk agli Oscar del 2001 in un succinto abito da cigno bianco/Odette ma con la malizia di una Odile/cigno nero; e il film di Darren Aronofsky, Black Swan (2010) che tocca efficacemente, al di là dell’effettiva riuscita del film, gli archetipi fondativi del balletto sceneggiati in chiave thriller-noir tra i diversi doppi e doppioni del personaggio e della sua interprete (Natalie Portman). L’icona del cigno e la musica di Čajkovskij sono diventati una perfetta endiadi dell’amore assoluto, del contrasto vita-morte, eros-thanatos, complice appunto una musica paragonata a “un mazzo di fiori con le radici nella disperazione”. Proprio con questa espressione Mats Ek, coreoregista svedese di nobili loco, definisce la partitura cajkovskiana proponendo per la prima volta col suo Svansjön un cigno antigrazioso e goffo, di pelle bianca e nera, scalzato e a piedi nudi, indifferentemente maschio e femmina. Era il 1987, la critica che tanto aveva osannato la sua rivisitazione di Giselle nel 1982 ora rimaneva delusa di questa seconda impresa e psicoanalizzava il rapporto Regina Madre-Sigfrido nella specularità conflittuale di Birgit Cullberg col figlio d’arte Mats Ek. Non troppi anni dopo (correva l’anno 1995) sarebbe arrivata l’edizione forse più celebre e riuscita di Matthew Bourne per Adventures in Motion Pictures (diventata oggetto di citazione come nel film Billy Elliot) che ripensava english style (e ingiustamente etichettato come un “lago gay”) il balletto classico.
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L’educazione (fisica) delle fanciulle
[Silvia Mei] È un racconto on the road, quello di Giulia Vola, autrice, giornalista e viaggiatrice, partito dal quartiere interetnico di San Salvario a Torino, dove vive, per un progetto interrail asiatico-mediorientale e di couchsurfing presso le famiglie dei suoi polirazziali vicini di casa. Un viaggio che, nella doppia prospettiva di chi parte e di chi resta, racconta di usi e costumi, guardati con l’occhio lucido e naif di un reporter curioso. Ricorda, nel taglio e nella vivacità del racconto, la rubrica di Gabriele Galimberti per il settimanale “Donna”, che la scorsa primavera girò il mondo, ospitato in abitazioni private e condividendo biografie di popoli raggiunti dall’orda capitalistica e dal globalismo fusion. Alla fine non troppo diversi da noi europei, che mangiamo kebab, tra una sessione di fitness e una proiezione di cinema d’essai, e che pur tuttavia viviamo in modo forse più lacerante le forme dello sradicamento e del sincretismo culturale.
Fallisci e sei morto! L’Ikea vende più della Bibbia, nella riscrittura scenica secondo Cristiano Falcomer, attore e regista, fondatore della compagnia I Lunatici, trasferisce le forme del conflitto culturale sul corpo della donna, più inciso e segnato dai tratti di un popolo, in quanto depositario simbolico della storia e delle usanze di una comunità. Sono allora due in scena le figure delle "fanciulle" diversamente educate alla sessualità, ai dolori del parto, alla cura del corpo, ai riti di passaggio, all’amore filiale, secondo le polari qualità fisiche delle attrici Mirella Mastronardi e Valentina Pollani. Nel loro bavardage da confidenti, la marocchina e l’italiana, condividono gioie, segreti, amarezze: ora come bamboline da carillon che sfilano sul perimetro di un ring scenico – una vera e propria zona d’urto tra atletica e sociologia – scambiandosi stereotipi dei più beceri e comuni, ora invece madri e mogli senza confini di razza e fede, che condividono saperi e pratiche, esercitano oltre i pregiudizi le forme dell’accoglienza e della sorellanza.
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