DONLON DANCE COMPANY |
Swan Lake – Emerged
[Silvia Mei] Ha le dimensioni di un leporello dongiovannesco il catalogo delle new editions, restyling, riletture, adattamenti e coregie di una pietra miliare del balletto classico come Il Lago dei cigni; monumento caduto nel dimenticatoio per oltre trent’anni dal debutto nel 1895 prima del riallestimento integrale al Sadler’s Wells di Londra nel 1931. Da quel momento nessuno coreografo è riuscito a resistere alla tentazione di cimentarsi nella ripresa e nella declinazione moderna e/o contemporanea di un coreomélo tra il fantasy e il noir. Basta leggere il primo soggetto moscovita del libretto ottocentesco per capire le dimensioni e la varietà di ambienti che avrebbe potuto contenere: dal realismo della reggia alla lunare riva lacustre fino al mondo sottomarino dove i due promessi amanti riposano finalmente uniti nella morte.
Marguerite Donlon, danzatrice e coreografa irlandese con trascorsi di danze folks, arriva buon ultima remaker al Lago dei cigni, da lei stessa interpretato secondo il repertorio classico. Swan Lake-Emerged (concepito nel 2009) fa parte della sua collezione di attualizzazioni come Le Sacre du printemps (appena passato al Teatro Comunale Luciano Pavarotti di Modena), Romeo e Giulietta, e soprattutto l’indimenticata Giselle Reloaded, che aprì nel 2006 la pista alle riedizioni classiche per la sua compagnia al Ballett des Saarländischen Staatstheaters, la Donlon Dance Company.
Senza riordinare la specularità e paratassi drammaturgica originale, Donlon asciuga dal ciarpame decorativo e corale di una partitura molto variata e senza frustrare le aspettative del pubblico pone in encausto l’ouverture, la danza delle coppe, l’entrée di Odette, il pas de deux dell’atto bianco con variazione e il pas de quatre, quest’ultimo secondo un trattamento ormai un po’ scontato; taglia brutalmente il pittoresco del terzo atto e il ritorno al lago è giustamente ridimensionato. Lascia al cigno la classicità del gesto che scivola via nel boa di struzzo ornamentale di Odette, vagamente Marylin (Monroe) per l’abitino svolazzante (niente tutù) ma senza effetti da fatalona che lascia a una Odile lasciva di straordinaria eleganza formale e fluidità di movimento, com’è del resto la danza di impronta modern della Donlon. Scivola giù come un oggetto inutile quel piumaggio-livrea tanto evocativo, simbolico, sulle movenze break di un principe in maglietta retata che lavora di contact sui dorsi arrotondati della sua principessa-cigno. Ancora una volta un anatide scalzo, che rivendica la sua animalità, stavolta però in un coro di cigni etero, per la distribuzione in sei ben assortite coppie. Rothbart rassomiglia a un pusher vagamente hiphoper con manie da satiro – aspetto inedito e interessante che Donlon porta a emersione senza troppe indulgenze. Manca tuttavia un affondo serio sul sistema dei personaggi, che pur toccando tutti i nodi essenziali del dramma – abbastanza convenzionale il trattamento del rapporto madre-figlio – non pratica fino in fondo piste lanciate e subito interrotte (ad esempio l’ambiguità amicale di Sigfrido con Benno). Donlon alla fine è incerta anche sul finale, o meglio sceglie la terza via, col sacrificio di Odette e la salvezza dell’amato. Dopo il modernismo di Ek e la popolarità di Bourne, è molto difficile imporsi nel Lago dei cigni, Donlon tuttavia promuove in fatto di danza una qualità di movimento originale e seduttiva, secondo un’organicità corporea che ha fatto sue le diverse tecniche in un impasto ben amalgamato; registicamente forse il peso della narrazione ha prevalso e anche quegli spunti più pericolosi che potevano gettare il suo Lago in una dimensione meno rassicurante sono stati subito fugati. Peccato, conosciamo Marguerite Donlon come una coreografa capace di osare nella ricerca pur mantenendo una vocazione popolare. Ma del resto un balletto non fa un coreografo. |