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B.motion/Teatro

La scena della visione e i fantasmi di Opera


[Silvia Mei] Per la prima volta a B.motion/Teatro 2012 la presenza di una delle formazioni italiane più ardite e radicali in fatto di ricerca artistica, impianto concettuale, elaborazione scenica: Opera, compagnia riunita intorno a Vincenzo Schino a partire dal 2006. Sebbene rubricata nella folta schiera della scena indipendente romana, esteticamente è nella fertile Romagna che possiamo riconoscere il suo forte imprinting - in particolare nello spettro espressivo tra Masque Teatro e Teatro Valdoca - ma secondo un impasto originalissimo di figure e figurazioni, di elementi plastici e macchinerie, di maschere e pitture corporee, di tecniche del corpo e contraffazioni fisiche, che restituiscono come inedita la sua scena.

Una poetica originalissima, connotata da marchi d’artista secondo una ricerca dove le maschere dell’Arte si restaurano in corpi pericolanti, figure mosse come le impressioni (e)statiche di Watteau che rivisitava Arlecchino senza averlo mai visto in scena, bensì recuperandone la memoria sedimentata nella cultura francese del primo Settecento. A partire dallo spettacolo eponimo del gruppo, Opera, passando da Operette e Voilà, la maschera si esibiva in un circo di attrazioni da cui non riusciva a estromettersi ma solo a mortificarsi; successivamente in Limite. Anticamera, superando la struttura a numeri del varietà, si costruiva sul tempo organico dei suoi attuanti una storia rivissuta da corpi mutanti, bambole umane in disfacimento su una scena di enormi tele dipinte (ad opera del pittore tarantino Pierluca Cetera) nell’ordine di un figurativo narrante.

 

Sonno, l’ultima creazione della compagnia programmata a Operaestate, abbandona il “folklore” della maschera, di cui è superstite solo il fantoccio della bambola-bambina, e va incontro ai personaggi pseudostorici del Macbeth scespiriano. Tuttavia il confronto con una drammaturgia prescritta e con una storia sedimentata nell’immaginario collettivo, fatta di topoi e di edizioni cult, si affranca dalla letteralità del testo e dalle pastoie psicologiche dei suoi personaggi, obliterando, ad esempio, il fantastico e suggestivo incontro notturno con le streghe, ora osceno sabba destrutturato in chiacchiericcio fuori campo o formula magica balbettata a latere. Il castello del re non ha per niente l’aspetto di una reggia se non per le enormi tele, quasi arazzi (continua la collaborazione con l’ “artefice” Cetera), che si innalzano e scendono a vista come sipari intermedi sulla camera-cella del sonnambulo Macbeth; oppure ritratti di avi che spiano gli abitanti di un antro umido, una spelonca arcaica. Le pareti, lattiginose, rivestono la stanza spoglia, ospedaliera, con un lettino di ferro che rammemora, ma solo lontanamente, il giaciglio metallico dell’Amleto autistico di Romeo Castellucci. Sono pareti sfogliate, macchiate di infiltrazioni, oppure intrise di rosso dopo un sacrificio ancestrale. Un interno fatiscente, abitato da sopravvissuti in stato di torpore permanente, da infanti che istruiscono giochi con finti interlocutori, da fantasmi quadrupedi che scivolano in scena come ombre sui muri, da anime biaccate che si sfoderano da abiti imbottiti. Sembrano presenze animate da una seduta spiritica in una notte piovosa, come il pendolo-metronomo gigante che oscilla in scena potrebbe evocare, sotto lo sguardo stranito e straniato di un portiere in frac: dipinto sul volto come un totem riempie calici per intonare suoni celesti e si allieta con inquietanti video di trance (sono in verità le ipnoterapie praticate dal noto psichiatra americano Milton Erickson a metà del secolo scorso).

Sonno dispone un’eccellente scena surrealista, costellata di simboli rielaborati al punto da non essere più tali bensì configurazioni oniriche contro la logica che istruisce il reale. La metafora dell’occhio è quella che attraversa l’intera creazione, con chiari effetti cinematografici di zoom e di dettaglio nel trittico di tele, innalzate a vista, che ritrattano un uomo a figura intera (Banquo, forse?), il suo volto e il suo occhio (non dissimile dagli sferici bulbi dei pennuti intorno). Attraverso la visione, che qui si tematizza anche nelle sue forme più letterali, Schino (con la collaborazione della dramaturg Letizia Buoso) va a incidere la nozione di rappresentazione riportandola all’auralità dello spazio immaginario della sfera invisibile: “Il sonno profondo, il sonno di per sé, il sonno in quanto tale – osserva Pavel Florenskij nel noto Saggio sull’icona – non è accompagnato da visioni oniriche e soltanto lo stato di dormiveglia, la linea di confine appunto tra sonno e veglia, è il tempo, o meglio il contesto spazio-temporale, in cui sorgono le immagini oniriche”. Un tempo rovesciato, una composizione invertita rispetto al mondo mimetico e rappresentato, precisa sempre Florenskij, perché non risponde più ad una teleologia ordinaria. In questo senso anche le immagini concrete e l’azione si fanno istantanee, capovolte, senza inizio né fine, senza recto né verso, vivendo piuttosto di una loro connessione interna. Come le pinturas negras di Francisco Goya (ma vi riconosciamo apertamente anche il ciclo grafico dei Capricci) che fungono da sottotesto visivo ma anche da informatori di temperatura del riallestito rituale scespiriano (più vicino ad Amleto che a Macbeth).


Sonno di Opera è esattamente questo, la messinscena di un visibile secondo le forme dell’invisibile teologico, l’esperienza ad occhi aperti della vita spirituale attraverso quella porta regale dell’icona-scena che apre varchi verso il sacro.

 
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