La scena erudita, o la svolta linguistica di Anagoor
[Silvia Mei] Reality Shop intitola il cartellone di B.motion/Teatro, branca del festival stagionale Operaestate 2012 a Bassano del Grappa, apertosi lo scorso 28 giugno e giunto alla sua trentaduesima edizione. Una settimana, quella conclusiva, dedicata essenzialmente al teatro italiano contemporaneo, con una forte presenza della scena regionale ma di respiro nazionale – come Anagoor, Fatebene Sorelle/Patricia Zanco, Babilonia Teatri, Tam/Alessandro Martinello, Fagarazzi&Zuffellato. Segnali di una scena sventagliata, senza comuni denominatori, se non l’imperativo di smagliare le forme, opacizzare le convenzioni, reinventare la realtà, quando non reificarla, fino a ridurla a mero indizio.
Ad aprire la teoria dei dodici eventi programmati sono i geni locali Anagoor di Castelfranco Veneto, con un lavoro in coprododuzione con Operaestate e Centrale Fies di Dro, debuttato in aprile nell’ambito del Trento Film Festival: L.I. Lingua Imperii, un saggio (nel senso letterario del termine) in forma scenica montato nella modalità della conferenza-spettacolo, denso di immagini, riferimenti, citazioni che affondano nell’humus accademico e (neo)classicista della compagnia esibito senza svolazzi o protervia.
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Si è conclusa la quarantaduesima edizione del Festival internazionale del teatro in piazza: una moltitudine di persone “normali” coinvolte in progetti performativi dagli esiti decisamente diseguali.
© photo di Ilaria Scarpa
[m.p.] Oltre seimila biglietti venduti, trentuno compagnie, ventisette spazi allestiti, cinquanta titoli, sette progetti prodotti e co-prodotti direttamente dal festival, oltre duecento fra giornalisti, operatori e studiosi presenti. Molti teatranti (fra tutti, da ricordare il giustamente premiatissimo ensemble Menoventi, che nello spettacolo L’uomo della sabbia trasforma un racconto di E.T.A. Hoffmann in “un gioco di scatole cinesi, una narrazione senza fine in cui perdersi”), ma anche molte “chiamate ai cittadini”, adulti e bambini, per laboratori e performance, “progetti speciali in prima assoluta” con esiti, e con presupposti metodologici, notevolmente diversificati. Ha la pulizia e la forza cristallina e includente di un ready-made duchampiano la video-performance Ads (Santarcangelo) concepita e diretta da Richard Maxwell, anima della compagnia New York City Players: abitanti del paese romagnolo chiamati ad affermare pubblicamente ciò in cui credono, ponendosi nello spazio pubblico della scena senza alcuna cornice di finzione.
“Con gli anziani ho lavorato in più di un’occasione perché sono attratto non tanto dalla loro pratica, ma da quelle vibrazioni della vita di cui sono naturali portatori. Vedo adesso la bellezza in connessione alla forza che riesce a esprimere una persona comune nel compiere un’azione semplice”: così Virgilio Sieni introduce il progetto Sogni. Sono esseri favolosi, apparizioni fantastiche, cui si guarda come a certi angeli del Tiepolo, quelli che popolano questa poetica performance itinerante, immersione nel delicato immaginario del coreografo fiorentino.
