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Focus on
ROMAEUROPA Festival 2013

A ciascuno il suo (lago): Dada Masilo's Swan Lake

ph. John Hogg

[Silvia Mei] In tempi di regime fusion, sembra decisamente desueto parlare di creolizzazione, un termine che l’orientamento postcoloniale bollerebbe come politically incorrect. Di fatto il Lago dei cigni nella nuova fiammante coreografia di Dada Masilo coniuga tradizioni e tecniche, occidentali e sudafricane, in una singolare parificazione. E del resto quest’ultimo remake del balletto post-romantico, tra i più gettonati dal realismo sociale sovietico in avanti, arriva buon ultimo nella folta teoria di revisioni, adattamenti, restyling. Si tratta di un’ennesima prova d’autrice, ma senza sovvertimenti sostanziali, malgrado la brillante drammaturgia e la vitalità squassante dei 15 tra danzatori e danzatrici di colore, Masilo inclusa, che valevano anche solo per la qualità antica, quasi ancestrale, talora rupestre, della loro fisicità statuaria.

Nessuna novità di fatto: la versione "afro" della Masilo non contesta primati bensì assomma e si avvantaggia in un sol colpo delle arditezze di edizioni trascorse, oggi ampiamente tesaurizzate. Come la “gaiezza” del Principe Sigfrido, primo intervento registico introdotto compassatamente da Rudolf Nureyev, poi da John Neumeier, che propose un Sigfrido-Ludwig di Baviera, principe ben noto nei suoi orientamenti sessuali, per arrivare all’outing di sangue blu proposto da Matthew Bourne, nella cui british edition comparivano prestanti danzatori a torso nudo in coro di cigni. Ma sull’androginia dell’anatide, esasperato nella sua natura promiscua, scalzato, a piedi nudi, indifferentemente interpretato da un ensemble misto, non solo nel genere ma anche nei colori della pelle, e indifferentemente in tutù bianco, fu il vilipeso Svansjön del coreoregista di Malmö Mats Ek. Nel 1987 Ek propose una fin troppo ardimentosa lettura del balletto, tra mito e fiaba, che neanche l’avveduta critica di allora poté magnanimamente lasciar correre. In verità fu proprio in virtù della breccia aperta dalla proposta dello svedese che sono poi state assunte come irreversibili certe soluzioni e in seguito non sono state stroncate le profanazioni e reinvenzioni totali come Le Lac des cygnes di Jan Fabre (2002) e Swan Lake, 4 act di Raimund Hoghe (2005).

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Romaeuropa Festival 2013

Osservazioni intorno a Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni


 

[Silvia Mei] È in equilibrio precario, contro la forza di gravità della rappresentazione, il virtuosismo di Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni, ultimo lavoro della consolidata coppia d’arte Daria Deflorian e Antonio Tagliarini, “appena fatto” per ROMAEUROPA Festival 2013. Assieme al precedente Reality (2012) costituisce con chiara evidenza un dittico, o forse, più banalmente, prosegue un discorso, sul lavoro dell’attore, sul quid della rappresentazione. Prima, a partire dai diari asettici e impermeabili al vissuto di Janina Turek, sconosciuta polacca nota alle cronache per la maniacale registrazione tassonomica delle sue giornate e dei suoi gesti (il materiale narrativo veniva dal racconto di Mariusz Szczygieł, Reality, 2011); ora, sul suicidio di gruppo di quattro pensionate greche dal romanzo, liberamente attraversato, dello scrittore e sceneggiatore turco-greco Petros Markaris (L’esattore, 2011). È infatti la forte immagine tratta dalle prime pagine a scatenare la reazione immaginativa di Deflorian-Tagliarini, assecondati da Monica Piseddu e Valentino Villa nel formare un quadrilatero di tensioni e vissuti che rompe l’ordinarietà dei conflitti psicologici.

 

Sono convinta che ogni opera produca la sua critica. Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni mi sollecita a smarginare, a riferire in discorso indiretto, a non parlare direttamente del lavoro di Tagliarini-Deflorian insieme a Piseddu-Villa, bensì a girarci intorno, riferendone per inciso, tra parentesi, incidentalmente. Quasi che il discorso critico fosse appunto un incidente rispetto all’oggetto da cui emana; ma anche un fallimento che fa della scrittura bien faite, del confezionamento letterario un atto contro l’impotenza, contro la morte. Soprattutto quando ci troviamo di fronte all’indicibilità, all’irrapresentabilità che rende osceno qualsiasi tentativo che non sia la citazione dell’originale.

