Ai sensi della Legge 7 marzo 2001 n°62, si dichiara che Culture Teatrali non rientra nella categoria di "informazione periodica" in quanto viene aggiornato ad intervalli non regolari.ng

 

TENTATIVO DI ESAURIMENTO #6_SISTA BRAMINI (O Thiasos TeatroNatura)

Sista Bramini in DEMETRA E PERSEFONE, Centeno ( VT) Festa Ventennale Thiasos Foto di Francesco Galli

NATURA COME LUOGO DI CERIMONIA DELL’UMANO
Intervista a Sista Bramini|O Thiasos TeatroNatura

M.P.: Pensando ai grandi "registi-pedagoghi", come li chiamava Cruciani, vorrei iniziare il nostro dialogo parlando di maestri. Chi riconosci come maestri, in ambito teatrale e non? Come è avvenuta l’occasione dell’incontro con loro? Cosa hai preso da loro, allora e nel tempo? Cosa ti rimane oggi di quegli incontri?

Sista Bramini: Non ho avuto maestri nel senso di qualcuno che con sistematicità seguisse la mia formazione artistica e umana per trasmettermi degli insegnamenti. Ma nella mia ‘autobiografia mitica’ connessa alla mia capacità di ‘rubare’ come ho potuto, guidata dalla fame di una necessità , riconosco come maestri essenzialmente: Franco Serpa, che è stato mio professore di latino e greco per un solo anno al liceo, e Jerzy Grotowski che ho seguito e inseguito anche da lontano dall’82. Ma anche Eduardo De Filippo di cui ho frequentato, nell’82 per due anni, la scuola di drammaturgia all’Università La Sapienza di Roma, Rena Mirecka e Ewa Benesz con i loro laboratori nella natura sono state molto importanti per me, così come anche Jairo Cuesta che riconosco come un “fratello maggiore” decisivo, e spesso torno ai periodi di laboratorio intensivo con Maud Robart  che ho affrontato quando già lavoravo con un ensemble nella natura e so che hanno lasciato in me delle tracce profonde. La questione dei maestri è ambigua e scivolosa perché in parte ha a che fare con una scelta e un riconoscimento che chiama in causa un sentire poetico legato al destino, in parte con una sorta di segreto  che andrebbe  custodito in noi senza parlarne, e in parte con tecniche e un artigianato di cui sarebbe forse più possibile dire, ma con il quale appare più sensato confrontarsi direttamente giorno per giorno nel lavoro. A Franco Serpa devo l’amore per il mondo classico, il mito e la scoperta che quel mondo continua in modo radicale e articolato, nella continuità come nella discontinuità, ad essere in relazione con il nostro mondo e che una tradizione reale vive attraverso le persone che riescono ad incarnarla: Franco Serpa mi faceva sentire viva la cultura classica e lontana solo per mia insipienza, come una vetta che è difficile ma non inaccessibile. Quel mondo era vivo essenzialmente perché era vivo in lui e nella sua straordinaria competenza, questo era un deterrente decisivo sia ad un approccio solo erudito o accademico, sia alla banalizzazione e volgarizzazione. Da lui ho capito la necessità del rigore e della qualità, e il mito stesso mi ha insegnato che la realtà che alza lo stato vitale e induce alla creatività è fatta di ossimori, di divina ambiguità, che in ogni cosa c’è il suo contrario: questo, collegandosi agli aspetti crudeli, contraddittori e affascinanti della vita che percepivo fin dall’infanzia, mi ha iniziato alla poesia. Nell’incontro con Eduardo De Filippo ho continuato a trovare la verità del paradosso e la inderogabile necessità di una qualità artigianale nel teatro: guardandolo recitare ho capito meglio Stanislawskij, che avevo letto con passione. Da Jerzy Grotowski ho appreso a farmi domande radicali, mi ha aperto all’avventura di una spiritualità iscritta nel corpo e legata all’azione artistica, alla comprensione che per nutrire l’arte bisogna andare oltre la fatica fisica e la suscettibilità  della personalità, a non aver timore di interrogare in prima persona testi e canti antichi, e soprattutto che si poteva cercare di entrare  nella natura in modo diretto indagando  e aprendosi al mondo della percezione, dell’attenzione e della presenza. Da Rena Mirecka e Ewa Benesz ho imparato a stare nella natura come in un luogo di cerimonia del vivente, luogo in cui interrogare il mistero con gesti e canti, danze e azioni para-teatrali, con ritmi e tempi vicini a quelli di altre culture, imparando a stare nell’ascolto e nella presenza. Con Jairo Cuesta ho cominciato a vedere il passaggio da una ricerca di presenza nella natura ad una possibilità teatrale, specialmente nella pratica di azioni pre-espressive e di training, utili per l’attore e che potevo utilizzare nella natura. Con lui ho fatto la prima esperienza di teatro nella natura (Giorni felici di Beckett, con la sua regia, alla Fiera delle Utopie Concrete, a Città di Castello, nel 1990). Con Maud Robart mi è stato più chiaro che la trasmissione di un sapere è qualcosa che tanto più si radica nel corpo, nel ritmo, nel movimento e nella qualità del canto, tanto più può farti accedere a dimensioni diverse e più sottili della sensibilità e della visione del mondo che ti circonda.