Grandi aspettative (per il potenzialmente fecondissimo incontro fra arte visiva, teatro e infanzia) per Arte per nulla, progetto “sull’arte viva del bambino” ideato e condotto da Silvano Voltolina con la collaborazione di Francesco Bocchini e Istituto Benjamenta: cinque mattine di laboratorio con un gruppo di bambini tra i 7 e i 10 anni, dichiaratamente “per inventare dei giochi da fare in pubblico, perché vogliamo partecipare al festival di Santarcangelo con uno spettacolo. Uno spettacolo in cui si vede una classe al lavoro e si vedono nascere le opere d’arte dei bambini dal vivo e per gioco”. Il tutto, ispirandosi al pensiero e al lavoro di Federico Moroni, pittore e maestro elementare di Santarcangelo. È certo vero che nel Novecento il concetto di “infanzia” e la rappresentazione sociale e culturale del bambino hanno subito un profondo mutamento, e che la psicanalisi ha portato a un rovesciamento fondante: il bambino, con le sue esperienze un tempo ritenute irrilevanti, diviene al contrario matrice costitutiva dell’adulto, non più mera potenzialità, ma essere dotato di uno specifico linguaggio creativo e comunicativo. È però innegabile che far esperire ai bambini che qualunque cosa facciano, per quanto confusa, casuale e autocentrata, sia al fin meritevole dell’applauso del pubblico, significa quantomeno amplificare il connaturato “delirio di onnipotenza” infantile, fino a confondere spontaneismo con spontaneità, approssimazione con libertà conquistata. È un’intrigante riflessione sui confini tra esperienza e rappresentazione la performance/gara di ballo ideata da Zapruder Filmmakersgroup, I topi lascino la nave (Yes, Sir, I can boogie) : su un palcoscenico in piazza Ganganelli, sormontato da file di lampadine bianche, decine di coppie di ballerini di ogni età, in un’esplosione di brillantini e chignons, si sfidano in una gara di ballo ad oltranza: la coppia che resisterà più a lungo vincerà 1000 euro. I ballerini sentono in cuffia la musica che li fa muovere, mentre al pubblico arrivano, rielaborati e amplificati, solamente i suoni dei passi sulle tavole di legno del palco. È un’immagine “che nel suo compiersi si cancella: un inchino alla bellezza della sottrazione e del vuoto”, un congedo straniante e ipnotico. Non si sa bene che cosa ci sia da vedere, eppure non si riesce a staccare gli occhi da lì: un bel risultato performativo per gente che, c’è da scommetterci, non ha neppure frequentato l’Accademia.
http://santarcangelofestival.com/sa2012/ |
FARE PIENAMENTE UNA COSA, ANCHE SE PICCOLISSIMA Intervista a Luigi Dadina (Teatro delle Albe)
M.P.: Cominciamo dall’inizio: come sei arrivato al teatro?
Luigi Dadina: Ci sono arrivato partendo dal calcio e dalla politica. Il calcio come gioco, la politica come senso e come azione. Giocavo a calcio nel Ravenna e, prima, nella squadra del mio quartiere. Avevo il ruolo di “libero”, quello che adesso si chiama “centrale”. Il “libero” era il regista della difesa. Ho giocato a calcio fino al 1975, quando avevo 17 anni, poi ho fatto parte del movimento del ’77, il cui riferimento era la sinistra extra-parlamentare, anche se non c’era un riferirsi esplicito a un gruppo politico. A Ravenna eravamo una cinquantina di ragazzi, avevamo occupato la Casa dello Studente, facevamo un giornale, andavamo a sentire concerti in giro per l’Italia (soprattutto gli Area), organizzavamo delle manifestazioni, abbiamo tentato di aprire una radio. Tutto è cambiato nel 1978, quando fu ucciso Moro. La nostra generazione non trovò più il senso di andare avanti a fare politica, fu una cesura storica, ma che noi vivemmo sulla nostra pelle: la violenza aveva scavalcato ogni possibilità di dire qualcosa sul mondo. A fine anni Settanta, Marco (Martinelli), Ermanna (Montanari) ed altri fondarono il Teatro dell’Arte Maranathà, gruppo nato in una parrocchia di Ravenna, che noi del movimento andavamo a vedere: loro erano legati a una realtà parrocchiale, ma ciò non costituiva un problema per noi. In quegli anni, alla Casa dello Studente, che avevamo occupato, arrivò un seminario gestito da un gruppo di attori che allora lavoravano con E.R.T. (Emilia Romagna Teatro): Franco Mescolini, Gianfranco Rimondi e Marina Pitta. Dopo questo primo seminario, iniziammo a pensare di fare cose assieme, alcuni di noi del movimento e il Teatro dell’Arte Maranathà. Da lì nacque Linea Maginot, come contenitore di vari gruppi teatrali; dal 1980 decidemmo di mettere assieme i soldi, andare a lavorare in estate e ridistribuirci i guadagni estivi durante l’inverno, in maniera egualitaria. Da allora condividiamo lo stesso pane.
M.P.: Puoi identificare degli incontri con maestri che tu ritieni fondativi rispetto al percorso tuo o del gruppo?
