Viaggio ai confini della visione
[Silvia Mei] Il Veneto è stato, nelle nostre ultime cronache, la scenografia di una vita teatrale, produttiva e organizzativa, molto feconda e partecipata. Procediamo in questo travelogue nostrano con l’ultima tratta, finale pirotecnico per la chiusura delle principali rassegne di teatro e danza.
Zaches Teatro è una rivelazione passata da ‘Anticorpi Explo’ (Giovane Danza d’Autore 09/10), vincitore della prima edizione del premio Prospettiva Danza Teatro - titolo del festival di respiro internazionale, orientato ai nuovi linguaggi coreutici, diretto da Laura Pulin a Padova dal 1998, all’interno del circuito Arteven (www.prospettivadanzateatro.it). In aderenza ai principi della rassegna, che esprime una visione globale dei fenomeni della scena oltre gli steccati disciplinari, ormai anacronistici per la nouvelle vague della scena italiana, Zaches Teatro (www.zachesteatro.it) porta avanti una ricerca capace di adeguarsi di volta in volta a nuovi soggetti. La compagnia, fondata tra le colline fiorentine nel 2006, nasce per l’appunto da una miscela di componenti linguistiche difformi (la danza contemporanea, il teatro di figura, sia d’ombre che di maschera, l’elaborazione di musica elettronica live) nelle figure di Luana Gramigna (responsabile dell’impianto registico, sonoro e della composizione coreografica) e Francesco Givone (artifex dei dispositivi scenici e degli accessori). I due spettacoli in programma (15 e 16 aprile) procedevano proprio lungo la sottile linea d’ombra che demarca uno stacco, una cesura tra più territori: non si tratta di opere patinate o semplicemente ben fatte, Zaches è un gruppo giovanissimo altamente promettente, capace di governare e istruire la scena con sicurezza e talento. Il fascino dell’idiozia e Mal bianco costruiscono le prime due tappe del progetto “Trilogia della visione”, che trova un perfetto manifesto nella prima creazione, ispirata alle pinturas negras di Goya. Il sottotesto è appunto costituito dalla serie pittorica del pittore della modernità, il quale dipinge come in negativo, cioè sull’impressione della luce, che qui, nella trasposizione scenica, diventa un taglio inciso dal corpo dei performer in dialogo tra loro. Gli arti umani si riducono a pezzi componibili, snodabili, autosignificanti nell’immaginario ossario che si sviluppa in crescendo fino allo zoomorfismo di una figura taurina, un’ombra su fondo bianco che intreccia movenze flamenche. Mal bianco è invece il corrispettivo positivo della prima parte, un’allucinazione del non colore dagli abbacinanti effetti. In una scena che profuma di talco, dalla grana polverosa, dall’aspetto sulfureo, si muovono figure imbiaccate, vagamente butoh, in un corpo a corpo di guerrieri incorniciati e filtrati dalla retina del dispositivo fisso della trilogia, approntato secondo una metafora filmica nel velario che fa da diaframma e da protezione, da barriera e filtro per i nostri sguardi, come una palpebra sui nostri occhi.
Sono invece gli occhiali, il collante drammaturgico che lega i tempi di un’altra trilogia costruita sul difetto visivo, indice di una diversità e insieme di un surplus umano. Si tratta della Trilogia degli occhiali di Emma Dante (regista e autrice) - composta da Acquasanta, Il castello della Zisa, Ballarini - passata a Venezia lo scorso 18 aprile col solo Acquasanta, in chiusura della stagione del Teatro Universitario di Santa Marta (www.emmadante.it/trilogiaocchiali.html). Il trittico si muove su diverse unità di misura scenica, dal monologo al trio impiegando per ciascuna lingue e inflessioni differenti, profondamente legate alla cultura e vita artistica della regista palermitana: il napoletano, il “siciliano” e il francese (e così anche le co-produzioni sono riferibili ai tre contesti linguistici: Sud Costa Occidentale, Teatro Stabile di Napoli, Théâtre du Rond Point-Paris). Acquasanta è un monologo – e qui la lingua è il napoletano di Carmine Maringola - che alterna una pluralità di voci e caratteri nell’isteria corporea di ‘o Spicchiato, figlio del mare, che con un bizzarro prodigio sputa schiuma salata. Il suo elemento primario è l’acqua, spruzzata a fontanella sulla platea, con non celato divertimento infantile, un liquido amniotico che rende fluido il suo agitarsi burattinesco (vagamente baracconesco) tra i caratteri marinari azionati da una istintualità e fisiologia meccanica contro-umana, non avara alla fine di sentimenti. Quelli appunto che uniscono in un sol corpo il mozzo - invecchiato sotto coperta, nelle violenze e soprusi dei compagni, o sognante sulla prua, ammorbato nell’immaginario romantico di un Titanic musicato in formato midi - alla sua nave, dalla quale teme un ingeneroso distacco. Ricorrono tutti gli stilemi della direzione attorica della Dante, che intreccia complessivamente una drammaturgia alquanto sfilacciata nei nodi che dovrebbero invece tenere saldi i tre “atti”, a partire dall’oggetto comune che li sottende, gli occhiali: l’organicità ributtante di corpi animati da nevrosi marionettistica giungono in Acquasanta ad un’iperbole scomposta e affettata che rende poco efficace l’azione di Maringola, potente e straordinariamente energico, che sembra quasi annaspare in quell’acqua da cui dovrebbe lasciarsi trasportare, quando non rincorre le battute sotto la spinta di quella costellazione di timer che lo sovrastano, letteralmente, e che come una bomba ad orologeria scattano quasi all’unisono. Il tempo è scaduto e alla fine il nostro attore ringrazia, esce dalla sua barchetta-giocattolo e chiede un’offerta, nel cestino posto a prua. Lo spettacolo, malgrado gli applausi, poco convinti, non è ancora finito e chi non ha capito che era tutto finto, alla seconda potenza, passa a versare il proprio obolo, persuaso da un bravo napoletano che ci ha fatti fessi a tutti quanti.
