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TENTATIVO DI ESAURIMENTO #4 Franco Acquaviva /Teatro delle Selve

SCABIA, L’ODIN E IL DAMS DI BOLOGNA
Intervista a Franco Acquaviva/Teatro delle Selve
a cura di M.P.

 

M.P.: Vorrei iniziare il nostro dialogo parlando di maestri. Chi riconosci come maestro, in ambito teatrale e non? Se dovessi indovinare, qui nominerei Iben Nagel Rasmussen e Giuliano Scabia…


Franco Acquaviva
: Sicuramente loro due. Anche se Barba è stato molto vicino al percorso del Teatro Ridotto, dove ho lavorato per 12 anni, se devo individuare un maestro diretto del modo di lavorare sull'attore che è stato messo a punto all'Odin, sicuramente Iben è l'unica figura di spicco per me. Ho lavorato per vent'anni nel suo gruppo e ho respirato un'atmosfera molto particolare, dove si impastavano rigore, disponibilità assoluta a mettersi continuamente in gioco, cura rigorosa del dettaglio. Il lavoro del Ponte dei Venti era inscindibile da qualcosa che potremmo chiamare danza e canto – canto della danza e danza del canto si potrebbe dire... Il training era questo creare continue improvvisazioni all'interno di strutture fisiche e vocali date, nel rispetto assoluto di alcuni principi di base e nella relazione di ogni individuo con l'altro. Relazione tra individui (sottolineo: individui), laddove invece spesso nei gruppi epigoni di scuola odiniana la relazione era tra individuo e gruppo (o meglio idea – o ideologia – del gruppo), con tutte le magagne e le distorsioni che ben si possono immaginare. Il grande insegnamento a ben vedere è stato assorbire per via diretta, per osmosi, in un tempo molto lungo di lavoro, tutto questo armamentario metodologico ed etico molto concreto nei confronti del lavoro artistico su di sé (e con gli altri). Dal gruppo mi sono allontanato di recente, è solo alla fine del 2010 infatti, dopo vent’anni esatti di presenza assidua, che ho dato le dimissioni dal Bridge of Winds.

 

M.P.: E Scabia, come l’hai incontrato?


F.A.: Scabia l'ho conosciuto come professore al DAMS di Bologna alla metà circa degli anni '80. Dopo quell'esperienza, che mi entusiasmò, cessai però di seguire i suoi corsi, perché nel frattempo avevo scoperto l'Odin, che mi aveva completamente affascinato. Sono tornato a Scabia in seguito, quando l'impatto del fascino fisico, animale, sensuale, energetico, emozionale che l'Odin esercitava si era un po' affievolito; allora ho scoperto l'altra metà del pianeta per così dire: un teatro che passa per la poesia e per il lavoro nel sociale, per la drammaturgia d'avanguardia, e che si pone la domanda veramente essenziale: dov'è, oggi, in questo momento, per me, il teatro? Dove, per me, vale la pena cercarlo? Una volta acquisite tecniche e modalità operative, o quell'intuito artigianale, o sesto senso che ti orienta, la domanda è essenziale per non cadere nel solo “mestiere”, per tenere vivo quel senso del pericolo, dell'instabilità, della ricerca, o della rivolta (per citare Barba), che dà senso per me al fare teatro.


M.P.: Chi altri?


F.A.: Che abbia seguito direttamente, nessun altro. Certo mi sono incontrato con gli attori del TTB (Teatro Tascabile di Bergamo), con alcuni maestri orientali, con Grotowski, ma solo per determinate occasioni, non posso dire che mi abbiano accompagnato come hanno fatto Iben e Scabia.


M.P.: Hai accennato all’incontro con Scabia avvenuto al DAMS di Bologna, realtà che, come sai, anch’io sto frequentando con assoluta gioia e gratitudine. Puoi dirmi qualcosa in più della tua esperienza “bolognese”?


F.A.: A metà degli anni Ottanta il DAMS di Bologna era un crocevia di incontri, passaggi, scambi: ci passavano tantissimi maestri; non è un caso che sia con Scabia che con Iben il DAMS sia stato centrale: Scabia teneva il suo corso di Drammaturgia II in una sala bellissima del centro, fuori dalla zona universitaria, la Sala dei Fiorentini, di fianco a via D'Azeglio. Di Iben vidi, alla Soffitta, una dimostrazione di lavoro, nell’ambito di varie iniziative dedicate all’Odin quell’anno (1985-86), organizzate dall’Università in collaborazione, credo, con il Centro Roselle, il Teatro Ridotto, e forse il Gruppo Libero che gestiva allora la Soffitta.


M.P.: Tornando alla questione fondativa del rapporto con i maestri, vorrei capire meglio cosa hai preso da loro, sia in termini di approccio filosofico al teatro, sia in termini pratici, concreti.