 

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DRISS KSIKES

 

TEATRO, MEDIA, CITTADINANZA CRITICA

 

 

[Erica Faccioli] E’ all’interno del progetto Dramaturgie Arabe Contemporaine di La friche belle de mai di Marsiglia, uno dei maggiori poli culturali della Région PACA, che il 26 novembre 2013 sarà presentato per la prima volta al pubblico il nuovo testo di Driss Ksikes, N’enterrez pas trop vite Big Brother (regia di Catherine Marnas, Compagnie Dramatique Parnas). A seguito di una selezione biennale nel contesto di 10 paesi arabi (Palestina, Egitto, Giordania, Libano, Marocco, Algeria, Iraq, Tunisia, Siria, Kuwait), Ksikes ottiene l’ennesimo riconoscimento internazionale in qualità di drammaturgo, dopo essere stato segnalato tra i 6 migliori drammaturghi già nel 2011, dal National Studio Theatre di Londra e Arterial Network, per il testo Le Match.

Figura paradigmatica nell’ambito dei paesi arabi, Driss Ksikes (Rabat, 1968) prima di imporsi sulla scena internazionale come drammaturgo, è emerso come scrittore (del suo primo romanzo: Ma boîte noire, pubblicato a Casablanca dall’editore Tarik e a Parigi da Le grand souffle), come giornalista freelance di diverse testate internazionali e in qualità di direttore della celebre rivista marocchina francofone “TelQuel”. Da quest’ultimo incarico si è dimesso nel 2006, dopo essere stato condannato per “aver diffamato l’Islam e danneggiato la morale”, a causa della pubblicazione di una parodia del defunto Re Assan II e quindi dell’Islam. Dopo questa esperienza ha deciso di esprimere il suo pensiero indipendente attraverso il teatro.Driss Ksikes è un intellettuale postmoderno che, in una recente intervista, citando Gramsci, si è definito un “connettore organico”: co-fondatore, insieme al regista Jaouad Essounani, di Dabateatr Citoyen, un laboratorio teatrale civile in Marocco, promotore del blog “Citoyen critique”, direttore di un centro di ricerca in studi sociali, economici e manageriali (CESEM) presso il prestigioso Institut des Hautes Etudes de Management (HEM), professore di Metodologia, Media e Cultura, scrittore, drammaturgo (Pas de memoire… memoire de pas, IL, Le saint des incertains, Le Match). In quest’ultima veste è veicolo del profondo e inevitabile cambiamento della società e della cultura araba, ed emerge come interprete di tematiche contemporanee che si inseriscono nel contesto dei mutamenti globali.


Erica Faccioli Scrittore, giornalista, saggista, drammaturgo, direttore del Centre d’Etudes Sociales, Economiques et Managériales (CESEM) dell’Insitut des Hautes Etudes de Management (HEM), professore di Metodologia, Media e Cultura: come riesci a far convivere i tuoi diversi ruoli e a far dialogare, a mettere in relazione le tue ricerche?
Driss Ksikes Credo vi siamo due tipi di intellettuali, scoiattoli e volpi. I primi scavano una trincea sul posto e la occupano, mentre i secondi s’intrufolano furtivamente da un punto all’ altro. Personalmente, traggo la mia energia da questa possibilità di passare da un universo all'altro, dal lavoro sui media come oggetto di ricerca alla questione della rappresentazione in teatro, dalla preoccupazione metodologica di essere razionale al tentativo di sposare immaginario e rigore, dall'amore per le parole al desiderio di produrre un’energia comunicativa per le situazioni drammatiche. Un amico regista sostiene che affronto le scienze sociali attraverso la drammaturgia. Credo sia vero.

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relAzione Urbana/Le Mura disvelate

La giusta distanza di Pierangela Allegro/Tam Teatromusica

 

Scritto dentro. Atti visivi e sonori, prima esposizione testi tratti da Scritto dentro di Fernando Marchiori (Poiesis Editore, 2012), riscrittura scenica Pierangela Allegro direzione Michele Sambin voce e azioni Pierangela Allegro suoni, video, pittura digitale Michele Sambin. Nell'ambito di relAzione Urbana/Le Mura disvelate 13>>15 settembre 2013 Padova, Mura cinquecentesche e Castello Carrarese.

