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L’amarcord di Pippo Delbono.

Un’Opera mancata dedicata a Pina Bausch

[ Silvia Mei ] Pippo Delbono è geniale nel saper comporre da uno spettacolo all'altro un “dramma continuato” attingendo ai diversi linguaggi e supporti a sua disposizione: fuori, prima e dentro la scena. Dai suoi esordi cinematografici (un’attività, quella del cinema, che scorre oggi parallela a quella teatrale, sempre più presente nel suo universo espressivo), fino alla scrittura d’occasione - viepiù praticata, per riviste e testate engagées (pensiamo a “L’Humanité” o a “L’Unità”) -, Delbono ha costruito un suo spazio drammatico o un teatro dilatato: una scena cioè in esubero che ributta altrove il germe fecondato dalla materialità del teatro stesso.
Lo prova il suo ultimo recentissimo libro, Dopo la battaglia. Scritti poetico-politici (edito dalla defilata sigla fiorentina Barbès), a rimarcarne la dimensione scrittoria, intrisa di una buona dose di oralità. Delbono si conferma un comunicatore di grande forza emotiva e poetica, dove la permanenza testuale sussume la traccia orale in uno spazio della scrittura che è découpage e mnestica poetici, diario intimo e apostrofe violenta, mottetto e delirio, articolando un personale zibaldone che si fa sottotesto per la scena. Il volume raccoglie i pezzi giornalistici, spesso manifesti di poetica, emblemi del suo montaggio d’Arte, note di regia talvolta, composti tra il 2004 e il 2011 (l’ultimo brano, Io soffoco, è appunto un’impressione del nuovo spettacolo, che viaggia in parallelo al volume). Si tratta di un’antologia che aveva conosciuto una prima edizione parziale nel 2009 in Francia, seconda patria di Pippo Delbono e della sua Compagnia, per i tipi di Actes Sud, col titolo Regards; un libro d’arte, squisitamente fotografico, accompagnato da maquettes e appunti di Pippo per lo spettacolo del 2008, La menzogna.
Ci colpisce dell’edizione integrale italiana il formato, una copertina di un rosso assoluto, declinabile in tanti riflessi: il sangue delle terre di guerra, il colore simbolo della comunione dei popoli nel sogno dell’Internazionale, ma anche, soprattutto, il rosso della serie pasoliniana progettata da Garzanti, tanto da far scattare subito il parallelo con gli Scritti corsari del nostro ultimo vero intellettuale. E poi, sul retro, la mise-en-abîme di Mario Intruglio, attore storico della compagnia, che fissa in istantanea Delbono mentre fotografa a Bucarest il Palazzo di Ceaucescu, quasi che le spoglie di un tempo passato divenissero un souvenir turistico e, contemporaneamente, se ne registrasse l’immagine ancora sanguinante.
É una raccolta di cogente attualità, uno spaccato antropologico dell’Italia contemporanea oltre l’oggettività dei fatti, transeunti nell’infebbrata scrittura, aspirante a un “teatro in-forma-di-libro”, per usare la nota formula di Ferdinando Taviani, cui Pippo tende.


