L’educazione (fisica) delle fanciulle
[Silvia Mei] È un racconto on the road, quello di Giulia Vola, autrice, giornalista e viaggiatrice, partito dal quartiere interetnico di San Salvario a Torino, dove vive, per un progetto interrail asiatico-mediorientale e di couchsurfing presso le famiglie dei suoi polirazziali vicini di casa. Un viaggio che, nella doppia prospettiva di chi parte e di chi resta, racconta di usi e costumi, guardati con l’occhio lucido e naif di un reporter curioso. Ricorda, nel taglio e nella vivacità del racconto, la rubrica di Gabriele Galimberti per il settimanale “Donna”, che la scorsa primavera girò il mondo, ospitato in abitazioni private e condividendo biografie di popoli raggiunti dall’orda capitalistica e dal globalismo fusion. Alla fine non troppo diversi da noi europei, che mangiamo kebab, tra una sessione di fitness e una proiezione di cinema d’essai, e che pur tuttavia viviamo in modo forse più lacerante le forme dello sradicamento e del sincretismo culturale.
Fallisci e sei morto! L’Ikea vende più della Bibbia, nella riscrittura scenica secondo Cristiano Falcomer, attore e regista, fondatore della compagnia I Lunatici, trasferisce le forme del conflitto culturale sul corpo della donna, più inciso e segnato dai tratti di un popolo, in quanto depositario simbolico della storia e delle usanze di una comunità. Sono allora due in scena le figure delle "fanciulle" diversamente educate alla sessualità, ai dolori del parto, alla cura del corpo, ai riti di passaggio, all’amore filiale, secondo le polari qualità fisiche delle attrici Mirella Mastronardi e Valentina Pollani. Nel loro bavardage da confidenti, la marocchina e l’italiana, condividono gioie, segreti, amarezze: ora come bamboline da carillon che sfilano sul perimetro di un ring scenico – una vera e propria zona d’urto tra atletica e sociologia – scambiandosi stereotipi dei più beceri e comuni, ora invece madri e mogli senza confini di razza e fede, che condividono saperi e pratiche, esercitano oltre i pregiudizi le forme dell’accoglienza e della sorellanza.
La densità stratificata di una cultura è perfettamente traslata nella drammaturgia a cipolla che Falcomer scandisce – con l’immediatezza di chi frequenta e pratica il teatro ragazzi – nella deposizione in scena di strati di abiti (di Roberta Vacchetta) - come età della vita, patine di memoria in un abito dismesso o che non sta più - che fanno delle due geishe prese da un bizzarro rito del caffè due samurai. Le crinoline di cui sono rigonfie sembrano ingessature, steccati, quanto le guepière in bella vista sopra virginali abiti nuziali, che nella spoliazione progressiva svelano quei corpi universali, di donna, da cui tutto nasce, uguale e perituro. E’ difatti nel ring-vasca d’acqua che le abluzioni corporali riconsegnano le due donne alla sacca amniotica da cui calano nell’incipit, come feti in bozzoli che piangono la durezza di una vita che ancora non conoscono.
Anche se il motivo melting dell’Ikea fa da collante e da refrain ai diversi contest adattati alla scena, è piuttosto un pretesto per introdurre lo spazio domestico e borghese della cultura occidentale come luogo di costruzione dell’identità, ma anche di tensioni, sacrifici, solitudine, rancori, frustrazioni. Non ci sono ricette o modelli nella proposta di Vola e Falcomer, e la complessità di un fenomeno come la globalizzazione, la cultura liquida, la virtualizzazione della distanza si stempera felicemente nel messaggio di salvezza che la donna può portare superando le differenze, l’integralismo, l’alterità e forse anche la paura della morte.
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