 

F.A.: Da Iben ho preso il rigore metodologico, la passione metodica (o il rigore della passione, se vuoi), la difficile arte di mettersi sempre in discussione, l'abitudine al confronto. Ho imparato anche il linguaggio dell'attore-Odin certo, ma forse quello è l'insegnamento più caduco. Posso dire di aver imparato a riconoscere la qualità biomeccanica dei movimenti di scena, per così dire; imparando a distinguere le azioni dell'attore nelle quali è visibile  una certa mobilitazione di tutto il corpo (azioni efficaci), da quelle in cui questo non accade. Ma forse più che tecniche, ho imparato principi di lavoro; una certa capacità di guardare, e di fare e di imparare da quello che fai e da come sbagli. Il sesto senso di ciò che funziona e di ciò che non funziona. Una specie di umiltà molto operativa, che non è cerimonia, ma stato operativo dell'ascolto.
Da Scabia ho imparato l'attenzione per, l'importanza delle parole, il fatto fisico della parola; non il fatto fisico della voce (cosa quest'ultima più vicina all'insegnamento di Iben), ma proprio della parola: i legami fra senso e fiato e ritmo; e la forza della fabula; e la musica della poesia, che è musica teatrale concreta, oltre che cartacea, astratta; tutto ciò di contro all'idea, e al mito, allora imperanti nel mondo del Terzo Teatro del Montaggio e dell'Azione.


M.P.: Ho qui davanti a me il numero di Prove di Drammaturgia del marzo 1997 in cui ho trovato un tuo lungo saggio dedicato al lavoro di Scabia. So che negli anni hai scritto di lui anche su altre riviste (Teatri delle diversità, Culture teatrali). A fine agosto 2011, l’hai avuto ospite in un appuntamento del tuo Festival sul lago d’Orta, Teatri Andanti. Insomma: una conoscenza approfondita e di lunga durata. Pensando a Marco Cavallo, del ’76, sulle esperienze all’Ospedale Psichiatrico di Trieste di tre anni prima, o pensando ad altre fra le tante cose che Scabia ha scritto e fatto… come lo hai trovato, l’agosto scorso? Nel senso: secondo te, di quel che Scabia ha da dirci, cosa rimane forte oggi, cosa invece si è indebolito e cosa magari è spuntato di nuovo? Se vuoi, inizia raccontandomi un po’ di quel 25 agosto a Orta San Giulio…

 

F.A.: Mi sembra che, insieme al complesso lavoro svolto al DAMS con gli studenti,  una delle cose più forti sia stato proprio Marco Cavallo. Perchè la sua eco sta riprendendo a risuonare senza che apparentemente sia successo nulla di specifico? Per esempio un revival o un anniversario? Credo semplicemente che quel racconto abbia dentro di sé qualcosa che finisce per diventare un epos, una narrazione corale  e  anche un mito, cioè un racconto di fondazione (o tentativo di fondazione), di un nuovo concetto di umanità e di società. È un racconto che può essere continuamente narrato, perchè tocca delle corde per così dire archetipiche (il rapporto con la malattia mentale e fra malattia-individuo-società), dunque parla anche di definizione dell'umano, cioè di cosa siamo abituati a pensare come umano e cosa no. Non dimentichiamo che prima di Basaglia i matti erano trattati alla stregua di animali... Quindi, essendo un mito e un  epos, ha dentro tutto: la coralità del racconto di una comunità e l'universalità; in quell'esperienza c'è una progressione drammatica e delle immagini (emblemi, quasi) che toccano le corde profonde di ciascuno. Pensa, ad esempio, all'immagine grandiosa di Basaglia e del gruppo degli “artisti” che rompono le porte del manicomio per far uscire il Cavallo, con tutti i “matti” dietro che  scendono in città, e vedrai come quell'immagine sia puro Mito: fra l'altro è quasi un cavallo di Troia al contrario: con i guerrieri che non si nascondono nel cavallo ma lo accompagnano rumorosamente; guerrieri che non sono guerrieri, ma vittime di una guerra permanente e mai dichiarata contro l'anormale. E mentre i guerrieri Achei aprono le porte della città all'invasione distruttiva, i “matti” rompono la porta della reclusione per un'invasione pacifica e giocosa-gioiosa della città. In più da quell'esperienza emergono due forze psico-fisiche secondo me immense: la Gioia e l'Entusiasmo maturate nella Sofferenza. Cosa c'è di più greco, dionisiaco mi verrebbe da dire?

M.P.: E dello Scabia di oggi, cosa puoi raccontare? E soprattutto: il suo percorso si collega in qualche modo al tuo lavoro attuale?


F.A.: A parte le sue scritture sempre a cavallo dei generi (romanzo-teatro-poesia), con quella riflessione inesausta sul linguaggio e sulla lingua, conosco soprattutto ciò che ha fatto qui da noi: cioè le sue camminate poetiche attraverso i paesaggi. Questo rapporto tra camminare e poetare e tra camminare e teatrare Scabia lo ha incarnato in un certo modo. E’ stato infatti uno dei primi – forse il primo - in Italia a fare certe cose, come impugnando la propria poesia e immergendola in una tensione verso il teatro, creando così situazioni mai teatrali in senso convenzionale, spesso completamente immerse nei paesaggi italiani – urbani e naturali - che di volta in volta attraversava. Ne sono nate maratone notturne, trekking poetici, salite al monte, e altro ancora.

