TENTATIVO DI ESAURIMENTO #6_SISTA BRAMINI (O Thiasos TeatroNatura) |
Sista Bramini in DEMETRA E PERSEFONE, Centeno ( VT) Festa Ventennale Thiasos Foto di Francesco Galli NATURA COME LUOGO DI CERIMONIA DELL’UMANO Sista Bramini: Non ho avuto maestri nel senso di qualcuno che con sistematicità seguisse la mia formazione artistica e umana per trasmettermi degli insegnamenti. Ma nella mia ‘autobiografia mitica’ connessa alla mia capacità di ‘rubare’ come ho potuto, guidata dalla fame di una necessità , riconosco come maestri essenzialmente: Franco Serpa, che è stato mio professore di latino e greco per un solo anno al liceo, e Jerzy Grotowski che ho seguito e inseguito anche da lontano dall’82. Ma anche Eduardo De Filippo di cui ho frequentato, nell’82 per due anni, la scuola di drammaturgia all’Università La Sapienza di Roma, Rena Mirecka e Ewa Benesz con i loro laboratori nella natura sono state molto importanti per me, così come anche Jairo Cuesta che riconosco come un “fratello maggiore” decisivo, e spesso torno ai periodi di laboratorio intensivo con Maud Robart che ho affrontato quando già lavoravo con un ensemble nella natura e so che hanno lasciato in me delle tracce profonde. La questione dei maestri è ambigua e scivolosa perché in parte ha a che fare con una scelta e un riconoscimento che chiama in causa un sentire poetico legato al destino, in parte con una sorta di segreto che andrebbe custodito in noi senza parlarne, e in parte con tecniche e un artigianato di cui sarebbe forse più possibile dire, ma con il quale appare più sensato confrontarsi direttamente giorno per giorno nel lavoro. A Franco Serpa devo l’amore per il mondo classico, il mito e la scoperta che quel mondo continua in modo radicale e articolato, nella continuità come nella discontinuità, ad essere in relazione con il nostro mondo e che una tradizione reale vive attraverso le persone che riescono ad incarnarla: Franco Serpa mi faceva sentire viva la cultura classica e lontana solo per mia insipienza, come una vetta che è difficile ma non inaccessibile. Quel mondo era vivo essenzialmente perché era vivo in lui e nella sua straordinaria competenza, questo era un deterrente decisivo sia ad un approccio solo erudito o accademico, sia alla banalizzazione e volgarizzazione. Da lui ho capito la necessità del rigore e della qualità, e il mito stesso mi ha insegnato che la realtà che alza lo stato vitale e induce alla creatività è fatta di ossimori, di divina ambiguità, che in ogni cosa c’è il suo contrario: questo, collegandosi agli aspetti crudeli, contraddittori e affascinanti della vita che percepivo fin dall’infanzia, mi ha iniziato alla poesia. Nell’incontro con Eduardo De Filippo ho continuato a trovare la verità del paradosso e la inderogabile necessità di una qualità artigianale nel teatro: guardandolo recitare ho capito meglio Stanislawskij, che avevo letto con passione. Da Jerzy Grotowski ho appreso a farmi domande radicali, mi ha aperto all’avventura di una spiritualità iscritta nel corpo e legata all’azione artistica, alla comprensione che per nutrire l’arte bisogna andare oltre la fatica fisica e la suscettibilità della personalità, a non aver timore di interrogare in prima persona testi e canti antichi, e soprattutto che si poteva cercare di entrare nella natura in modo diretto indagando e aprendosi al mondo della percezione, dell’attenzione e della presenza. Da Rena Mirecka e Ewa Benesz ho imparato a stare nella natura come in un luogo di cerimonia del vivente, luogo in cui interrogare il mistero con gesti e canti, danze e azioni para-teatrali, con ritmi e tempi vicini a quelli di altre culture, imparando a stare nell’ascolto e nella presenza. Con Jairo Cuesta ho cominciato a vedere il passaggio da una ricerca di presenza nella natura ad una possibilità teatrale, specialmente nella pratica di azioni pre-espressive e di training, utili per l’attore e che potevo utilizzare nella natura. Con lui ho fatto la prima esperienza di teatro nella natura (Giorni felici di Beckett, con la sua regia, alla Fiera delle Utopie Concrete, a Città di Castello, nel 1990). Con Maud Robart mi è stato più chiaro che la trasmissione di un sapere è qualcosa che tanto più si radica nel corpo, nel ritmo, nel movimento e nella qualità del canto, tanto più può farti accedere a dimensioni diverse e più sottili della sensibilità e della visione del mondo che ti circonda.
