Roberto Corradino/Reggimento Carri |
Lo spettacolo della tragedia © Francesco Paolo Ruggiero
[Silvia Mei] L’atto pirico di Roberto Corradino nella nuova produzione di Reggimento Carri, Le braci primo movimento (debuttato lo scorso 28 e 29 aprile al Teatro Kismet di Bari), non è poi così lontano dall’appestamento artaudiano nell’icona della estatica Falconetti-Giovanna d’Arco. Il crepitare della pira, visualizzata da legnetti coreograficamente disposti su un praticabile da disadorno comizio popolare, è un vero e proprio incendio diretto allo spettacolo e al teatro inteso come orpello, ciarpame, décor. Le braci è una crocifissione dell’attore lungo un testo che è pura metrica, un attentato che è comizio politico, arringa e invettiva e dove i veri condannati al rogo, autoincendiari, sono gli attori stessi. “Cuore è una tragedia mancata, – commenta Corradino nelle sue note di regia - quell’Orestea impossibile che cercavo di pensare a partire dal quotidiano. Se oggi Oreste c’è io proprio non riesco a trovarlo se non in tanta rabbia accumulata e irrisolta, sparsa nel mondo in cui vivo […] piuttosto Oreste come Antigone, è una condizione, appunto il protagonista mancato di una tragedia mancata”. É una generazione indecisa, in attesa di un futuro che non arriva mai, la classe messa su dai suoi attori che si solidifica nei miti pro patria di un decennio animato da icone di massa come Giovanni Paolo II e Madonna. Un’opera pop, un Cuore musicale imbastito sui racconti di giovani cui viene chiesto di essere piccoli eroi quotidiani e dove il rischio non è commisurato allo sviluppo psicologico. Giovani di una generazione che sceglie di contraddire il padre senza le afflizioni di un pezzo di legno come Pinocchio, lontanamente o profondamente collodiano, usato come sberleffo, pungiglione, un feticcio di Franti. È un terrore e un affanno fatto di niente quello messo a punto da Corradino che estende il testo-copione sul modello del comunicato terrorista ma lo riplasma sulla forma della predica scolastica e dell’oratoria latina con le due tirate “Monologo del Ci credete” e “Domani saremo eroi” nella voce rotta e partecipata di Michele Cipriani – fisico complementare alla silhouette allucinata di Corradino. C’è anche un concentrato di teatro elisabettiano, Shakespeare in particolare, dal prologo dell’Enrico V, al Sogno, al Re Lear, da cui estrae il prototipo del duetto riapprontando la diade Lear-Fool. Ma è nella testualità di Shakespeare che Corradino si insinua, riportando al grado zero la funzionalità di una scena non illusiva ma immaginativa come quella del gran Will. Shakespeare appunto funge da scheletro sotto la carne palpitante della scrittura, da sempre portante nel teatro di Roberto Corradino, dove ha trovato posto il Dante dei canti politici accanto a Peter Handke e Georg Büchner che daranno rispettivamente cuore e mente al secondo movimento di Le braci. Ma sicuramente a far da padrino ad un siffatto teatro così abitato, così meditato e premeditato che quasi si depensa, è Carmelo Bene: Le braci insistono su motivi pienamente beniani, purgati da certa enfasi stilistica e dagli svolazzi barocchi di un attore che è ora funzione dell’azione. Riverbera la nozione di accadimento scenico ovvero il teatro come evento, l’azione come portato di verità e soprattutto l’attore-operatore che qui si avvera nell’attore-terrorista, colui che mette a rischio la propria vita per la causa e sacrifica quella dei suoi spettatori smuovendone gli umori, e non solo quelli, sulle ceneri della tragedia attica. Ma soprattutto, lavorando in seno alla logica del teatro nella società dello spettacolo, la spettacolarizzazione della tragedia contemporanea, dell’11 settembre, del teatro Dubrovka etc. – diventati pretesti scenici – la celebrità dell’ordinario, l’eroismo mediatico predicati da Wharol trovano in Le braci una radicalizzazione intimamente calata nella finzione, un risultato non fine a se stesso, non una formuletta provocatoria e irriverente, un trito concentrato di filosofismi da teatro concettuale di ultima generazione, bensì un serio pensamento sullo stato della rappresentazione, sui suoi cascami e sulla sua possibilità ancora oggi di accadere. Hinc et nunc. |