Riposa interamente sul corpo dello spettatore e sulle sue reazioni Edipo. Una Tragedia dei Sensi (per uno spettatore), del Teatro del Lemming, storico gruppo guidato dal regista e compositore Massimo Munaro con sede a Rovigo dal 1987 (www.teatrodellemming.com), che si è da sempre occupato di teatro a partecipazione, ovvero di una relazione teatrale dove il compito assegnato allo spettatore, quello di costruire lo spettacolo nel filtro della sua memoria emotiva, non è senza rischio e tantomeno passivo. Lo spettatore diventa partecipante, non semplice testimone (per quanto l’esercizio della testimonianza non sia meno impegnativo dell’esperienza fisica diretta) e vive col Lemming una stimolazione, di proustiana memoria, non meramente cerebrale: legata tanto all’elaborazione visiva dell’immagine scenica quanto alla sensorializzazione sinestetica del suo corpo. In genere, certe esperienze si sviluppano e si articolano lungo percorsi che riposano su sofisticate drammaturgie dove lo spettatore viene guidato da novelli Virgilio in un al di là che mette in crisi le normali coordinate di giudizio. Non è possibile comunicare convenzionalmente questa azione perché essa riposa sull’esperienza privata e soggettiva di ogni singolo spettatore che si è fatto fagocitare, letteralmente, dal buio di un caldo ventre materno. Edipo del Lemming non può essere raccontato, almeno non con pretese di oggettività e di verità, ma va piuttosto vissuto, cosa che auguriamo ai suoi mille (e più) spettatori per questa ripresa in occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia, a 15 anni dalla prima realizzazione, attraverso il progetto pedagogico-spettacolare denominato L’Edipo dei Mille (a Venezia dal 27 aprile all’8 maggio in diverse location della città). Possiamo però entrare nel merito del trattamento del mito e della versione che di questa rappresentazione collettiva ci viene offerta. Si tratta di far convergere nell’abusato mito del re di Tebe, un immaginario e un grappolo di storie che la struttura del mito calamita: il peccato originario nella fragranza odorosa della mela, transfert erotico di pulsioni inconsce; l’omicidio (del padre, del fratello, dei figli), nel pugnale che incide le mani dell’assassino con ferite indelebili; il desiderio di unioni promiscue e la relazione incestuosa con la madre; la derisione (cristica) e il rispecchiamento come (ri)scoperta di sé…Diverse tradizioni vanno a confluire nella storia greca, a partire dalla filiera giudaico-cristiana, per un percorso filogenetico e ontogenetico dell’uomo che il mito di Edipo, al centro di tanta risaputa psicoanalisi, raccoglie e conguaglia. Del resto, lo spettatore è il protagonista perchè diventa Edipo: bendato verrà trascinato dall’ineluttabile fato attraverso dolorose stazioni, le quali dall’esperienza della morte lo porteranno all’Enigma dello specchio, oggetto quantomeno polisemico, che potrebbe benissimo riportare l’epigrafe del tempio di Delfi : “Conosci te stesso”. Ancora più forza acquista il monito dell’oracolo quando il principale senso di orientamento e conoscenza del mondo viene meno: l’accecamento diventa allora un atto simbolico non solo rispetto ai contenuti specifici della vicenda di Edipo, ma un’operazione necessaria per l’attivazione di canali sensoriali del corpo, ottusi o addormentati. Forse che nella società dell’edonizzazione e della maniacale cura di sé, nel tempo dell’immagine e dello spettacolo, etimologicamente parlando, non siamo più in grado di vedere, non siamo più in grado di sentire?
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