L.D.: Assolutamente sì. Il primo fu Toni Cots dell’Odin Teatret: facemmo due seminari con lui, uno a Ferrara e uno a Santarcangelo. Poi, nell’83, un incontro fondamentale fu il seminario di una settimana con Grotowski a Pontedera. Si lavorava tutta la notte, dalle sei del pomeriggio alle sei del mattino: lavoravamo intensamente sul corpo, sulla voce e sul canto. Era agosto, lavoravamo con addosso solo un costume da bagno, si sudava e faticava da pazzi. Ricordo una delle guide, un messicano, che aveva un’anima latina a cui io mi “aggrappavo”: tra sangue sul pavimento, crisi psichiche, eccetera, lui mi consolava e io gli dicevo «Provo ad arrivare in fondo», e mi veniva da ridere. Non sono molte le cose che ho capito, di quel seminario, ma ricordo il fascino di lavorare con Grotowski: compariva alle tre del mattino e ti correggeva di un millimetro la posizione di un dito. Si avvertiva che in quel millimetro c’era qualcosa di decisivo, anche se era un qualcosa che, se devo dire la verità, non ho capito fino in fondo. Grotowski non era presente quanto i suoi assistenti, ma si avvertiva il suo esserci, da qualche parte, nascosto, a seguire tutto. Ricordo il fascino di un corpo-voce che si mette in gioco... come nel calcio. Quei seminari sono stati anche un modo per capire che quella non era esattamente la nostra strada: partecipare a queste esperienze e poi non diventare epigoni di quel modo di fare teatro, è stato un modo per incominciare a definire la nostra identità. Se veramente ti avvicini a un maestro, bisogna che tu in fretta lo tradisca: ognuno deve ricercare la propria grandezza per quello che è. Successivamente siamo entrati in contatto con Leo de Berardinis, lo abbiamo ospitato molte volte in teatro a Bagnacavallo, lì ho collaborato alla parte tecnica e ho passato giorni interi a guardare le sue prove: come si muoveva, quello che faceva. Dall’insegnamento dell’Odin abbiamo appreso e mantenuto il senso del gruppo, che per noi rimane fondamentale.
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I luoghi del teatro, gli spazi delle drammaturgie Bologna, 28>29 maggio, 3>4 giugno 2012
[Silvia Mei] Dramophone non è semplicemente una microrassegna di teatro e letteratura negli spazi cittadini di Bologna. É piuttosto l’attestazione di un’esistenza e di una poetica – quella di Teatro Reon fondato e attivo a Bologna dal 1990 – applicata al territorio che si fa luogo di memoria, coagulo di diverse socialità, grumo di vissuti. Dalla prima edizione (2010), svoltasi nel cuore pulsante del Quartiere Navile, la Bolognina, oggi un’area in riqualificazione, coacervo di nuove identità e meticciati fertili, alla seconda (2011), tessendo una teatralità frammentata nel parco di villa Angeletti, fino a quest'ultima, che si snoda nel centro storico dalla Libreria delle Moline al Circolo di Condominio di via Paglietta presso Porta San Mamolo, Dramophone si elegge come un progetto che continua l’inevasa ricerca di una stanzialità, di un’identità sociale nell’occupazione o nella riscoperta di uno spazio che è prima di tutto un luogo. Questo progetto è soprattutto la resistenza di Teatro Reon alla marginalità che un teatro senza casa si trova a scontare. Quella ricerca che Fulvio Ianneo – drammaturgo, regista e direttore artistico di Dramophone, cofondatore con l’attrice Anna Amadori, di Teatro Reon – definisce “una funzione sociale per essere riconoscibile. Perché una compagnia non si deve esprimere come ospite della propria città ma come realtà stabile”.
Il rodaggio sul territorio, secondo una visione unitaria di centro e periferia, inizia per Reon nel 1998 a Calderara di Reno, quartiere dormitorio e periferia a rischio dell’hinterland bolognese, nota al più per fatti di cronaca nera: una serie di appuntamenti in un progetto di drammaturgia dei luoghi e di affettività territoriali viene svolto invitando compagnie e gruppi come Teatro del Lemming e Accademia degli Artefatti. Poi nel 2000 il festival Transictus. Teatri e culture del cambiamento liceizzava il problema dell’identità ad un’aspirante metropoli come Bologna, guardando ad est, quell’est europeo, immigrato, non ancora integrato, pensato come un equilibratore della rinnovata Europa. Fino al 2006 si succedono edizioni e ideazioni di rassegne originali sostanziate da una vocazione sociale come urgenza poetica. Identità, memoria, luoghi, comunità sono leitmotiv per Fulvio Ianneo che col suo teatro continua pervicacemente a far precipitare in forma di progetti culturali per un’autentica esperienza estetica e umana. Dramophone – insieme all’altro progetto metropolitano di Reon, Memory Party, in gennaio – si inserisce in questo continuum artistico-culturale mosso alla densificazione degli affetti in spazi del quotidiano. E lancia la sfida di una programmazione non commerciale estiva, promuovendo il circuito indipendente Bologna Off, una rassegna di progetti autoprodotti di compagnie indipendenti operanti in seno alla rifunzionalizzazione del territorio e alla costruzione di una community.
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