Ai sensi della Legge 7 marzo 2001 n°62, si dichiara che Culture Teatrali non rientra nella categoria di "informazione periodica" in quanto viene aggiornato ad intervalli non regolari.ng

 

ALFABETA2 - CONTRODOSSIER

Teatro: un’arte sui generis

[Silvia Mei] Sulle colonne del numero 30 (giugno 2013) di “alfabeta2”, per il dossier a cura di Valentina Valentini, Nuovo teatro italiano (pp. 28-30), si è consumata una surrettizia “riflessione” intorno alla nuova scena italiana degli ultimi dieci anni o del primo decennio di nuovo millennio.
Il “dialogo”, promosso con metodi quantomeno insoliti da Valentini, intorno a fenomeni oggi in atto nel teatro di ricerca nostrano, articola piuttosto – come probanti coefficienti linguistici, stilistici e retorici tradiscono – un’istruttoria o un’antidialettica a partire dal mio Gli anni Dieci della nuova scena italiana. Un tracciato in dieci punti, in apertura di dossier.
Il suddetto contributo non è stato originariamente prodotto nella forma lì pubblicata, al contrario l’ho ripensato, dietro invito di Valentini, secondo un taglio più giornalistico e per un lettore non necessariamente edotto in fatto di teatro (e per di più di un teatro in Italia non certo maggioritario). Il mio tracciato prendeva allora le mosse da una comunicazione presentata al Colloque International di Charleville-Mézières dedicato alle eredità contemporanee di Gordon Craig e di Tadeusz Kantor e promosso da una prestigiosa istituzione pedagogica e di ricerca come l’Institut International de la Marionnette. In attesa della pubblicazione bilingue (francese-inglese) degli atti, il contributo, formulato per una presentazione orale in lingua francese, ha conosciuto un’estensione saggistica in italiano all’interno del Festschrift in onore della studiosa magiara Ilona Fried, "Sul fil di ragno della memoria" (Elte BTK, 2012), per trovare successivamente una più rapida capillarità grazie alla rivista online degli “Annali” di Lettere dell’Università di Ferrara (n. VII/2 2012), per cui ringrazio sentitamente la redazione.
Cercando di andare oltre l’occasionalità di alcuni interventi di matrice critica (penso, primo fra tutti, alla panoramica di Gianni Manzella, Un nuovo teatro per gli anni dieci?, “Art’ò”, n. 30, 2011) e di diversa tascabilità (come gli utilissimi e imprescindibili breviari della serie Iperscene, ideata da Paolo Ruffini per Editoria&Spettacolo, con collazione di schede, iconografia, interviste, scritti d’artista e brevi, militanti interventi di studiosi e liberi battitori della ricerca), il mio saggio ha il merito (o forse il demerito) di rappresentare un primo, coraggioso (poi scoraggiato) tentativo di sguardo globale e di bilancio, mai esaustivo e assolutizzante, su di una realtà estremamente variegata e magmatica come il teatro di ricerca italiano di ultima generazione, diversamente etichettato suo malgrado.
Ebbene, questo mio provvisorio tentativo di istruire scientificamente e storiograficamente una cartografia orientativa sulla fenomenologia della nuova scena, mettendo a frutto un monitoraggio di anni spesi in affiancamento e collaborazioni artistiche coi gruppi selezionati, come nell’esercizio critico che mi compete formalmente almeno dal 2009, è diventato bersaglio di una vera e propria confutatio a quattro mani di Matteo Antonaci e Chiara Pirri, aspiranti critici ancora in formazione, diversamente legati a Valentini e alla “scuola romana”.
Lungi da me l'idea di negare che una polemica intellettuale possa virare anche in tonalità accese con stoccate e toccate degne del miglior fioretto – proprio come si addice ad uno schietto confronto tra studiosi di rango –, ma l’architettura del dossier a partire dalle interrogazioni retoriche e dalla subdola neutralità dell’editoriale, non promuove una dialettica, non incentiva un dibattito, non apre a un confronto, tantomeno si pone come terreno di prova per studiosi in erba.
Non penso si possano istituire priorità in fatto di ricerca, esistono semplicemente studi e studiosi che, onestamente, faticosamente e coraggiosamente in questi tempi tristissimi svolgono con dedizione e rigore un lavoro non certo remunerativo o gratificante. In questo senso vogliamo darci la possibilità di replicare pubblicamente al dossier di Valentini e alla penna di Antonaci-Pirri, entrando nel metodo delle modalità e delle forme e nel merito dei contenuti, dal momento che una proposta di replica su quelle stesse pagine non è stata accolta.

