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Focus on
ELOGIO DI CARLO CECCHI

“Un attore che recita, ma che pensa anche sul recitare” *

 

 


[Marco De Marinis] Chiunque voglia tentare  un approccio complessivo al lavoro artistico di Carlo Cecchi, attore e regista teatrale straordinario ma anche notevole interprete cinematografico e televisivo, si trova di fronte a un'impresa tutt'altro che agevole. Anche  limitandosi al solo contributo teatrale, si tratta di confrontarsi con un repertorio di spettacoli non solo vastissimo numericamente ma anche e soprattutto estremamente diversificato, che va da Shakespeare alla farsa dialettale napoletana, da Molière all'ottocentesco Büchner, da Majakovski a Brecht, da Pirandello ad alcuni dei massimi autori contemporanei: Beckett, Pinter, Bernhard. E anche questo elenco è ben lungi dall'essere completo. Si potrebbe affermare – come in effetti è stato fatto – che, in realtà, “l'intero patrimonio teatrale è oggetto della vorace sperimentazione di Cecchi”. E aggiungere inoltre che una teatrografia così vasta e diversificata è sicuramente indizio di “uno spirito inquieto e curioso, che rifugge da ogni chiusura” (cito ancora da una nota enciclopedia).

In questo mio breve discorso di festeggiamento  sarò costretto a compiere delle scelte drastiche. Volendo evitare – non solo per ragioni di tempo – le trappole della esaustività enciclopedica, da un lato, e quelle della celebrazione generica, dall'altro, cercherò di cogliere la specificità e l'importanza del contributo dato da Carlo Cecchi al teatro italiano, e più ampiamente alla cultura del nostro Paese, attraverso un breve rosario di parole chiave.
Ma prima un'autodefinizione (del 1978) particolarmente precisa nella sua apparentemente dimessa oggettività, fra le numerose che gli è capitato di attribuirsi nel tempo, pressato in genere dagli intervistatori:

Sono soprattutto un attore, regista attraverso l'attore, sono un attore che recita, ma che pensa anche sul recitare.

Parto da questa autodefinizione anche perchè mi consente di mettere in campo la prima parola chiave, e cioè ESTRANEITÀ.

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TEATRO D'OPERA

Il suono giallo tra Kandinskij e Dessì


Gianni Dessì, In Opera, 2006.

 

[Erica Faccioli] L’opera di Vasilij Kandinskij Il suono giallo è andata in scena al Teatro Comunale di Bologna dal 13 al 17 giugno. Definita dall’artista russo come “composizione scenica”, poiché – secondo una sua affermazione -, “non rientra in nessuna delle forme consuete”, l’opera si avvale nell’originale dell’apporto musicale di Thomas von Hartmann, autore, tra l’altro, delle musiche per le danze sacre di Gurdjieff (e del libro di memorie: Our life with Mr. Gurdjieff).
In linea coi principi de Lo spirituale nell’arte, Kandinskij propose, in un testo apparso nel 1913 su “Der Blaue Reiter”, una nuova e alquanto enigmatica definizione della composizione scenica, a introduzione de Il suono giallo. Accordandosi con il paradigma, già ampiamente presentato, della “necessità interiore come unica fonte di creazione”, Kandinskij introduce il suo arditissimo atto unico in sei quadri ripudiando la logica della “necessità esteriore” della forma e inneggiando all’eco che ogni forma di espressione artistica comporta. Secondo l’artista russo, mancando completamente dell’“elemento cosmico”, il dramma a lui contemporaneo eludeva del tutto la natura spirituale – eterica – della forma, del colore, del suono, del movimento. L’essenza del dramma coincide invece per Kandinskij con l’effetto suggerito dai mezzi espressivi, liberati del loro significato contingente e “astratti” secondo la loro essenza di “impressione” e “riviviscenza interiore”. Scritto nel 1912, Il suono giallo accompagna il grande cambiamento che porterà l’autore a rifiutare la mimesi e il figurativo in ambito pittorico, mentre scrive diverse composizioni sceniche “anti-rappresentative” (Voci, Nero e bianco, Figura nera, Il sipario viola). La rappresentazione è sostituita dalla vibrazione sonora prodotta dal colore, e da una concezione che trova molte assonanze con le teorie espresse dai teosofi A. Besant e C. W. Leadbeater in Thoughts Forms (Le forme-pensiero) del 1905. Con tali premesse rivoluzionarie, Il suono giallo si è visto rarissimamente sulla scena: fallito il tentativo del 1914, previsto per il Künstlertheater di Monaco, a causa dello scoppio della guerra, fallita anche la proposta a Stanislavskij, si dovrà attendere l’iniziativa del poliedrico e geniale Jacques Polieri, che nel 1975 presenterà l’opera all’Abbazia di Saint Baume in Provenza, prima, e al Théâtre des Champs-Elysées di Parigi l’anno successivo (in seguito, nel 1982, venne messo in scena in occasione dell’esposizione di Kandinskijana al Salomon Guggenheim Museum).

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TEATRO DEI LIBRI

Paolo Puppa, Ca' Foscari dei dolori. Romanzo, Corazzano (Pi), Titivillus, 2014, pp. 272.

