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TENTATIVO DI ESAURIMENTO #5_Luigi Dadina (Teatro delle Albe)

FARE PIENAMENTE UNA COSA, ANCHE SE PICCOLISSIMA
Intervista a Luigi Dadina (Teatro delle Albe)


M.P.: Cominciamo dall’inizio: come sei arrivato al teatro?

Luigi Dadina: Ci sono arrivato partendo dal calcio e dalla politica. Il calcio come gioco, la politica come senso e come azione. Giocavo a calcio nel Ravenna e, prima, nella squadra del mio quartiere. Avevo il ruolo di “libero”, quello che adesso si chiama “centrale. Il “libero” era il regista della difesa. Ho giocato a calcio fino al 1975, quando avevo 17 anni, poi ho fatto parte del movimento del ’77, il cui riferimento era la sinistra extra-parlamentare, anche se non c’era un riferirsi esplicito a un gruppo politico. A Ravenna eravamo una cinquantina di ragazzi, avevamo occupato la Casa dello Studente, facevamo un giornale, andavamo a sentire concerti in giro per l’Italia (soprattutto gli Area), organizzavamo delle manifestazioni, abbiamo tentato di aprire una radio. Tutto è cambiato nel 1978, quando fu ucciso Moro. La nostra generazione non trovò più il senso di andare avanti a fare politica, fu una cesura storica, ma che  noi vivemmo sulla nostra pelle: la violenza aveva scavalcato ogni possibilità di dire qualcosa sul mondo. A fine anni Settanta, Marco (Martinelli), Ermanna (Montanari) ed altri fondarono il Teatro dell’Arte Maranathà, gruppo nato in una parrocchia di Ravenna, che noi del movimento andavamo a vedere: loro erano legati a una realtà parrocchiale, ma ciò non costituiva un problema per noi. In quegli anni, alla Casa dello Studente, che avevamo occupato, arrivò un seminario gestito da un gruppo di attori che allora lavoravano con  E.R.T. (Emilia Romagna Teatro): Franco Mescolini, Gianfranco Rimondi e Marina Pitta. Dopo questo primo seminario, iniziammo a pensare di fare cose assieme, alcuni di noi del movimento e il Teatro dell’Arte Maranathà. Da lì nacque Linea Maginot, come contenitore di vari gruppi teatrali; dal 1980 decidemmo di mettere assieme  i soldi, andare a lavorare in estate e ridistribuirci i guadagni estivi durante l’inverno, in maniera egualitaria. Da allora condividiamo lo stesso pane.

M.P.: Puoi identificare degli incontri con maestri che tu ritieni fondativi rispetto al percorso tuo o del gruppo?

L.D.:  Assolutamente sì. Il primo fu Toni Cots dell’Odin Teatret: facemmo due seminari con lui, uno a Ferrara e uno a Santarcangelo. Poi, nell’83, un incontro fondamentale fu il seminario di una settimana con Grotowski a Pontedera. Si lavorava tutta la notte, dalle sei del pomeriggio alle sei del mattino: lavoravamo intensamente sul corpo, sulla voce e sul canto. Era agosto, lavoravamo con addosso solo un costume da bagno, si sudava e faticava da pazzi. Ricordo una delle guide, un messicano, che aveva un’anima latina a cui io mi “aggrappavo”: tra sangue sul pavimento, crisi psichiche, eccetera, lui mi consolava e io gli dicevo «Provo ad arrivare in fondo», e mi veniva da ridere. Non sono molte le cose che ho capito, di quel seminario, ma ricordo il fascino di lavorare con Grotowski: compariva alle tre del mattino e ti correggeva di un millimetro la posizione di un dito. Si avvertiva che in quel millimetro c’era qualcosa di decisivo, anche se era un qualcosa che, se devo dire la verità, non ho capito fino in fondo. Grotowski non era presente quanto i suoi assistenti, ma si avvertiva il suo esserci, da qualche parte, nascosto, a seguire tutto. Ricordo il fascino di un corpo-voce che si mette in gioco... come nel calcio. Quei seminari sono stati anche un modo per capire che quella non era esattamente la nostra strada: partecipare a queste esperienze e poi non diventare epigoni di quel modo di fare teatro, è stato un modo per incominciare a definire la nostra identità. Se veramente ti avvicini a un maestro, bisogna che tu in fretta lo tradisca: ognuno deve ricercare la propria grandezza per quello che è. Successivamente siamo entrati in contatto con Leo de Berardinis, lo abbiamo ospitato molte volte in teatro a Bagnacavallo, lì ho collaborato alla parte tecnica e ho passato giorni interi a guardare le sue prove: come si muoveva, quello che faceva. Dall’insegnamento dell’Odin abbiamo appreso e mantenuto il senso del gruppo, che per noi rimane fondamentale.

