Nuove forme di territorialità teatrali
[Silvia Mei] Segna il territorio, il lupo; vive in branco, rispetta le gerarchie all’interno di una microsocietà collaborativa. É un mammifero fedele, monogamo per tutto il corso della sua vita, e quando si congeda dal mondo, abbandona il gruppo nel silenzio antico del bosco.
Funzionano quasi come branchi le nuove comunità teatrali: fondano cooperative ululando alla luna (come la nuova E, costituatasi a Ravenna lo scorso maggio dall’assemblamento di gruppi anagraficamente e affettivamente diversi, quali Fanny&Alexander, Menoventi, gruppo nanou e i neonati Erosanteros); costruiscono ritualità, talora occasionali, ma sempre fondative di nuove forme di organizzazione del lavoro e di operatività concettuali; coltivano con cura e senza fretta i semi del loro raccolto, rispettando il maggese, ripulendo dalle erbacce infestanti e lasciando le ortiche negli angoli giusti. Bruciano i solchi, ripuliscono i fossi, spolverano gli sterrati, spazzolano i perimetri. La loro territorialità è idealmente espansa.
Nell’ambito del cartellone di Prove Tecniche 2012 per Ravenna 2019, l’anello romagnolo ha promosso una serie di eventi dislocati che agitano un’effervescenza naturale e la città di Forlì si conferma un centro di presenze nella promozione e produzione delle arti contemporanee per la pluriennale attività di tre realtà artistiche, diversissime per formazione, poetiche e anagrafe: Masque Teatro, Area Sismica e Città di Ebla, promotori di festival, giornate e incontri musicali (come Festival Musica Contemporanea, Crisalide, Ipercorpo) per un’offerta multipla sul fronte della musica e delle arti performative.
Con LUPO ricerche performative queste realtà hanno tentato per la prima volta e con successo una sinergia, una messa in comunione di energie e di ruoli con una staffetta di artisti romagnoli, dalle 18 alle 24 di sabato 9 giugno 2012 presso la Ex Filanda e la Fabbrica delle Candele in centro a Forlì. Lo hanno pensato come un “rave party”, piuttosto una maratona di esistenze altre, diverse, possibili, un fringe short format dove le operatività artistiche si affrontano con le dinamiche di intellettuali, di critici affiancatori, per una drammaturgia complessiva di 14 interventi alternati tra performance e atti di pensiero (ma soprattutto atti di presenza, di chi nel pubblico da anni sostiene, segue e accompagna queste attività).
LUPO ha funzionato da vaso di raccolta, da serbatoio di scolo ai processi creativi e intellettuali dei lavoratori della cultura, degli artigiani delle arti dal vivo che operano in una regione di eccellenza nella promozione e nella tutela delle arti. Pur dovendo tristemente ricordare che la Provincia di Forlì si sia nell’ultimo anno distinta per gli impietosi tagli di settore, con ripercussioni serie e sensibili sulle capacità materiali di realtà come i promotori di LUPO. E oggi questa no-stop di ricerche performative vuole come porsi in reazione all’indifferenza delle amministrazioni secondo una modalità che ci ricorda iniziative di contropolitiche culturali come rEsistere, giornata promossa da Tamteatromusica al Teatro delle Maddalene di Padova il 26 febbraio 2011.
Colpiscono le parole di apertura di Ivan Fantini, la cui lucidità esistenziale, “Io so dove sono”, dispiega una quotidiana e intima rimozione dei beni di consumo, del clamore della città, resistendo alla perdita delle radici come sentimento della terra e interroga le nostre coscienze; mette in crisi quei piccoli gesti che ogni giorni compongono una spirale di scelte, di cui non interroghiamo il riverbero. Sono le parole di chi ha i piedi piantati in terra e anche sul declivio più scosceso può guardare in alto, nel caleidoscopio delle fronde al vento che ritagliano la luce.
Intervento tra i più fragranti, quello di cerniera tra i due tempi della serata, è stato l’atto di pensiero di Cesare Ronconi che con Teatro Valdoca insieme a Mariangela Gualtieri ha da sempre portato avanti una poetica della purezza in virtù delle loro “radici avventizie, confuse”: “il nostro lavoro ha radici che solo un paradosso vegetale in ogni sua fase ripete, questa mancanza come una tormenta e come una legge che salva”. Sono stralci da una lettera del 1992 firmata da Ronconi-Gualtieri per raccontare l’originarietà sdentata del loro fare teatro, l’impulso ctonio, genetico che rammemora esistenze passate senza il peso del racconto della storia; che libera quegli stati del ricordo rifranti nel “presente sorgivo”. È un’attitudine al congedo, quasi una fede nell’addio, quella che professa Cesare Ronconi e di cui ci mette appassionatamente a parte: un congedo che ha una coloritura morale più che politica, perché richiede una costituzione fisica, un irrobustimento delle coscienze, una forma mentale contro l’attaccamento e l’attecchimento e votata alla fiamma e al lampo.
Parafrasando la canzone di Marco Martinelli intonata da Ermanna Montanari sulla chiusa notturna, LUPO lo possiamo pensare come un “luogo comune”, ma anche un tempo comune; un luogo fondato, uno spazio animato, un tempo vissuto in cui il pane è spezzato, condiviso (e non diviso): “se il luogo è comune ma il pane no/ se il luogo è comune ma l'arroganza divide/ se il luogo è comune ma diavolo io voglio più di te/ allora tutte queste belle parole/ non sono che inganno/ l'inganno più grande/ il più velenoso/ l'inganno che fa grigi i volti/ e rende malvagia la voce/ la Truffa”.
È una questione di condivisione quella che LUPO ha promosso, a partire dal suo pubblico, dai suoi spettatori, da quella microcomunità che costruisce esistenze, resistenze, coscienze per un progetto di umanesimo nuovo, possibile soprattutto come rinascita dall’attuale medioevo dei diritti, delle crisi, delle etiche.
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