TamTeatromusica 049 65466/320 2449985 info@tamteatromusica.it www.tamtetromusica.it

 

 

[Silvia Mei] C’è un particolare momento nella vita di ogni persona in cui si vede il tempo. Non è come stanare una ruga che solca il tracciato del volto, oppure arrendersi all’elasticità sempre più contratta di un corpo che invecchia. Vedere il tempo è come visualizzare la propria vita – così, in modo inaspettato, non richiesto, d’emblée –; la vita che ti scorre sotto gli occhi, come un poema, o anche come un dramma, nell’impatto con cui gli estremi del ciclo vitale fanno dell’uomo un essere potenzialmente infinito. Questo vedere il tempo è appunto una faglia che apre sull’esistenza personale di chi è stato assorbito dal buco nero della memoria. È un attimo che fa scorrere come in sogno tante immagini che sono ricordi, quasi fossero filmini di famiglia rinvenuti per caso tra vecchi nastri.
Quell’attimo di eternità in cui si percorre à rebours la propria vita squassa l’anima e talvolta, dopo, rende ancora più estranei al presente e alle sue forme; così estranei da vivere accanto alla vita degli altri, da diventarne uno spietato flâneur, un imperturbabile straniero al mondo. Quel mondo – per recuperare un maestro della differenza come Eugenio Barba – in cui non puoi non stare ma a cui puoi non appartenere.

Pierangela Allegro, con l’aristocrazia artistica e nobiltà etica che ha da sempre contraddistinto Tam Teatromusica, insieme a Michele Sambin, ci racconta questa sua differenza, quell’inderogabile “bilancio di una vita”, spesa nella militanza politica, nella lotta, nell’arte, ma dove tanto spazio hanno avuto gli affetti, la famiglia, la casa. Lo fa con la riservatezza e la compassatezza di chi non racconta pateticamente se stessa, scadendo nella nostalgia dei vecchi tempi. Lo fa al contrario passando nel setaccio delle silhouettes del suo corpo, carta da lucido per le pitture digitali live di Sambin. Lo fa con le parole di altri – quelle del sodale Fernando Marchiori, primo fra tutti, Alberto Giacometti, Samuel Beckett e, solo in chiusura, sue –; parole dietro cui si nasconde, senza parlarsi addosso, con l’umile riservatezza di chi non si fa stile, piuttosto si specchia continuamente nell’altro, si mette in ascolto e in circolo.

 

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PER AUGUSTO OMOLU'

UNA LETTERA PER RICORDARE

di Julia Varley

 

 

 

 

Caro Augusto,

mi avevi detto che solo dopo aver completato la tua missione artistica avresti assunto la responsabilità di pãi de santo nella religione del candomblé di cui hai fatto parte sin dalla nascita. Quando l’età ti avrebbe impedito di danzare nei teatri, saresti tornato a vivere stabilmente in Brasile e avresti assunto il ruolo indicatoti prima di morire dal vecchio pãi de santo del tuo terreiro, la casa di cerimonia del candomblé del tuo quartiere a Salvador. Ci ho sempre creduto. E invece…
Vi sono dei momenti in cui mi arrabbio con te perché hai permesso che ti accadesse l’impensabile, quello che al ricevere la notizia non abbiamo voluto accettare e credere, quello che forse non è stato neanche coscientemente voluto da colui o coloro che hanno usato il coltello contro di te. Così, da un giorno all’altro, possiamo solo parlarti attraverso i nostri molti ricordi disordinati. Qualcuno raccoglierà la tua eredità? Qualcuno sarà capace di far fiorire l’essenza del tuo lavoro, del tuo rigore gioioso, della tua danza, del tuo axé? Qualcuno esprimerà in scena la stessa voglia di vivere e di dare che ti bruciava negli occhi? Qualcuno si prenderà cura di tutti i bambini e dei giovani che ti avevano scelto come maestro?
La tua esperienza era scritta nel corpo. Sapevi parlare e spiegare bene, ma non scrivevi parole sulla carta. In teatro hai lavorato come attore, come danzatore classico e moderno hai firmato molte coreografie, a Salvador e nel mondo insegnavi la danza degli orixás, le divinità manifestazioni delle forze della natura. Una delle tue ambizioni era valorizzare la tua cultura afro-brasiliana. Come potevi fondare una tradizione che fosse al tempo stesso nuova e antica e che durasse nel tempo oltre la tua tecnica incorporata? Avresti dovuto trasmettere l’interezza di te stesso e della tua conoscenza: quella intrisa nella tua postura nobile, nella tua pelle così nera, nel tuo sorriso generoso e a volte spietato, nei tuoi capelli intrecciati o corti che nelle giravolte spruzzavano lontano perché li bagnavi prima di andare in scena, nei movimenti sinuosi delle tue spalle nude, nel ritmo sapiente dei tuoi piedi, nella memoria ereditata dai tuoi antenati arrivati in catene in Brasile dalle diverse nazioni africane, ognuna con la sua dignità di ritmi, canti, lingue e danze.

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