Questa modalità poi io stesso, anche sulla scorta di esperienze fatte con Sista Bramini ed Enzo Cecchi, ho cercato di riprendere  interpretandola in tutt'altre condizioni e con altri obiettivi e mezzi, interrogandomi/ci soprattutto sul lavoro che lo spettatore è costretto a fare nel momento in cui percepisce l'evento teatrale in una situazione di itineranza scomoda calata in ambiente naturale; e dove è stimolato a far lavorare in maniera molto intensa la sua “videocamera mentale”, in modo da selezionare tra tutte le impressioni quelle che lo aiutano a entrare nell'altro spazio-tempo del teatro –  e quelle che si hanno in un bosco sono di qualità quasi opposta rispetto a quelle che si possono avere in una strada cittadina: qui l'attore tende a produrre molta  energia per sovrastare il disturbo fonico-visivo; là deve lavorare d'energia comunque ma insieme di sottrazione, per farsi alleato il potere smemorante dell'ambiente naturale. Per fare ciò lo spettatore deve essere coadiuvato dagli attori, essere guidato in un percorso percettivo, oltre che drammaturgico, dove insieme a quella che potremmo chiamare una “drammaturgia della percezione” è presente una percezione alterata della drammaturgia. Alterata perchè deve fare i conti con un ambiente, quello naturale,  che di per sé, se non è lavorato, plasmato dall'azione degli attori e della regia non aiuta la drammaturgia, e lo spettacolo, ad emergere con chiarezza. Facile insomma è la modalità della camminata con letture, più difficile pensare a come alterare la percezione spazio-temporale dello spettatore con un uso insieme spregiudicato ed esatto, arbitrario ma necessario dello spazio, dei suoni, delle luci, degli imprevisti stessi della natura.

 

M.P.: Questa tua risposta rimanda, secondo me, alla tua lunga pratica di drammaturgo e regista per la tua compagnia, il Teatro delle Selve. Puoi dirmi ancora qualcosa su ciò che trovi interessante oggi del lavoro di Scabia dal punto di vista del collegamento tra parola e performatività?


F.A.: Lo Scabia attore di se stesso è un caso a parte; più che per specifiche qualità attoriali - è un attore molto sui generis - per la qualità con cui sa rendere il ritmo-voce dei propri testi. E’ un cantastorie insomma, e non lo dico in senso riduttivo, anzi. I suoi testi poi sono già ritmo-voce nella scrittura e sorgono da, e danno espressione al suo tipico immaginario fatto di animali parlanti, angeli e diavoli che si insolentiscono e si rincorrono negli spazi siderali o in un campo concimato, con mescolanza di alto e basso, di dialetto e lingua italiana limatissima  e dalla personalissima prosodia, di eventi teatral-celesti resi con la semplicità del teatro di burattini e la complessità di una lingua dai molteplici strati sonori. Scabia, come Celati, non è estraneo a tutta quella koinè linguistica tardo cinquecentesca che rompe gli schemi della lingua aulica petrarchesca (Folengo, Ruzante, ecc...), e che mescola alto e basso, città e campagna, lingua letteraria e dialetto.

Ma per tornare alla questione del tradire la propria tradizione di appartenenza. Mi ricordo Leo De Berardinis che, riferendosi agli attori del Terzo Teatro, diceva una cosa come: “vedo questi attori che saltano, fanno capriole; e le fanno pure bene, sono bravissimi, ma poi in scena non sanno parlare...”. Mi sto chiedendo da un po' di anni come far interagire quella tradizione rivoluzionaria (il Terzo Teatro e addentellati), con la tradizione (novecentesca) italiana dell'attore e della regia. Dopo aver visto uno spettacolo come I Demoni di Peter Weiss, con alcuni attori (proprio due o tre, non di più) veramente convincenti; e non solo in seguito a questa esperienza, ma sulla scorta anche della visione degli storici spettacoli di Leo, di letture, di incontri, di filmati visti, ho cominciato a confrontarmi direttamente con quella modalità recitativa, con il personaggio, addirittura con il dialogo. Dunque mi sono misurato con la scrittura drammaturgica vera e propria - e non con un montaggio di testi pre-esistenti, pratica fin troppo diffusa nel teatro di gruppo. Ho scritto dunque un paio di testi originali, dove l'azione è portata avanti solo dal dialogo tra i personaggi, a cui sono seguiti altrettanti spettacoli. Trovare il proprio personale punto di congiunzione tra “teatro eurasiano” e teatro italiano; tra teatro del corpo e lingua letteraria; questo il senso del doppio tradimento che coltivo. E ogni giorno, prima di innaffiare le pianticelle, benedico i maestri.

 
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