 

M.P.: Com’era il vostro rapporto con l’ambiente teatrale, nei primi anni Ottanta?

L.D.: In quegli anni, il teatro di ricerca in Italia era diviso fra terzoteatristi e post-moderni. I post-moderni indossavano sempre le scarpe da ginnastica, i terzoteatristi i sandali. Non ci apparteneva questo modo militaresco e schematico di presentarsi, ci sentivamo un “gruppo non-allineato”. Per noi c’è sempre stata la necessità di incontrare le altre realtà, e questo ha voluto dire anche ospitarle: abbiamo sempre fatto teatro ma anche proposto teatro alla città. Invitare gli altri è stato sempre un modo per confrontarsi. Ricordo, ad esempio che in una delle prime rassegne chiamammo Remondi&Caporossi: ci interessava entrare in contatto con la generazione precedente, di cui avevamo letto ma che non avevamo mai visto, mai conosciuto.

M.P.: Avete sempre dichiarato di non praticare il training, almeno non nell’accezione terzoteatrista. Sappiamo che lo scopo del training non è il virtuosismo fine a se stesso, ma, al contrario, mettere l’attore in condizioni di creare. Partendo dal presupposto che l’attore-Albe non è un semplice esecutore di una visione del regista-demiurgo, come fate dunque, nei vostri lavori, a ottenere questo risultato?

L.D.: Ermanna ha compiuto un’articolata ricerca nell’ambito vocale, arrivando ai risultati che tutti conosciamo. Io da anni mi preparo in modo diverso per ogni spettacolo, a seconda del diverso tipo di impegno fisico e vocale che ogni lavoro richiede, utilizzando tecniche di yoga e di uso della voce. Nel tempo, ciascun attore ha costituito un proprio bagaglio di tecniche, che utilizza al bisogno.

 

M.P.: Barba parla del proprio lavoro di regista anche in termini di “montaggio di montaggi”. Non avendo voi quel modus operandi, da dove partite per una nuova creazione? Dal tavolino?

L.D.: Non si parte, perché non si smette mai. Ogni cosa genera l’altra, è un flusso che dura da trent’anni. Ogni drammaturgo scrive addosso agli attori: così ha fatto Molière, così ha fatto Eduardo, così ha fatto Pirandello con Marta Abba. Siamo una compagnia che ha un drammaturgo: Marco prima di essere regista è drammaturgo. Le Albe nascono affidando a Marco una visione su di noi: Marco ci legge, inventa su di noi un personaggio, lo scrive, e il personaggio è come noi, o il contrario di noi. Il punto di partenza di ogni creazione è questo sguardo di Marco su di noi, e il fatto che noi abbiamo deciso di farci guardare in questo modo da un drammaturgo, prima che da un regista.

 

M.P.: Riguardo alla tua ricerca attorno alla narrazione, penso a Griot Fulêr del 1993 e a Narrazione della pianura del 1995, mi viene in mente Jacques Copeau e la sua poetica del tréteau nu: bastano le parole a evocare lo spazio nella mente dello spettatore. Per te la narrazione è questo? E cos’altro? Come ti sei avvicinato a questo tipo di lavoro?