 

Caro Paolo,

 

raramente mi è capitato di leggere un’opera di narrativa di cui conoscessi personalmente l’autore, come per il tuo Ca’ Foscari dei dolori. Ammetto che, dietro la maschera dello scrittore, mi è stato impossibile non intravedere anche la persona-drammaturgo, il performer e l’accademico. E, pur sapendo che questo romanzo è “solo” frutto di invenzione, mi ritrovo ora a ricongiungere le tue molteplici identità, compiacendomi di questa ambiguità come di una scoperta fatta tra le righe del testo. Più che un’interpretazione critica del libro, questa lettera vuole dunque restituirti l’indiscrezione del mio sguardo, che rivolgo al drammaturgo e al professore universitario, come al romanziere e, ancor più, alla persona in cui questi ruoli e funzioni si congiungono.
Per tutta la lettura non ho potuto fare a meno di cogliere una connessione fortissima con la scrittura teatrale: seppure in prosa e con quell’approfondimento che solo il romanzo forse consente, mi è parso di ascoltare un lungo monologo (questa la forma teatrale che vi assocerei) e, di conseguenza, di essere spettatrice solitaria, come spiando dalla fessura di una porta, più che da una grande sala.
Quest’impressione credo sia data dalla definizione dei personaggi. Le altre persone, a parte Giacomo, esistono solo nei loro comportamenti, nella loro esteriorità. Sembrano esserci unicamente come risposta o reazione alla presenza e alle parole del protagonista, senza una vita propria: vediamo tutto esclusivamente dal suo punto di vista.

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ARE WE HUMAN 2015

Nessuna speranza di essere graziato: il Maestro Invisibile racconta la sua Vocazione


[Monica Cristini] Recitar! Mentre preso dal delirio,/non so più quel che dico,/e quel che faccio!/Eppur è d'uopo, sforzati!/Bah! sei tu forse un uom?/Tu se' Pagliaccio!. Con la celebre aria di Leoncavallo Danio Manfredini incontra il suo pubblico, scivolando da dietro un sipario velato quasi a marcare il debole confine che separa l’attore dal suo personaggio. E si racconta, sotto le spoglie del vecchio attore che, con in mano il copione del Re Lear, ripercorre le sue glorie e confessa i propri dolori giungendo all’unica amara consolazione che “l’arte è un voto” che non si può sciogliere mai.

 

E’ un canto d’amore e al contempo di profonda amarezza, quello dell’attore, per il “destino dolcissimo e terribile” della vocazione, un demone incalzante che non dà tregua ma senza il quale l’artista di teatro non sa vivere. Da qui parte l’autore-regista Manfredini per guidarci in un viaggio attraverso la sua vita di personaggio e d’attore. Il sapiente montaggio di quadri - che attingono dal suo repertorio e da scene di opere teatrali che si interrogano sull’essenza dell’arte del teatro - rivela la grandezza di un artista che ha saputo elevare la propria voce ed il proprio corpo a poesia.

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TEATRO DEI LIBRI

Jerzy Grotowski, Testi 1954-1998. Volume I. La possibilità del teatro (1954-1964), traduzione italiana di Carla Pollastrelli, Firenze-Lucca, La casa Usher, 2014, 262 pp.



[Marco De Marinis] Quella inaugurata dal volume arrivato da poco in libreria è un’impresa editoriale e culturale di eccezionale rilevanza, che spero ottenga la risonanza che merita (anche se un legittimo pessimismo indurrebbe purtroppo a dubitarne). Grazie allo sforzo congiunto di Fondazione Pontedera Teatro e del Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards, nelle persone di Mario Biagini e Thomas Richards, e all’impegno straordinario della traduttrice-curatrice Carla Pollastrelli, verrà messa in rapida sequenza a disposizione del lettore italiano un’amplissima scelta, in quattro volumi, dei testi di uno degli uomini di teatro più importanti del XX secolo, uno dei protagonisti delle rivoluzioni della scena contemporanea.
Tutto quello che dirò qui di seguito, comprese alcune considerazioni critiche, non può in nessun modo offuscare il dato di fatto incontestabile dell’importanza di questa iniziativa o anche soltanto attenuare la gratitudine che è doveroso nutrire verso tutti coloro che l’hanno resa possibile, con l’auspicio che la cultura italiana, non soltanto quella teatrale, sappia dedicarle un’attenzione adeguata.
Del resto – ripeto – le osservazioni a volte problematiche che mi capiterà di fare sono tutte animate da uno spirito autenticamente costruttivo: trattandosi di un work in progress, al di là di alcuni vincoli dei quali dirò subito, c’è spazio per miglioramenti e aggiustamenti di tiro. Questo almeno mi auguro, proprio per l’importanza dell’impresa in questione.
I vincoli a cui mi sono appena riferito riguardano il fatto che questa edizione italiana dei testi di Grotowski dipende dall’edizione polacca, apparsa in un solo, imponente volume, nella primavera del 2013, come risultato del lavoro di ricerca e verifica, durato tre anni, dell’équipe degli editors: Agata Adamiecka-Sitek, Mario Biagini, Dariusz Kosiński, Carla Pollastrelli, Thomas Richards, Igor Stokfiszewski.

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