M.P.: In che cosa o come hai tradito questi maestri? Su questo vorrei spiegarmi un po' meglio, attraverso le parole di Marco De Marinis: «Di una tradizione ci si appropria, non si può non appropriarsi, attivamente, quindi tradendola-tramandandola (anche etimologicamente, tradizione rinvia sia al trasmettere-tramandare che al tradire-falsificare-manipolare)», e poi: «Credo che esistano tanti modi per appropriarsi attivamente di una tradizione, dell'insegnamento di un maestro, per tramandarlo-tradirlo. Uno dei modi può essere quello di metterla/lo in rapporto con altre tradizioni, con l'insegnamento di altri maestri». Eugenio Barba nel suo libro La terra di cenere e diamanti. Il mio apprendistato in Polonia parla del Maestro come «colui che si rivela per sparire». E infine Grotowski: «Un vero allievo di Stanislavskij era Mejerchol'd. Non applicava il "sistema" scolasticamente. Dava la sua risposta. » e «Dicono i tibetani: bisogna superare il proprio maestro di un quinto, altrimenti la tradizione si deteriora. [...] Ciò che resterà dopo di me non può essere dell'ordine dell'imitazione, ma del superamento. Nello stesso modo, io non ho imitato Stanislavskij, ho cercato ciò che era possibile dopo. Una ricerca non può limitarsi a una sola vita. E' una faccenda di parecchie generazioni».

 

S.B.: Ho tradito tutti perché ho sviluppato un  progetto di teatro nella natura che non avrebbero creduto possibile e approvato nei principi, ma che, come è successo a Eugenio Barba,  forse oggi- grazie all’evidenza che emerge da un lavoro di anni- avrebbero apprezzato. Ma nello stesso tempo non li ho mai traditi perché mi sono sempre sentita inadeguata come loro allieva, e dunque in questo senso non li ho mai percepiti davvero come miei maestri. Ho sempre sentito che l’unica mia strada, che per anni ho vissuto quasi come fallimentare nel senso che non avevo altra possibilità, era sviluppare qualcosa da sola. Una solitudine relativa perché dialogo continuamente con loro, oggi come ieri, ma in segreto; quando ero di fronte a loro avevo la sensazione che non mi vedessero, ma forse questo muro lo mettevo io perché mi dava più agio di guardarli con libertà. Oggi il lavoro non mi lascia il tempo per indugiare su queste considerazioni o sensazioni, ma da ragazza averli incontrati è stato entusiasmante e disperante allo stesso tempo. Oggi penso solo di essere stata estremamente fortunata, anche se una parte di me continua a pensare di aver perso per inettitudine delle occasioni di rapporto più diretto sia umano che legato alla pratica. In realtà penso anche di aver incontrato, in anni  decisivi per la mia formazione umana e artistica, tra i 17 e i 23 anni,  almeno due mostri sacri (Serpa e Grotowki) che facevano in parte da antidoto e rafforzamento uno dell’altro. Oggi che mi sento più vicina all’amor fati di quando lo fossi da giovane, spesso mi scopro ad accettare di più come sono andate le cose e trovarne un senso.