S.B.: Ho tradito tutti perché ho sviluppato un progetto di teatro nella natura che non avrebbero creduto possibile e approvato nei principi, ma che, come è successo a Eugenio Barba, forse oggi- grazie all’evidenza che emerge da un lavoro di anni- avrebbero apprezzato. Ma nello stesso tempo non li ho mai traditi perché mi sono sempre sentita inadeguata come loro allieva, e dunque in questo senso non li ho mai percepiti davvero come miei maestri. Ho sempre sentito che l’unica mia strada, che per anni ho vissuto quasi come fallimentare nel senso che non avevo altra possibilità, era sviluppare qualcosa da sola. Una solitudine relativa perché dialogo continuamente con loro, oggi come ieri, ma in segreto; quando ero di fronte a loro avevo la sensazione che non mi vedessero, ma forse questo muro lo mettevo io perché mi dava più agio di guardarli con libertà. Oggi il lavoro non mi lascia il tempo per indugiare su queste considerazioni o sensazioni, ma da ragazza averli incontrati è stato entusiasmante e disperante allo stesso tempo. Oggi penso solo di essere stata estremamente fortunata, anche se una parte di me continua a pensare di aver perso per inettitudine delle occasioni di rapporto più diretto sia umano che legato alla pratica. In realtà penso anche di aver incontrato, in anni decisivi per la mia formazione umana e artistica, tra i 17 e i 23 anni, almeno due mostri sacri (Serpa e Grotowki) che facevano in parte da antidoto e rafforzamento uno dell’altro. Oggi che mi sento più vicina all’amor fati di quando lo fossi da giovane, spesso mi scopro ad accettare di più come sono andate le cose e trovarne un senso. S.B.: Molti tra i testi antichi che mi interessano riguardano il mito che nella sua struttura archetipica mi sembra che appartenga a tutti e dunque anche a me: posso reinterpretarli e raccontarli con la mia lingua, e dunque evocare ciò che di loro parla ancora a me e a chi mi ascolta. La struttura archetipica è misteriosa e dunque piena di forza, con un tasso di ambiguità formidabile che si presta a interpretazioni diverse anche se, rimanendo nello spirito del mito, non si può prendere solo un aspetto escludendo gli altri: così, l’interpretazione è questione di accenti in cui lasciar rilucere ancora l’ambiguità. Non si tratta di vaghezza, ma di ambiguità, qualcosa che paradossalmente è molto preciso. Ermes non è Zeus e Afrodite non può veicolare ciò che muove Artemide eppure ci sono infiniti aspetti di Afrodite e infinite sfumature anche contraddittorie in Artemide. Nel mito c’è una forza amorale e profonda che è tutto il contrario del mondo tendenzialmente immorale e superficiale in cui viviamo. Mi sembra che sia importante come punto di vista. Cerco un modo autentico di entrare in rapporto con quelle storie stupende e cioè “vedendole” e facendole dialogare con la mia lingua, il mio mondo emotivo e di pensiero, con la musica e spesso con lo spazio naturale. Una cosa importante è la corporeità che i miti mi comunicano: movimenti, sensazioni fisiche legate cioè ai sensi e alle emozioni. Che prenda il mito da Euripide, da Ovidio o da Omero, per me è quasi secondario, nel senso che questi autori meravigliosi sono grandi perché hanno raccontato quelle storie con particolare verità; è come se per me la loro mediazione sia fondamentale, ma la cosa importante sono le storie stesse che adesso forse vogliono essere raccontate attraverso di me. Non mi paragonerei mai agli autori immensi che ho citato, ma posso servirmi di loro, salire, secondo la nota metafora, sulle spalle di giganti per vedere di più e farmi sentire meglio dal pubblico, ma la voce deve essere la mia e con quella devo fare i conti. Non è facile.