In questa direzione dobbiamo guardare la sua ultima creazione, Dopo la battaglia, appunto, spettacolo poligenetico, che nasce dietro differenti impulsi: l’opera lirica d’ispirazione verdiana, commissionata dal Teatro Bellini di Catania, nella ricorrenza dei 150 anni dell’Unità d’Italia; la composizione del libro; l’omaggio (doveroso) alla maestra (una della maestre di Pippo insieme a Iben Nagel Rasmussen dell'Odin Teatret) Pina Bausch, scomparsa il 30 giugno 2009 all'età di 69 anni.
Lo spettacolo emerge dapprima come un titolo e un’immagine - Delbono opera da tempo così - successivamente passa attraverso un collage di brani musicali, legati al vissuto d’arte di Pippo, per arrivare ad un album di figure, ricordi, video, tranches de vie (sociale, politica, privata) et de musique, deposte in parte nel libro omonimo, che di quello spettacolo si nutre e che a sua volta diventa pre-testo per la scena.
Si arriva a parlare di tante cose insieme, senza priorità tematiche o tesi: ci sono i tagli al Fus, che hanno costretto a reimpaginare l’opera spettacolare, con un Va’ pensiero senza coro, un Trovatore senza tenore, un corpo di ballo precipitato nella figura, tutt’altro che minuta e fragile, dell’intensa étoile Anne-Marie Gillot, elegantemente in tulle nero, ton sur ton, in un interno color fumo di Londra, che ricorda non troppo vagamente la sala, abitata da sedie espressive, del bauschiano Kontakthof e le sue tre porte. In questo monocromo scenario, il rosso, colore predominante insieme al bianco puro, diventa una macchia fauvista, una ferita, un simbolo: dal colore cardinalizio al fiore dei garofani (ricordate Nelken?). Nel setting dell’opera è stato ravvisato un riferimento al visionario ciclo grafico di Max Ernst, Una settimana di bontà: per le bizzarre creature e storie, evidentemente, che abitano il vuoto di un mondo antilogico, per cui una porta getta sull’ignoto del giudizio universale, nell’inquietudine del Processo kafkiano, e un guardiano in frak, dalla birichina silhouette tra Benigni e Charlot (ma è la macilenta figura di Nelson Lariccia), la custodisce sulla musica pinocchiesca di Fiorenzo Carpi, stemperando così l’angosciosa ma intrepida attesa della chiamata nell’aldilà. Tuttavia il richiamo iconografico più pertinente, nello stile quanto nei contenuti, è decisamente quello alle pinturas negras di Goya, ciclo della notte della storia e delle cavità dell’io, le cui pieghe oniriche diventano slabbrate piaghe. In questo scenario le ultime parole di Artaud, riscritte parzialmente da Delbono, acquistano il tono di una preghiera e di una profezia insieme, un grido lanciato da uno dei tanti barconi di sfollati africani che raggiungono quasi quotidianamente i nostri lidi. Sono immagini, queste, che scorrono vive sulla scena, costruita come una camera ottica, novità nel suo teatro d’attore: teatro-cinema, teatro che affaccia sul fuori, aggetta e sfonda la parete di fondo; scena-membrana che trasforma lo spazio in un corridoio attraversato dall’officiante peripatetico Delbono, in duetto, sulle musiche live, col noto compositore rumeno Alexander Balanescu, special guest quasi comprimario: un violinista di Chagall sui tetti di un mondo alla rovescia.
Ma in realtà, il vero divo è Bobò, alter ego di Delbono, in versione camaleontica: ora Padrino con cameriera al seguito nel tableau vivant d’apertura - un ritratto elegante e ripulito del mondo del Potere; poi maestro di danza alla Degas, sotto il cui severo sguardo e divertito bastone la diva dell’Opéra esegue un port-de-bras infinito; è poi una Marylin Monroe (ma il rimando più immediato è a certe troniste borgatare cui Bobò ha da insegnare molto in fatto di stile), biondona in bianco che sventola il tricolore sull’inno degli irredenti leghisti (il Va’ pensiero di Verdi). In questa scena c’è tutta l’Italia della Seconda Repubblica e delle sue spoglie, ragione per cui Dopo la battaglia parla anche di morte: il motivo struggente, carico di tristi presagi, guidato dall’oboe solista del Lago dei cigni di Čaikovskij, ci traghetta verso il fondo di un mare dove riposano corpi di cigni annegati: vittime innocenti dei barconi e figli del deserto essiccati al sole. Come un angelo salvifico appare Anna Pavlova, una sirena che danza Fokine nel cigno immortale di Saint-Saëns, pura immagine che canta il palpito della fine e l'abbandono all’oblio.
Se c’è un paradiso, alla fine, è quello riservato a Bobò, elegantemente in smoking, come un duca d’altri tempi, blandito da un gineceo di bianche ninfe (o cupídi dispettosi). Ancora una citazione da Bausch, ma con la leggerezza di chi sembrerebbe aver trovato la strada per la felicità.

 
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