M.P.: Ti sei molto spesso rivolta a testi “antichi”. Perché? Cosa dicono a te? E cosa, secondo te, dicono al pubblico, oggi? Butto lì un verso di Mariangela Gualtieri, per cominciare a rispondere, forse: «C’è in me qualcosa più vecchio di me».

S.B.: Molti tra i testi antichi che mi interessano riguardano il mito che nella sua struttura archetipica mi sembra che appartenga a tutti e dunque anche a me: posso reinterpretarli e raccontarli con la mia lingua, e dunque evocare ciò che di loro parla ancora a me e a chi  mi ascolta. La struttura archetipica è misteriosa e dunque piena di forza, con un tasso di ambiguità formidabile che si presta a interpretazioni diverse anche se, rimanendo nello spirito del mito, non si può prendere solo un aspetto escludendo gli altri: così, l’interpretazione è questione di accenti in cui lasciar rilucere ancora l’ambiguità. Non si tratta di vaghezza, ma di ambiguità, qualcosa che paradossalmente è molto preciso. Ermes non è Zeus e Afrodite non può veicolare ciò che muove Artemide eppure ci sono infiniti aspetti di Afrodite e infinite sfumature anche  contraddittorie in Artemide. Nel mito c’è una forza amorale e profonda che è tutto il contrario del mondo tendenzialmente immorale e superficiale in cui viviamo. Mi sembra che sia importante come punto di vista. Cerco un modo autentico di entrare in rapporto con quelle storie stupende e cioè “vedendole” e facendole dialogare con la mia lingua, il mio mondo emotivo e di pensiero, con la musica e spesso con lo spazio naturale. Una cosa importante è la corporeità che i miti mi comunicano: movimenti, sensazioni fisiche legate cioè ai sensi e alle emozioni. Che prenda il mito da Euripide, da Ovidio o da Omero, per me è quasi secondario, nel senso che questi autori meravigliosi  sono grandi perché hanno raccontato quelle storie con particolare verità; è come se per me la loro mediazione sia fondamentale, ma la cosa importante sono le storie stesse che adesso forse vogliono essere raccontate attraverso di me. Non mi paragonerei mai agli autori immensi che ho citato, ma posso servirmi di loro, salire, secondo la nota metafora, sulle spalle di giganti per  vedere di più e farmi sentire meglio dal pubblico, ma la voce deve essere la mia e con quella devo fare i conti. Non è facile.

 

Silvia Giorgi, Carla Taglietti, Sonia Montanaro, Camilla Dell'Agnola, Valentina Turrini, Veronica Pavani in DANZO' DANZO', Sperone(Aq), Festival Teatro di Gioia Foto di Francesco Galli

M.P.: Mi puoi fare un esempio concreto di come hai lavorato su uno di questi testi in un tuo spettacolo?