 

Sul metodo e sul merito
Diciamo che c’è metodo e metodologia.
Circa il metodo abbiamo avuto modo di accennare già alla risposta di Antonaci-Pirri, condotta nello spirito della confutatio (loro malgrado, pur tuttavia): replicando la struttura decalogica, il tracciato, ora riscritto, ora corretto, ora integrato, è stato passato a giudizio con la penna rossa e blu di un maestrino novello che si esercita sul compito in classe del malcapitato. Retoricamente la confutazione è scandita dal reiterato richiamo all’autrice, quasi a ricordare continuamente al lettore il vero bersaglio. Insomma, al di là degli specifici contenuti espressi – a parte le superflue precisazioni e i distinguo volti ad avvilire un ragionamento che cercava di stabilire affinità costruttive piuttosto che incidere su sterili differenze – colpisce il tono adottato dai due estensori: supponente, sbrigativo e assertivo (che la necessità di sintesi non può assolutamente spiegare, tantomeno giustificare).
Insomma, non si tratta certo di un dialogo, pur vivace, tra stimati colleghi, come ci vorrebbero far credere. Inoltre, sia la curatrice sia Antonaci e Pirri fanno riferimento a contenuti non presenti nella versione tagliata per il dossier, senza per altro rimandare alla versione integrale: così l’editoriale e il sottotitolo della risposta sono imbastiti su una mia proposta – non poi così spericolata – riguardante il teatro anni Dieci del XXI secolo concepito come “terza avanguardia” ma da me scientemente omesso nell’edizione per “alfabeta2”.
Forse sarebbe stato più efficace costruire un discorso autonomo e sciolto dal “modello” Mei, articolando una struttura non succedanea, magari aggiungendo anche un pizzico di filologia e rigore. Ma la filologia è per l’appunto la cifra distintiva della metodologia presa nel mirino e contro cui Antonaci-Pirri costruiscono una (comunque plausibile) visione e interpretazione del contemporaneo.
Basta scorrere l’editoriale per capire che – secondo il suo estensore – non c’è spazio nella storia del teatro per una prospettiva di longue durée dagli anni Sessanta a oggi; e pazienza se a supporto si tira in ballo un filosofo buono (suo malgrado) per tutte le stagioni e per tutti gli usi quale Michel Foucault e la sua teoria dei salti e delle regressioni. Benché sia “utile”, sostiene Valentini, “configurare storicamente dei fenomeni estetici”, è (evidentemente, per loro) troppo “complesso individuare quali siano i caratteri ereditati dalle diverse generazioni che si sono susseguite dagli anni Sessanta in poi”, a maggior ragione, continua Valentini, se l’oggi del teatro lancia “la sfida per l’indeterminazione del codice sorgente” (onestamente il sintagma ci sembra una formulina a effetto che fa il paio con la cosiddetta “perdita dello specifico”) e rivendica una “compiaciuta orfananza”. Parimenti Antonaci-Pirri aprono sulla necessità di incentivare un confronto sulla metodologia “con la quale oggi si tenta di far fronte alla narrazione dell’esperienza artistica contemporanea. Crediamo che un’analisi tesa a rilevare analogie e differenze con esperienze storiche passate o recenti, rivolgendosi esclusivamente a un microcosmo artistico […] dimentichi il macrocosmo che agisce e percepisce queste stesse differenze”. E qui l’attacco è svolto secondo il più trito stereotipo dello storico fuori dal tempo, che non fa traspirare nei suoi oggetti di studio le mutazioni sociali, tecnologiche, economiche etc. in atto. Mi pare si tratti, in questa specifica circostanza, di una posizione gratuitamente aggressiva, che non tiene conto del range di riferimenti non teatrali del mio saggio, per cedere alle esterofilie di un lessico cool fintamente aggiornato perché fa incetta indiscriminata di prodotti di cultura postmediale. Pare invece evidente che simile prospettiva analitica, comunque possibile ma certamente non l’unica, voglia minare le basi a quelle pratiche di studio e valorizzazione del contemporaneo che abitano una prospettiva interna/esterna, ossia di affiancamento e monitoraggio della scena poi sussunta e rielaborata in totale autonomia, per la produzione di una teoria sul teatro che procede dalla storia (rigorosamente culturale). Mi sembra che la proposta di Antonaci-Pirri e di Valentini, nella sua pur apparente attendibilità, sia solo un palliativo, una risposta sostanzialmente impressionistica, e compiacente la visione d’artista, alla necessità di configurare una genuina comprensione del teatro nell’oggi, raschiando piuttosto quegli elementi di problematicità che la storia pone e che l’Angelus Novus col suo doppio sguardo ben sintetizza.
Rincresce evidenziarlo, ma questo azzeramento, questo “rifiuto della memoria”, come scrivono Antonaci-Pirri, è sintomatico di un presente non “in divenire” ma che si nega un futuro. Il mio non vuole essere un discorso conservatore o paladino della tradizione e della conoscenza del passato, tuttavia la rivoluzione economica, tecnologica e mediatica degli ultimi vent’anni sta producendo, nel suo risvolto più nero, i primi nefasti effetti sulle giovanissime e meno strutturate generazioni, incidendo pesantemente sul senso del tempo e dello spazio violentemente virtualizzati.
Questa esasperata percezione dell’eterno presente, dell’indeterminatezza quale eufemismo della precarietà, diventata l’orizzonte esistenziale di più strati sociali e anagrafici di lavoratori, precipita rovinosamente sulla costruzione di quelle narrazioni, osservava Yerushalmi in Zakhor, che in tempi di post-storia rischiano di semplificare rapporti sociali più complessi; come del resto scriveva anche Lyotard in La condizione postmoderna: “con uno sforzo di immaginazione semplificatrice, possiamo supporre che una collettività che fa della narrazione l’archetipo della competenza, non ha bisogno, contrariamente a ogni aspettativa, di doversi ricordare del passato”.
Se non pratichiamo l’esercizio della storia, se non la frequentiamo, la storia non si occuperà di noi. Se non partecipiamo al moto della storia incentivandone la comprensione e la scrittura, oltre la fallacia della memoria, si corre il rischio di essere brutalmente archiviati e di finire, polverosi faldoni affastellati, in un asettico tritacarte. Ci sembrano in questo senso pertinenti le rêveries metodologiche di Georges Didi-Huberman in coda alla sua Ninfa moderna:

