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DONLON DANCE COMPANY

Swan Lake – Emerged

 

[Silvia Mei] Ha le dimensioni di un leporello dongiovannesco il catalogo delle new editions, restyling, riletture, adattamenti e coregie di una pietra miliare del balletto classico come Il Lago dei cigni; monumento caduto nel dimenticatoio per oltre trent’anni dal debutto nel 1895 prima del riallestimento integrale al Sadler’s Wells di Londra nel 1931. Da quel momento nessuno coreografo è riuscito a resistere alla tentazione di cimentarsi nella ripresa e nella declinazione moderna e/o contemporanea di un coreomélo tra il fantasy e il noir. Basta leggere il primo soggetto moscovita del libretto ottocentesco per capire le dimensioni e la varietà di ambienti che avrebbe potuto contenere: dal realismo della reggia alla lunare riva lacustre fino al mondo sottomarino dove i due promessi amanti riposano finalmente uniti nella morte.

Recentemente abbiamo apprezzato la versione darkskin della promessa sudafricana Dada Masilo (lo scorso ottobre nell’ambito della stagione di danza per I Teatri di Reggio Emilia), che ha lavorato letteralmente sul contrasto archetipico bianco/nero secondo un coro di cigni di colore, scalzati e a piedi nudi, come veri anatidi, che affondano in profondi pliés dalle terga sporgenti rievocando antiche danze tribali. Di ben altro calibro e diversa lavorazione concettuale è invece La stanza del Principe di Enzo Cosimi (il prossimo 8 maggio a Bologna per La Soffitta/Danza), che tematizza il ratto della vergine declinandolo in un set installativo multifocale incorniciato da una teoria di cignette, inerti oggetti di una violenza oscena ora rievocata da immagini di case di tortura.

Ma l’infiltrazione del balletto di Petipa-Ivanov nell’immaginario collettivo è forse più rimarchevole e probante di una seppur copiosa lista di remake. Solo due episodi: l’apparizione di Björk agli Oscar del 2001 in un succinto abito da cigno bianco/Odette ma con la malizia di una Odile/cigno nero; e il film di Darren Aronofsky, Black Swan (2010) che tocca efficacemente, al di là dell’effettiva riuscita del film, gli archetipi fondativi del balletto sceneggiati in chiave thriller-noir tra i diversi doppi e doppioni del personaggio e della sua interprete (Natalie Portman).
L’icona del cigno e la musica di Čajkovskij sono diventati una perfetta endiadi dell’amore assoluto, del contrasto vita-morte, eros-thanatos, complice appunto una musica paragonata a “un mazzo di fiori con le radici nella disperazione”. Proprio con questa espressione Mats Ek, coreoregista svedese di nobili loco, definisce la partitura cajkovskiana proponendo per la prima volta col suo Svansjön un cigno antigrazioso e goffo, di pelle bianca e nera, scalzato e a piedi nudi, indifferentemente maschio e femmina. Era il 1987, la critica che tanto aveva osannato la sua rivisitazione di Giselle nel 1982 ora rimaneva delusa di questa seconda impresa e psicoanalizzava il rapporto Regina Madre-Sigfrido nella specularità conflittuale di Birgit Cullberg col figlio d’arte Mats Ek. Non troppi anni dopo (correva l’anno 1995) sarebbe arrivata l’edizione forse più celebre e riuscita di Matthew Bourne per Adventures in Motion Pictures (diventata oggetto di citazione come nel film Billy Elliot) che ripensava english style (e ingiustamente etichettato come un “lago gay”) il balletto classico.

 

Marguerite Donlon, danzatrice e coreografa irlandese con trascorsi di danze folks, arriva buon ultima remaker al Lago dei cigni, da lei stessa interpretato secondo il repertorio classico. Swan Lake-Emerged (concepito nel 2009) fa parte della sua collezione di attualizzazioni come Le Sacre du printemps (appena passato al Teatro Comunale Luciano Pavarotti di Modena), Romeo e Giulietta, e soprattutto l’indimenticata Giselle Reloaded, che aprì nel 2006 la pista alle riedizioni classiche per la sua compagnia al Ballett des Saarländischen Staatstheaters, la Donlon Dance Company.
Accostarsi al Lago è per definizione un’impresa rischiosa, se appunto non si corre il rischio di arrivare anche a deridere un capolavoro di perfezione formale come il grande balletto postromantico. E qui forse l’ironia di Marguerite Donlon non è stata apprezzabile come pure il dialogo tra classico e moderno: non abbastanza liquido, disinvolto, al pari del montaggio musicale, dove le interpolazioni del duo Sam Auinger & Claas Willeke - musica concreta che lavora evocativamente su campionature di battiti d’ali e canti di uccelli - non riesce a sintetizzarsi sulle armonie cajkovskiane, o almeno non è niente di paragonabile alla macropartitura che Andy De Groat fornì nel 1982 al suo Swan Lac giocato sulla continuità spiazzante di Cajkovskij coi Pink Floyd.

 

 

 

Senza riordinare la specularità e paratassi drammaturgica originale, Donlon asciuga dal ciarpame decorativo e corale di una partitura molto variata e senza frustrare le aspettative del pubblico pone in encausto l’ouverture, la danza delle coppe, l’entrée di Odette, il pas de deux dell’atto bianco con variazione e il pas de quatre, quest’ultimo secondo un trattamento ormai un po’ scontato; taglia brutalmente il pittoresco del terzo atto e il ritorno al lago è giustamente ridimensionato. Lascia al cigno la classicità del gesto che scivola via nel boa di struzzo ornamentale di Odette, vagamente Marylin (Monroe) per l’abitino svolazzante (niente tutù) ma senza effetti da fatalona che lascia a una Odile lasciva di straordinaria eleganza formale e fluidità di movimento, com’è del resto la danza di impronta modern della Donlon. Scivola giù come un oggetto inutile quel piumaggio-livrea tanto evocativo, simbolico, sulle movenze break di un principe in maglietta retata che lavora di contact sui dorsi arrotondati della sua principessa-cigno. Ancora una volta un anatide scalzo, che rivendica la sua animalità, stavolta però in un coro di cigni etero, per la distribuzione in sei ben assortite coppie. Rothbart rassomiglia a un pusher vagamente hiphoper con manie da satiro – aspetto inedito e interessante che Donlon porta a emersione senza troppe indulgenze. Manca tuttavia un affondo serio sul sistema dei personaggi, che pur toccando tutti i nodi essenziali del dramma – abbastanza convenzionale il trattamento del rapporto madre-figlio – non pratica fino in fondo piste lanciate e subito interrotte (ad esempio l’ambiguità amicale di Sigfrido con Benno). Donlon alla fine è incerta anche sul finale, o meglio sceglie la terza via, col sacrificio di Odette e la salvezza dell’amato.

Dopo il modernismo di Ek e la popolarità di Bourne, è molto difficile imporsi nel Lago dei cigni, Donlon tuttavia promuove in fatto di danza una qualità di movimento originale e seduttiva, secondo un’organicità corporea che ha fatto sue le diverse tecniche in un impasto ben amalgamato; registicamente forse il peso della narrazione ha prevalso e anche quegli spunti più pericolosi che potevano gettare il suo Lago in una dimensione meno rassicurante sono stati subito fugati. Peccato, conosciamo Marguerite Donlon come una coreografa capace di osare nella ricerca pur mantenendo una vocazione popolare. Ma del resto un balletto non fa un coreografo.

 
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