L.D.: Per me questo lavoro è stato, negli anni degli spettacoli che tu hai citato, cercare un punto zero dal quale partire: in una situazione così priva di tradizione teatrale, com’era la Ravenna in cui sono nato io a fine anni Cinquanta, dove la cultura contadina era scomparsa, questo percorso nell’oralità era un modo per cercare una piccola radice, cercare di capire da dove si veniva. Il mio lavoro sulla narrazione è iniziato per “contrapposizione” a tutto quello che raccontavano gli attori africani delle Albe: il villaggio, i tamburi, le danze di notte, i loro padri che li svegliavano all’alba per insegnargli a suonare il tamburo, racconti che mi suscitavano una grande invidia! Io cosa avrei potuto raccontargli? L’angoscia di vivere in un quartiere operaio (il villaggio dell’ANIC), dove non succedeva nulla, o dei miei coetanei che hanno cominciato a drogarsi, o di quando abbiamo avuto il primo morto di AIDS? Per me la narrazione è nata come radice teatrale ma anche come radice etnica: ho cercato una figura popolare che potesse rappresentare un punto zero della teatralità popolare, e così mi sono casualmente imbattuto nella figura del fulêr.

M.P.: Casualmente?

L.D.: Eraldo Baldini (scrittore ravennate) aveva incominciato a scrivere, un suo anziano vicino di casa, Ermanno Silvestroni, gli disse: «So che scrivi, forse ti interessa» e gli raccontò che più di cinquant’anni prima, negli anni Venti, quando era ragazzino, per tre o quattro anni andava tutti i giorni dal barbiere e all’osteria del suo paese, San Pancrazio, trascrivendo tutte le favole che sentiva raccontare dai vecchi. Eraldo Baldini si trovò davanti a un baule pieno di fogli scritti in una calligrafia minuta molto bella, io li ho visti: una miniera infinita. Ha pubblicato cinque volumi di queste fiabe, che in questo modo sono arrivate a noi “direttamente” dagli anni Venti. Ho così trovato un padre, ma subito mi sono chiesto cosa avrebbe potuto raccontare un fulêr oggi. In Narrazione della pianura il fulêr raccontava una fiaba antica, ma raccontava anche dell’ANIC.

 

M.P.: Narrazione della pianura inizia con te che ti perdi nella nebbia.

L.D.: Sì, partivo perdendomi, perché un fulêr, oggi, forse non può esistere, certamente non può raccontare una storia per intero, ma solo brandelli di storie. Un aspetto positivo di quel lavoro è che, narrando, negava la narrazione: non c’era nemmeno una storia raccontata per intero, ma solo brandelli di storie, incastrati l’uno dentro l’altro.

 

M.P.: L’incontro teatrale tra il griot senegalese e il fulêr romagnolo ha avuto più una connotazione interculturale (ha messo in luce le differenze) o transculturale (ha evidenziato ciò che accomuna, e che precede le differenze)? E a te come attore, cosa ha dato questo incontro?

L.D.: Nei due viaggi in Africa, nel 1990 e nel 1993, è come se avessi riscoperto la mia cultura contadina: sono stati un viaggio all’indietro, nella memoria. Abbiamo messo a confronto le due tradizioni, quella del griot e quella del fulêr, le abbiamo fatte stridere, abbiamo cercato sia gli ementi comuni, ma soprattutto le diversità. Il fulêr, nella nostra cultura, ha avuto un ruolo marginale, subalterno, minoritario, mentre il griot, nella cultura orale dell’Africa occidentale sub-sahariana è una figura centrale: il nostro, quindi, è stato un paragone per certi versi illecito. A proposito dell’approccio transculturale di cui tu parli: abbiamo cercato una unità di luogo, cioè abbiamo tentato di capire se era possibile che il cortile di un villaggio africano nella savana fosse simile all’aia di un casolare nella pianura padana, alla fine abbiamo scoperto che i due luoghi non sono così diversi. Ed è in questo luogo comune, in parte immaginato e in parte scoperto, che abbiamo ambientato e realizzato lo spettacolo: il griot e il fulêr hanno scelto di condividere questo luogo.