Per aprire gli occhi bisogna chiuderli. L’occhio sempre aperto, sempre in stato di veglia […] diventa secco. Un occhio secco, in permanenza, forse vede tutto, ma guarda male. Paradossalmente, per guardare bene ci occorrono tutte le lacrime di cui disponiamo. Così accade per la pratica storica, che è, anch’essa, una pratica a doppio regime. Bisogna aprire gli occhi per essere attenti, per rispettare l’oggetto della nostra indagine. Ma bisogna saper chiudere gli occhi per guardarlo meglio per interpretarlo e comprenderlo negli aspetti che ci riguardano. […] Quello che vediamo, noi storici, tentiamo di ‘verificarlo’, nel senso in cui Cicerone propose di tradurre in veriloquium la parola greca etymologia.


Per entrare definitivamente nel merito, vorrei individuare 3 punti critici nella requisitoria di Antonaci-Pirri.

 

Il medium teatrale: è scoraggiante constatare di dover fare ancora i conti con il grossolano errore di fondo in cui si cade ogniqualvolta si parla, ad esempio, di relazioni tra cinema e teatro: ovvero che il teatro sia un medium. Di certo non lo è nel senso in cui gli studi sulla comunicazione definiscono il medium da oltre cinquant’anni a questa parte, o comunque il teatro lo è soltanto in senso lato e secondo un uso figurato, come ad esempio quello che ne fa Hans-Ties Lehmann. Tuttavia rimane un impiego improprio e sbagliato, in quanto il teatro non possiede un supporto unitario (e il corpo del performer non è un supporto stabile ed equivalente in ogni tempo spazio e cultura), non è uno strumento di comunicazione di massa (l’espressione medium è la forma ellissa senza mass), e – detto per inciso – il teatro pare non voler comunicare niente, anzi, si pone, per citar Perniola, contro la comunicazione e la produzione di informazioni. Se il teatro fosse un medium poi, da dove verrebbe “la lotta per l’indeterminazione del codice sorgente”? Sarebbe semmai più opportuno parlare di teatro come convocazione di più media, o di teatro multimediale – cosa che in un certo senso è da prima della svolta tecnologica.
Questo non significa che l’artista di teatro oggi non esplori riflessioni sui supporti come pungolo per superare quell’oscuro oggetto che si chiama teatro e che si trova ad abitare ogni giorno; o non possa partire da uno o più media per fare teatro. Tuttavia il teatro, o quello che ancora oggi si continua a praticare nelle forme anche più radicali e o-scene, è comunque e sempre in presenza, nella relazione diretta tra attore e spettatore.


