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Roberto Corradino/Reggimento Carri

Lo spettacolo della tragedia

© Francesco Paolo Ruggiero

 

[Silvia Mei] L’atto pirico di Roberto Corradino nella nuova produzione di Reggimento Carri, Le braci primo movimento (debuttato lo scorso 28 e 29 aprile al Teatro Kismet di Bari), non è poi così lontano dall’appestamento artaudiano nell’icona della estatica Falconetti-Giovanna d’Arco. Il crepitare della pira, visualizzata da legnetti coreograficamente disposti su un praticabile da disadorno comizio popolare, è un vero e proprio incendio diretto allo spettacolo e al teatro inteso come orpello, ciarpame, décor. Le braci è una crocifissione dell’attore lungo un testo che è pura metrica, un attentato che è comizio politico, arringa e invettiva e dove i veri condannati al rogo, autoincendiari, sono gli attori stessi.

Lo scorso anno la produzione di Reggimento Carri aveva segnato una svolta nel monologante teatro di Roberto Corradino, il quale preferì indossare i panni di un Kantor postnovecentesco, orchestrando una corale di giovanissimi ardimentosi attori: come in Il paese lontano, dal testo di Jean-Luc Lagarce (all’interno del progetto “Face à face”), e soprattutto in Cuore. Come un tamburo nella notte, non uno spettacolo di celebrazione dell’Unità d’Italia, piuttosto la rappresentazione di quella (peggio) gioventù cresciuta negli anni Ottanta. Cuore è un lavoro che non si è avvezzi a vedere sulle nostre scene, con cui Corradino/Reggimento Carri si proiettava tenacemente in un universo teatrale europeo, un teatrodanza italiano non epigonale, non scopiazzato, tantomeno commerciale o furbo, né incline al patetico.
C’è un testo, quello del post-umbertino Edmondo de Amicis, ma non viene drammatizzato, rimane piuttosto una traccia, un sottotesto passibile di riscritture e profanazioni; ci sono delle parti, legate ai personaggi del romanzo, senza però illustrarli; c’è una drammaturgia che non nasce da una successione preordinata, o da una giustapposizione definita da forti spezzature o crisi, il collante è una selezione musicale anni Ottanta che marca il ritmo dell’azione; c’è l’attore e c’è la persona dell’attore che porta in scena il suo vissuto, senza finzioni e senza affettazione, nel filtro dei compagni di scuola del narratore e diarista Enrico Bottini; c’è una regia, che è montaggio di partiture prodotte in diverse sessioni di lavoro collettive con l’assistenza del danzattore Antonio Carallo.

“Cuore è una tragedia mancata, – commenta Corradino nelle sue note di regia - quell’Orestea impossibile che cercavo di pensare a partire dal quotidiano. Se oggi Oreste c’è io proprio non riesco a trovarlo se non in tanta rabbia accumulata e irrisolta, sparsa nel mondo in cui vivo […] piuttosto Oreste come Antigone, è una condizione, appunto il protagonista mancato di una tragedia mancata”. É una generazione indecisa, in attesa di un futuro che non arriva mai, la classe messa su dai suoi attori che si solidifica nei miti pro patria di un decennio animato da icone di massa come Giovanni Paolo II e Madonna. Un’opera pop, un Cuore musicale imbastito sui racconti di giovani cui viene chiesto di essere piccoli eroi quotidiani e dove il rischio non è commisurato allo sviluppo psicologico. Giovani di una generazione che sceglie di contraddire il padre senza le afflizioni di un pezzo di legno come Pinocchio, lontanamente o profondamente collodiano, usato come sberleffo, pungiglione, un feticcio di Franti.

Con Le braci invece Corradino torna al teatro solitario delle sue origini, stemperato nel duetto con l’attore tarantino Michele Cipriani. Tuttavia rimesta sotto cenere i carboni ardenti della stagione passata: il significato della tragedia nell’oggi, la gioventù come capro espiatorio, il teatro come atto eroico, il pubblico come coro sono motivi che si riattizzano nella spoglia e cupa scena del comunicato terroristico che è questo nuovo spettacolo. Un tappeto sonoro di mitragliate ed esplosioni funziona da involucro emotivo e ansiogeno per un consesso di pubblico inglobato nella finzione del finto (e non falso) attentato: un terrorismo disperato, per questo ancora più eroico, che rievoca nell’incipit la strage cecena al teatro moscovita Dubrovka nel corso del Boris Godunov.