 

M.P.: Dopo questi due lavori, Griot Fulêr e Narrazione della pianura, non hai più usato il dialetto romagnolo come lingua di scena. Perché? Ti manca?

L.D.: No, l’uso del dialetto era una invenzione: in realtà io io dialetto non lo conoscevo. I miei genitori non parlavano dialetto in casa, lo conoscevano perché erano cresciuti in famiglie contadine ma, facendo gli operai, ritenevano bisognasse parlare in italiano. Quindi conoscevo, del dialetto, solo mezze frasi che avevo carpito al bar o in casa dei nonni. Ho cercato di imparare il dialetto perché le fiabe da cui sono partito, quelle raccolte da Eraldo Baldini, usavano questa lingua bellissima, sfavillante, originale e vera.

 

M.P.: Il tentativo di arrivare a un teatro necessario, e quindi, per dirla con Craig, per fare in modo che il teatro non sia quel luogo “in cui si sentono blaterare 30.000 parole in due ore”, mi è sempre parso che nel lavoro delle Albe, e specificatamente nel tuo lavoro, passi attraverso la concretezza. In questo senso, mi viene in mente Fahrenheit 451 di Ray Bradbury: «Ognuno deve lasciarsi qualche cosa dietro quando muore, diceva sempre mio nonno: un bimbo o un libro o un quadro o una casa o un muro eretto con le proprie mani, o un paio di scarpe cucite da noi. O un giardino piantato col nostro sudore. Qualche cosa insomma che la nostra mano abbia toccato, in modo che la nostra anima abbia dove andare quando moriamo, e quando la gente guarderà l'albero o il fiore che abbiamo piantato, noi saremo là». É così? In che modo, per te, il lavoro teatrale attiene alla necessità, anche concretamente?

L.D.: Ti rispondo con un “esempio al contrario”: durante le prove per I polacchi, che rimane forse lo spettacolo delle Albe che ha avuto più successo, mi resi conto, dolorosamente, che non riuscivo a esserci pienamente, sia perché era nato mio figlio Riccardo, sia per molti altri motivi. Decisi di non lavorare nello spettacolo: avrei dovuto essere Padre Ubu, un ruolo centrale in un lavoro per noi centrale, in un momento di cambiamento per la compagnia; fu molto difficile fare quel passo indietro, ma lo riconosco come un importante momento di crescita. Della parola necessità si può anche abusare, ma se le cose che si fanno devono essere necessarie, lo devono davvero essere, ogni giorno. Per me la necessità corrisponde al legame con il gruppo. La questione centrale è: ci sono veramente, tutto intero e fino in fondo, per costruire un’opera collettiva con i miei compagni? Questo, quindi, precede il tipo di spettacolo che si farà e, per come si muovono le Albe, è indistinguibile dalla vita, anche in aspetti apparentemente lontani dallo spettacolo in sé: ad esempio, decidere che tipo di furgone si deve comprare! Se questo legame si spezza, allora non c’è più necessità di andare avanti. Quale che sia il ruolo che una persona ha in uno spettacolo, ruolo piccolo o grande, centrale o marginale, è necessario esserci al mille per mille. In questo senso, uno degli ultimi insegnamenti grandi mi è arrivato da Torgeir (Wethal, attore dell’Odin Teatret dal 1964 al 2010, anno della sua morte): in uno degli ultimi lavori dell’Odin lui faceva quasi niente, ma era straordinario in quel suo fare quasi niente. È stato uno degli insegnamenti più grandi di un attore per un attore: vedere quel fare pienamente una cosa, anche se piccolissima. Quello è per me un esempio di vera necessità. Sento Torgeir molto vicino, sia per alcune lunghe chiacchierate notturne fatte assieme, sia per alcuni suoi “sgarri” degli ultimi anni che per il suo rapporto, fraterno e al contempo conflittuale, con Barba. Per me incontrarlo è stato come trovare un fratello più grande.

