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EVOÈ!TEATRO

Spregelburd banco di prova (per la scena indipendente italiana)


[Silvia Mei] Non si addicono a Rafael Spregelburd – celebrato teatrista argentino, noto in Europa per lo più come drammaturgo – le fastose produzioni degli Stabili. Il suo teatro riposa sulla centralità dell’attore e programmaticamente rifugge le pastoie di un linguaggio estetizzante, precipitato in ipotesi registiche – ragionevoli e credibili pur tuttavia – come l’apocalittica visione di Luca Ronconi, ipercelebrata dalla critica nell’ultimo Il panico (al Teatro Piccolo di Milano), secondo lavoro dalla riscrittura neopagana sui vizi capitali, l’Eptalogia, dell’argentino.

La ricchezza di stili, di generi, di miscele letterarie e sofismi teatrali, dove il colto si impenna in dialoghi da sitcom serale, il comico è realisticamente tragico, il grottesco cala la maschera sul macabro mentre una coloritura giallo-noir aggetta sotto la melassa soap, non può accontentarsi dell’unità stilistica e dell’intransigenza poetica propria della super-visione registica continentale. Spregelburg è uno zibaldone di gusti senza la possibilità di rendere riconoscibile nessuna tradizione. La piecè non è mai bien faite, continui gli inceppamenti e gli impedimenti alla quête, insoddisfatta, del dramma; il congegno a orologeria è sempre deluso da un inavvertito scoppio in sordina, quasi la soluzione del rebus fosse un epifenomeno; la finzione è sempre esposta, l’artificialità dichiarata, ma senza pronunciamenti roboanti, piuttosto dimessi nella banalità dell’azione. È innegabile l’apparentamento con Shakespeare – anche solo per la simultaneità “discronica” delle azioni – e soprattutto con Čechov, di cui riconosciamo l’infinitezza del tempo che logora, l’assenza di plot e di protagonisti. È meno Pinter di quanto si possa pensare, o lo è nella sua massima estroversione, con una buona dose di Ibsen, oltre gli psicologismi di basso conio per esaltarne la carica sociale. Tutto questo senza tributi a una cultura “esotica” qual è quella europea per un argentino.

 

 

Spregelburd si dichiara principalmente attore, scrive per la scena e non per la pagina scritta. La sua è letteratura solo a posteriori, riuscendo con audacia a gestire la supremazia del testo riconosciuta dalla Mitteleuropa. Non è un caso che sia proprio con la scena indipendente italiana (dall’apripista Manuela Cherubini alla Compagnia Costanzo-Rustioni) che la sua drammaturgia della crisi trovi le espressioni più felici e forse più fedeli a un teatro fatto sostanzialmente con niente ma che non può rinunciare all’attore e alla sua personalità creatrice.
Todo è uno degli ultimi lavori del teatrista dopo la controepica dell’Eptalogia, commissionato nel 2009 dalla Schaubühne di Berlino e rappresentato in prima assoluta in Italia dalla sua compagnia El Patrón Vázquez (Quirino Revolution/Mad 2010). Diventa oggi il banco di prova di una neonata formazione trentina – Evoè!Teatro di Rovereto – per giovani intrepidi attori e attrici diplomati all’Accademia Teatrale Veneta. A fargli da guida Alessio Nardin (già assistente di Anatolij Vasiliev e docente presso la suddetta scuola), che ne firma la regia dopo un’esplorazione drammaturgica durata un anno intorno agli assi (non cartesiani) dei tre episodi (dichiaratamente delle fabulae morali) del dramma – sorta di Girotondo di Schnitzler – le cui tesi rimangono allo stato di ipotesi e le sue dimostrazioni non portano ad una soluzione bensì alla spiazzante coabitazione dei diversi punti di vista.

Lavoro di fine ingegneria quello del talentuoso Nardin con le coppie di attori per una serie di études preliminari intorno a segmenti di dialogo, al fine di avvicinare, senza interpretare, l’autore e con la possibilità di ridiscutere sul campo la traduzione ufficiale per renderne l’efficacia linguistica nell’azione.
Il décor più che astratto è trasparente, come gli essenziali oggetti in plexiglass su fondale bianco cellophan, dove meglio si stagliano colorate silhouette di impiegati, coniugi in crisi, colleghi di lavoro e artisti patchwork con fidanzate sedicenti orientali. I cinque (dotatissimi) attori (Silvio Barberio, Emanuele Cerra, Martina Galletta, Gabriella Italiano, Matteo Spiazzi) vivono quell’inconsistenza oggettuale ordendo spietate astrazioni sul senso del denaro, il valore dell’arte, la forza della superstizione lungo il leitmotiv della manipolazione del reale posta letteralmente in cornice e affidata alla figura off (la voce è di Clara Setti) del narratore - qui doppiata in immagine con una proiezione video live, quasi fosse un voyeur che racconta, spia, commenta, anticipa l’azione e che alla fine non risulta né attendibile né super partes. Forse è soltanto un testimone impotente.

Lavorare su Todo e su Spregelburd in generale costituisce una sfida, perché la materia informe e liquida di cui è fatto il suo tessuto drammatico impone di non prendersi mai troppo sul serio, di praticare sempre nuove tattiche di avvicinamento a un reale sfuggente, imperscrutabile, molteplice. Ci spinge insomma a smascherare le contraffazioni mendaci ordite dal potere e a costruirci un’identità attiva e consapevole. E il pastiche di Fratelli d’Italia in versioni tra le più bizzarre, interpolato da Nardin tra gli episodi, non vuole certo incentivare il cosiddetto "bisogno di patria".

 
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