I due terroristi “buoni” (Corradino e Cipriani) tessono per il pubblico un piccolo rituale apparentemente svuotato, fatto di domande di rito - “Qualcuno ha problemi cardiaci?...C’è qualche donna incinta?...Ci sono medici?” – di azioni collettive – “Prepariamoci. Preparatevi./Spegniamo i cellulari/facciamolo insieme” – di allusioni ambigue ad una sparizione, ad una fine solo evocata, una fine finta, momentanea, puntuale, che è poi la consunzione della performance assembleare stessa (“Siamo morti, Noi siamo morti/Tutti morti/Fra meno di un’ora questo vi sarà chiarissimo. Alla fine saremo tutti morti”). L’evento che stanno preparando, che il pubblico si attende, non arriverà mai, perché è realmente in atto; l’evento è nel suo darsi, nell’eseguirlo insieme qui e ora, con preparazione, senza improvvisazione, è lo schianto della relazione teatrale, come ci suggeriscono i due attori: “Ecco questa è una lezione/su come preparare un attentato, o meglio/la preparazione, la prova/di un attentato […] Siamo attori/E lavoriamo con cose finte […]./Tutto quello che qui adesso accade è vero, è reale, non è falso./Può essere finto ma non è falso. […]Noi abbiamo un copione, un piano/scritto fin nei minimi dettagli./Sappiamo tutto quello che dobbiamo fare/[…] Come sparirà fra meno d’un’ora tutto questo/Come portarvi dove vi stiamo portando/noi siamo il vostro terrore”. Poi si imbastisce un reale banchetto, dove un coniglio scuoiato a mo’ di agnello viene elevato a corpo sacrificale su una pira fittizia evocata dal solo sound crepitante che spegne il seriale turbinare di elicotteri militari.

È un terrore e un affanno fatto di niente quello messo a punto da Corradino che estende il testo-copione sul modello del comunicato terrorista ma lo riplasma sulla forma della predica scolastica e dell’oratoria latina con le due tirate “Monologo del Ci credete” e “Domani saremo eroi” nella voce rotta e partecipata di Michele Cipriani – fisico complementare alla silhouette allucinata di Corradino. C’è anche un concentrato di teatro elisabettiano, Shakespeare in particolare, dal prologo dell’Enrico V, al Sogno, al Re Lear, da cui estrae il prototipo del duetto riapprontando la diade Lear-Fool. Ma è nella testualità di Shakespeare che Corradino si insinua, riportando al grado zero la funzionalità di una scena non illusiva ma immaginativa come quella del gran Will. Shakespeare appunto funge da scheletro sotto la carne palpitante della scrittura, da sempre portante nel teatro di Roberto Corradino, dove ha trovato posto il Dante dei canti politici accanto a Peter Handke e Georg Büchner che daranno rispettivamente cuore e mente al secondo movimento di Le braci.

Ma sicuramente a far da padrino ad un siffatto teatro così abitato, così meditato e premeditato che quasi si depensa, è Carmelo Bene: Le braci insistono su motivi pienamente beniani, purgati da certa enfasi stilistica e dagli svolazzi barocchi di un attore che è ora funzione dell’azione. Riverbera la nozione di accadimento scenico ovvero il teatro come evento, l’azione come portato di verità e soprattutto l’attore-operatore che qui si avvera nell’attore-terrorista, colui che mette a rischio la propria vita per la causa e sacrifica quella dei suoi spettatori smuovendone gli umori, e non solo quelli, sulle ceneri della tragedia attica. Ma soprattutto, lavorando in seno alla logica del teatro nella società dello spettacolo, la spettacolarizzazione della tragedia contemporanea, dell’11 settembre, del teatro Dubrovka etc. – diventati pretesti scenici – la celebrità dell’ordinario, l’eroismo mediatico predicati da Wharol trovano in Le braci una radicalizzazione intimamente calata nella finzione, un risultato non fine a se stesso, non una formuletta provocatoria e irriverente, un trito concentrato di filosofismi da teatro concettuale di ultima generazione, bensì un serio pensamento sullo stato della rappresentazione, sui suoi cascami e sulla sua possibilità ancora oggi di accadere. Hinc et nunc.

 
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