Silvia Giorgi, Carla Taglietti, Sonia Montanaro, Camilla Dell'Agnola, Valentina Turrini, Veronica Pavani in DANZO' DANZO', Sperone(Aq), Festival Teatro di Gioia Foto di Francesco Galli M.P.: Mi puoi fare un esempio concreto di come hai lavorato su uno di questi testi in un tuo spettacolo? S.B.: La questione interessante per me rispetto allo spazio è prima di tutto l’indagine sulla presunta divisione nella persona tra spazio interno e spazio esterno. Dico presunta perché è tutta culturale, ci permette di organizzarci come facciamo, ma è anche alla base di una scissione nel percepire e agire la realtà che rende il nostro modo di vivere spesso disumano. Ciò che è fuori e ci accade proveniente da fuori si è spesso preparato già in noi, come diceva Empedocle ( e non solo) è con l’acqua che è in noi che vediamo l’acqua che è fuori, con l’amore, l’amore e con l’odio, l’odio. E ciò che ci circonda, gli spazi che attraversiamo ci sollecitano e ci modificano continuamente alleandosi o scontrandosi con quanto facciamo. Mi interessa l’aspetto della spazialità del percepire e della coscienza spaziale che argomentare qui ci porterebbe via molto tempo, ma che è decisiva per me sia artisticamente che umanamente ( cioè sia in rapporto allo spettatore che a me stessa). In ogni caso la suddivisione a cui tu ti riferisci tocca in modo diverso i due filoni di ricerca che perseguo: S.B.: Ho scritto molte cose su questo tema, che è centrale nel nostro lavoro. Incontrare il teatro nella natura, con tutti i problemi che comporta, è una esperienza nuova e forte sia per chi recita che per chi assiste, la sensorialità è molto stimolata e sia le attrici che gli spettatori devono in parte comunque ricollocarsi sia fisicamente che nell’organizzare i propri sensi. Entrambi, nei momenti che funzionano, sentono di stare di fronte ad un mistero più grande di loro che, al di là dei loro ruoli momentanei, li rende in questo simili. Per me la coscienza di questo mistero è uno degli elementi irrinunciabili perla rinascita di un possibile senso di comunità. Era vero in passato ed è vero oggi, questo senso del mistero va ritrovato e incontrato di nuovo e la relazione percettiva, reale (non quella sentimentalistica, virtuale, patinata a cui ci abitua la pubblicità ad esempio pescando in un bisogno rimosso), silenziosa e creativa con la natura ci aiuta in quel senso. Il teatro nella natura è uno strumento, un veicolo verso questa necessaria apertura, necessaria per il pianeta e per la nostra vita. Sista Bramini in DEMETRA E PERSEFONE, Centeno ( VT) Festa Ventennale Thiasos Foto di Francesco Galli
M.P.: Infine, per fare l’avvocato del diavolo, come si suol dire: ti è capitato che la forza del luogo abbia “schiacciato” lo spettacolo? O che la forza dello spettacolo abbia fatto distrarre dal luogo? O che la forza di luogo e spettacolo (e l’eccezionalità dell’esperienza, per lo spettatore-medio) abbiano “schiacciato” la possibilità di relazione attore-spettatore? *********************************************** (1) Cfr. su questo anche Maia Borelli, l’età di internet, in Maia Borelli, Nicola Savarese, “Teatri nella rete”, Carocci editore 2008 |