S.B.:
In ogni spettacolo ho lavorato diversamente. Negli spettacoli di narrazione sono sempre in rapporto alla musica, in Miti d’acqua, da Ovidio, ho scelto le storie in base al tema dell’acqua e le ho interrogate: di quali acque parlano? Che mondi esterni e interni evocano? L’apporto della viola e della voce di Camilla Dell’Agnola sono state fondamentali per questa esplorazione, credo che entrambe senza saperlo avessimo presente, nella musica come nelle parole, la danza; l’ho capito quando il direttore dell’Accademia di Danza di Santa Clara a Cuba dopo averci sentite ha giurato di aver assistito ad un balletto che avrebbe certamente messo in scena! D’altronde l’acqua si muove e danza in mille modi. Lo spettacolo è “fermo”, sia io che Camilla siamo sedute tutto il tempo, ma non vuol dire niente: dentro di noi, fin nella spina dorsale, abitano e si muovono quelle storie che poi alla superficie si esprimono, come direbbero Barba o Grotowski, in micro impulsi. Numa, lo spettacolo di narrazione sui miti di fondazione di Roma, è cominciato con l’idea di raccontarlo a dei bambini piccolissimi, poi è diventato uno spettacolo per adulti, ma in romanesco, in piedi e con registri diversi: dal comico al commovente. Attraverso il contatto con l’infanzia, inaspettatamente, mia nonna trasteverina, morta da più di vent’anni, si è impossessata di me e ho dovuto solo seguirla. Lì ho dunque raccontato le storie come forse le avrebbe raccontate lei, con quell’ironia, serietà e radicamento popolare… ero in una specie di trance che non saprei descrivere, anche perché completamente inaspettata. Ogni spettacolo è nato e poi si è sviluppato in modo diverso. Per gli spettacoli itineranti dove sono soprattutto regista e come attrice mi riservo a volte una parte circoscritta e di narrazione, come In corpi nuovi (dalle Metamorfosi di Ovidio) o Danzò Danzò (da Donne che corrono coi lupi di Pinkola Estes), i miti o le fiabe sono stati lavorati in un periodo di prove in campagna dove le attrici e gli attori hanno indagato a lungo le storie confrontandole  con le proprie corde espressive e in gran parte direttamente in contatto con i luoghi naturali, il testo è stato fissato solo dopo una rielaborazione attraverso questi percorsi.

M.P.: Ripenso ai molti tuoi spettacoli che ho visto negli anni. Mi verrebbe da dividerli, seguendo le definizioni di Marco De Marinis, in due categorie, dal punto della funzione dello spazio scenico: spazio della drammaturgia e drammaturgia dello spazio. Per la prima categoria penso, con De Marinis, al Copeau della poetica del tréteau nu: «bastano le parole […] a evocare lo spazio nella mente dello spettatore»; per la seconda il riferimento è al Copeau del dispositivo fisso «struttura genetica di dramma e spettacolo», per dirla con Cruciani. Ritieni corretta, nel tuo caso, questa suddivisione? Me ne puoi raccontare i motivi e le caratteristiche, magari facendomi qualche esempio?