 

M.P.: Adesso ti chiedo io un “esempio al contrario”, rispetto al tuo relativo a I polacchi. A proposito della necessità, anche in relazione al legame con il gruppo, a cui hai accennato, mi fai un esempio concreto di una tua partecipazione a un progetto della “tribù-Albe”, come la chiami tu, anche senza essere stato in scena?

L.D.: Ho aiutato sia Argno (Alessandro Argnani) che Renda (Alessandro Renda) a “fare muretto”. Noi chiamiamo così il lavoro, spesso lungo e noioso, necessario a imparare a memoria parti di testo lunghissime. È un termine che viene dal calcio: quando si deve imparare a calciare di piatto, di collo o di esterno, ci si mette di fronte a un muro e si calcia all’infinito: non è certo divertente, ma lo si fa finchè non si affina la capacità di controllare il pallone con una certa posizione del piede. Analogamente, ho passato ore e ore in una stanza con loro ad aiutarli a imparare i testi, con Arnio per La canzone degli F.P. e degli I.M., con Renda per Rumore di acque.

M.P.: Ragionando sulle diverse fonti testuali degli spettacoli delle Albe, mi verrebbe da dividerli in cinque categorie: scritture originali di Marco Martinelli, come nel caso de I Refrattari e di Rumore di acque, che hai appena citato; le ri-scritture di Martinelli da altri autori, soprattutto Jarry e Aristofane, ma anche Folengo, Shakespeare, Dick; le scritture di autori terzi delegati dalle Albe, ad esempio Nevio Spadoni per L’isola di Alcina; acquisizione diretta di testi di altri autori, come Sterminio di Werner Schwab o il testo della Morante da Il mondo salvato dai ragazzini; infine il lavoro su fiabe e favole di tradizione orale, di cui già un po’ mi hai parlato. Mi interesserebbe ora capire il procedimento di lavoro da voi adottato nella “messa in vita”, come direbbe Martinelli, di testi di altri autori coi quali non potete interagire, come invece è capitato con Spadoni, magari perché già morti: penso, ad esempio, a Schwab o a Canzone.

L.D.: Nel caso de La canzone degli F.P. e degli I.M., ad esempio, essendo quello un testo poetico, e non un testo pensato da Elsa Morante per essere messo in scena, c’è stato un forte intervento drammaturgico di Marco: alcuni spostamenti dell’ordine di alcune parti, e soprattutto l’invenzione dei personaggi: un pazzo, gli infermieri, un medico. Questa struttura drammaturgica, la “gabbia” che è stata creata attorno al testo è molto significante. Nel caso di Sterminio e di Stranieri, che sono due scritture che sembrano fatte su misura per noi e su di noi, l’elemento fondante è stato lo spazio creato per questi lavori: un elemento drammaturgico che ha indirizzato e dato senso a tutto il lavoro.

 

M.P.: In che modo questo lavoro sulla drammaturgia dello spazio, o il lavoro sui testi di altri autori ha condizionato i lavori successivi?

L.D.: Stranieri ha condizionato la scrittura di Marco in Rumore di acque: il confronto con altri drammaturghi è diventato una fase del suo percorso di lavoro, così come lo è stato per noi attori. Adesso ho molta voglia di tornare a “scrivere assieme”, come era all’inizio: si inizia a immaginare la storia, Marco ne scrive un pezzo, torna a farcelo leggere, e così via. Dopo tutte queste evoluzioni, che sono state importantissime, vorrei tornare all’origine: il lavoro di creazione assieme a Marco a Ermanna, che è un cuore più pulsante di tutti gli altri. Lì ci sono, al contempo, l’origine e il futuro.

 
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