La fallimentare lettura iconografica e il superamento del linguaggio semiotico: Scriveva un artista polimorfo del secolo scorso quale A.G. Bragaglia – e sicuramente Antonaci e Pirri me lo boccerebbero preferendogli la teorica (femminista) americana di new media Amelia Jones – che l’arte teatrale consiste in “un’arte sui generis” in quanto “solo col visivo si potrà fare teatro”. L’opera da cui è tratta la citazione ha un titolo formidabilmente craighiano, Del teatro teatrale, e siamo nel 1929, qualche tempo prima della sintesi poetica del Ricciardi quando affermava: “è nella visualità in senso proprio che l’arte del teatro ritroverà il suo destino”.
Non voglio tentare mutatis mutandis la dimostrazione intrapresa nel 1934 da C.L. Ragghianti circa l’equivalenza di cinema e teatro sul piano delle arti figurative e affermare che il teatro è come un’opera d’arte, strictu senso. Tuttavia converrebbe rileggersi quel prezioso intervento dello storico dell’arte italiano, Cinema e teatro, per fare i primi conti con la storia dell’arte e l’analisi del testo visivo. Conti che del resto vanno resi anche all’analisi del testo spettacolare, nozione alla quale Antonaci e Pirri non sembrano essere adusi, visto che appiattiscono il linguaggio semiotico sui termini di metafora e di simbolo, banalizzando una metadisciplina di indiscussa validità e fraintendendo una proposta di lettura iconografica dello spettacolo oltre lo spettacolo stesso. Lettura che tra l’altro non fa ricorso o soccorso a parole quali metafora e simbolo e che si plasma a partire dai programmi estetici, dalla materialità operativa e dai riferimenti teorici dei gruppi presi in esame.
Inviterei i due giovani studenti/studiosi a riconsiderare la mia proposta di spazio iconografico del teatro e la nozione allargata di teatro iconografico, recuperando a favore della “scena bucata” gli interventi di un certo Romeo Castellucci con Claudia Castellucci in Il teatro iconoclasta, e del primo le riflessioni intorno al discusso Sul concetto di volto nel figlio di Dio (nella conversazione ad esempio con Maria Grazia Gregori alla Biennale Teatro, Venezia 2011). E sul testo spettacolare consiglio vivamente lo studio di un trattato che certamente non si tiene sul comodino, come Semiotica del teatro. L'analisi testuale dello spettacolo. Mi sembra tutto sommato un’efficace cura per evitare di scrivere banalità spacciate sotto la voce “pensiero”.


Perché non è auspicabile una terza avanguardia: “Il proclama, privo di enfasi, dei teatri di questo primo decennio del XXI secolo è radicato nella contraddizione: quel fenomeno che chiamiamo teatro si riconosce sempre meno con il genere teatro, con il suo formato, la sua storia e la sua tradizione; i suoi dispositivi costruttivi provengono da ambiti disciplinari diversi, con un allargamento ulteriore e inevitabile dei suoi codici e dei suoi dispositivi modellizzanti”. La citazione non è di chi scrive ma sembrerebbe portare acqua al mulino della tesi dei “teatri anni zero” come terza avanguardia. É al contrario la chiusa dell’editoriale di Valentini che sposa malcelatamente la posizione di Antonaci e Pirri domandandosi retoricamente in apertura: “E a cosa si contrappone [la nuova scena], se è proprio dell’avanguardia un’azione di rottura?”. Mi sembra che nel capoverso finale di Valentini ci siano tutti gli ingredienti per proclamarla, benché Antonaci-Pirri la ritengano addirittura “non auspicabile”, quasi fosse un’infezione o una crisi di governo.
Ora, conosciamo tutti bene le avanguardie e affermare che il loro spirito sia unicamente di rottura è francamente quantomeno riduttivo. Ad esempio: è possibile trascurare l’esperienza di un postimpressionista come Cézanne nella preparazione estetica al Cubismo? Come del resto, sarebbe possibile considerare il Futurismo senza l’esperienza crepuscolare del suo fondatore Marinetti?
Pensando alle avanguardie parlerei piuttosto di elitarismo e di disintegrazione linguistica, quando le avanguardie promuovevano esperienze al limite del sintattico, del grammaticale, della struttura del linguaggio, per capire come è fatto. Cosa che nel teatro italiano contemporaneo è iniziata statutariamente (ma anche qui, non senza precedenti, riconosciuti o meno, non importa) con la Socìetas Raffaello Sanzio e portata oggi alle sue estreme conseguenze dai “teatri doppio zero”: penso con nitidezza alle esperienze sempre meno programmate del lavoro di Orthographe oppure alla radicalità di un progetto scenico come The Dead di Città di Ebla, la cui fruizione rimane oggi fortemente divisa, non per l’ibridazione anomala dei linguaggi ma per la stessa messa in crisi del medium della fotografia nel contenitore teatro e del codice teatrale (sorgente, ça va sans dire) nella texture fotografica. Le avanguardie riposano su di un carattere precipuamente riflessivo, critico, analitico per un’irrimediabile ricezione elitaria (si vedano le considerazioni estetologiche di un Ortega y Gasset, nella Disumanizzazione dell’arte, sulla disaffezione del pubblico verso la pittura non figurativa e avanguardistica) di un fenomeno dirompente sì ma minoritario, proprio come la nostra (non) generazione di nuovo millennio che per il semplice fatto di sentirsi orfana compatta un’onda(ta) dalla cresta rigorosamente spumeggiante.

 
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