S.B.: La questione interessante per me rispetto allo spazio è prima di tutto l’indagine sulla presunta divisione nella persona tra spazio interno e spazio esterno. Dico presunta perché è tutta culturale, ci permette di organizzarci come facciamo, ma è anche alla base di una scissione nel percepire e agire la realtà che rende il nostro modo di vivere spesso disumano. Ciò che è fuori e ci accade proveniente da fuori si è spesso preparato già in noi, come diceva Empedocle ( e non solo) è con l’acqua che è in noi che vediamo l’acqua che è fuori, con l’amore, l’amore e con l’odio, l’odio. E ciò che ci circonda, gli spazi che attraversiamo ci sollecitano e ci modificano continuamente alleandosi o scontrandosi con quanto facciamo. Mi interessa l’aspetto della spazialità del percepire e della coscienza spaziale che argomentare qui ci porterebbe via molto tempo, ma che è decisiva per me sia artisticamente che umanamente ( cioè sia in rapporto allo spettatore che a me stessa). In ogni caso la suddivisione a cui  tu ti riferisci  tocca in modo diverso i due filoni di ricerca che perseguo:
1) per quello legato ai miei spettacoli di narrazione è verissima la prima affermazione, che le parole evocano lo spazio. Il pubblico che ascolta spesso dice che ‘vede’ quello che racconto e addirittura a volte con stupore afferma: «ero lì!». Esiste un mondo immaginale, evocato da chi narra e che vive come sospeso tra narratore e ascoltatore, fatto di sensazioni spaziali e sensoriali, di sentimenti e pensieri che a volte nella vita ordinaria stentano a vivere o ad essere riconosciuti. Questo mondo immaginale lo si potrebbe dire “virtuale” ma non nel senso di una realtà costruita artificialmente come simulazione alternativa alla realtà, bensì legandolo alla sua etimologia: da virtù, potenzialità pronta per essere attuata (1). Se l’essere umano è un animale a tutti gli effetti la cui unica nota caratteristica (come diceva già Linneo nelle sue catalogazioni appuntandoselo tra parentesi)è connessa al  nosce te ipsum, allora per diventare umano ha bisogno di sviluppare un organo che lo aiuti a riconoscersi tale. L’immaginale appartiene da sempre alla possibilità di sviluppare un sentire specificamente umano ma per vivere ha bisogno di un suo spazio che un certo modo di narrare può evocare. Questo spazio, forse vicino a quello del sogno e della visione,  è precipitato prima nello “spazio rituale” che nell’incarnarsi al cospetto delle forze naturali  e in relazione con esse, conservava un alto tasso di immaginale. Ciò che invece  agisce nella scena teatrale è forse il ricordo di quel mondo sognante,  un modo tangibile per continuare a restare aperti all’esistenza di uno spazio speciale in cui germogliano le potenzialità. Il teatro infatti sembra paradossalmente avvicinarsi alla sua essenza  più quando permane  nel nostro ricordo come immagine viva sempre attingibile che nel momento in cui vi assistiamo, e così recupera in noi quello spazio di visione che il tempo attuale ci sottrae in tutti i modi. Quando parlo di visione è chiaro che non intendo affatto qualcosa di legato alla sola vista!
2) negli spettacoli nella natura dove lo spazio naturale viene esplorato e vissuto connesso al dramma in corso, può accadere che accanto alle sensazioni reali (suoni, odori, posizioni prospettiche - dall’alto, dal basso, visibile, intravisto, ecc) lo spettatore percepisca l’aprirsi di uno spazio interno che si estende  anche al mondo circostante. Un po’ come dice Platone, quando evoca l’anima mundi, che l’anima non è sono in noi ma anche intorno a noi. Ricordo una spettatrice: «non sapevo se ciò che vedevo sbucare dagli alberi fosse vero o lo stessi immaginando». Non siamo più abituati a incontrare nella natura l’incarnarsi di una dimensione poetica connessa alla presenza umana, ma durante la sospensione dell’incredulità che ci regala, come dice Coleridge, l’atto poetico,( in questo caso teatrale) possiamo aprirci all’incontro intimo e inconscio con la realtà. La realtà per me è innanzi tutto Sista Bramini in DEMETRA E PERSEFONE, Centeno ( VT) Festa Ventennale Thiasos  Foto di Francesco Gallila natura e i suoi abitanti viventi che esistono e sono esistiti indipendentemente da noi e dalle nostre manipolazione: non li abbiamo né immaginati né inventati e né tanto meno “costruiti”, al massimo abbiamo costretto i loro spazi e mortificato/ modificato la qualità della loro vita.

M.P.: Considerando la rivoluzione dello spazio teatrale nel Novecento come uno dei fattori di ri-teatralizzazione del teatro, verso una sempre maggiore efficacia, attraverso la relazione autentica tra attore e spettatore, in che modo, secondo te, il tuo lavoro in spazi naturali aiuta questa relazione?

S.B.: Ho scritto molte cose su questo tema, che è centrale nel nostro lavoro. Incontrare il teatro nella natura, con tutti i problemi che comporta, è una esperienza nuova e forte sia per chi recita che per chi assiste, la sensorialità è molto stimolata e sia le attrici che gli spettatori devono in parte comunque ricollocarsi sia fisicamente che nell’organizzare i propri sensi. Entrambi, nei momenti che funzionano, sentono di stare di fronte ad un mistero più grande di loro che, al di là dei loro ruoli momentanei, li rende in questo simili. Per me la coscienza di questo mistero è uno degli elementi irrinunciabili perla rinascita di un possibile senso di comunità. Era vero in passato ed è vero oggi, questo senso del mistero va ritrovato e incontrato di nuovo e la relazione percettiva, reale (non quella sentimentalistica, virtuale, patinata a cui ci abitua la pubblicità ad esempio pescando in un bisogno rimosso), silenziosa e creativa con la natura ci aiuta in quel senso. Il teatro nella natura è uno strumento, un veicolo verso questa necessaria apertura, necessaria per il pianeta e per la nostra vita.

Sista Bramini in DEMETRA E PERSEFONE, Centeno ( VT) Festa Ventennale Thiasos Foto di Francesco Galli

 

M.P.: Infine, per fare l’avvocato del diavolo, come si suol dire: ti è capitato che la forza del luogo abbia “schiacciato” lo spettacolo? O che la forza dello spettacolo abbia fatto distrarre dal luogo? O che la forza di luogo e spettacolo (e l’eccezionalità dell’esperienza, per lo spettatore-medio) abbiano “schiacciato” la possibilità di relazione attore-spettatore?

S.B.:
Succedono molte volte sia l’una che l’altra cosa, anche in uno stesso spettacolo. Col tempo ho imparato a ‘giocare’ con questo, anche se l’obbiettivo è sempre  trovare i momenti di fusione tra i due aspetti, momenti di empatia o di apertura olistica. Quei momenti arrivano per molte circostanze e non solo a causa dell’arte: in realtà sono bagliori, frammenti in cui ci sentiamo integrati al mondo circostante e parte di esso, per stabilizzarsi questa possibilità richiede una mutazione culturale quasi psicofisica degli attori e spettatori che il lavoro teatrale può contribuire a creare. Questi momenti di nuova coscienza, -che per me sono il sintomo di un lavoro che funziona- dipendono da molte cose: dalla forza del luogo, dalla motivazione e apertura degli spettatori, dall’ora, dalla qualità della presenza delle attrici e degli attori, dalla vita delle loro azioni e relazioni, oltre che dalla struttura registica dello spettacolo che vuole scardinare tempi e ritmi e modi di percepire ordinari. Questo teatro è veicolo di trasformazione, di una nuova coscienza che deve crescere nel nostro modo di incontrare la natura e non solo. E’ un teatro che ambisce ad una sorta di collaborazione con gli altri esseri e a scoprire una affinità, una parentela che ne permetta l’azione reciproca. I momenti in cui il paesaggio schiaccia  l’azione teatrale o questa prende così attenzione da far dimenticare il paesaggio ci sono sempre, ma con il tempo sono divenuti colori coscienti nella tavolozza della nostra arte. Spesso per tornare a vedere (non solo guardare, ma vedere…) un paesaggio bisogna averlo avuto sottratto magari da una forte azione e rientrando improvvisamente  nella nostra percezione sembra che il luogo stesso urli: «Io ci sono sempre stato! E tu? Dov’eri? Con chi eri davvero?». Oppure, viceversa, dopo la contemplazione da una rupe della vastità si scopre un essere umano che sbuca indifeso su quel baratro, o nel bosco fitto nel quale camminiamo da un po’ improvvisamente sentiamo dei canti polifonici provenire dagli alberi come se il bosco cantasse… qualcuno scende e ci racconta di una divinità che ci fa precipitare in un altro bosco, un altro tempo misteriosamente in contatto con quello presente… ma a volte tutto è improvvisamente rotto da bottiglie di plastica sulla via, o da un trattore che ci riporta ad un aspetto della realtà che avevamo dimenticato… tutto questo  ci pone domande interessanti, non  solo dal punto di vista intellettuale, ma dell’anima.

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(1) Cfr. su questo anche Maia Borelli, l’età di internet, in Maia Borelli, Nicola Savarese, “Teatri nella rete”, Carocci editore 2008

 
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