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PER AUGUSTO OMOLU'

UNA LETTERA PER RICORDARE

di Julia Varley

 

 

 

 

Caro Augusto,

mi avevi detto che solo dopo aver completato la tua missione artistica avresti assunto la responsabilità di pãi de santo nella religione del candomblé di cui hai fatto parte sin dalla nascita. Quando l’età ti avrebbe impedito di danzare nei teatri, saresti tornato a vivere stabilmente in Brasile e avresti assunto il ruolo indicatoti prima di morire dal vecchio pãi de santo del tuo terreiro, la casa di cerimonia del candomblé del tuo quartiere a Salvador. Ci ho sempre creduto. E invece…
Vi sono dei momenti in cui mi arrabbio con te perché hai permesso che ti accadesse l’impensabile, quello che al ricevere la notizia non abbiamo voluto accettare e credere, quello che forse non è stato neanche coscientemente voluto da colui o coloro che hanno usato il coltello contro di te. Così, da un giorno all’altro, possiamo solo parlarti attraverso i nostri molti ricordi disordinati. Qualcuno raccoglierà la tua eredità? Qualcuno sarà capace di far fiorire l’essenza del tuo lavoro, del tuo rigore gioioso, della tua danza, del tuo axé? Qualcuno esprimerà in scena la stessa voglia di vivere e di dare che ti bruciava negli occhi? Qualcuno si prenderà cura di tutti i bambini e dei giovani che ti avevano scelto come maestro?
La tua esperienza era scritta nel corpo. Sapevi parlare e spiegare bene, ma non scrivevi parole sulla carta. In teatro hai lavorato come attore, come danzatore classico e moderno hai firmato molte coreografie, a Salvador e nel mondo insegnavi la danza degli orixás, le divinità manifestazioni delle forze della natura. Una delle tue ambizioni era valorizzare la tua cultura afro-brasiliana. Come potevi fondare una tradizione che fosse al tempo stesso nuova e antica e che durasse nel tempo oltre la tua tecnica incorporata? Avresti dovuto trasmettere l’interezza di te stesso e della tua conoscenza: quella intrisa nella tua postura nobile, nella tua pelle così nera, nel tuo sorriso generoso e a volte spietato, nei tuoi capelli intrecciati o corti che nelle giravolte spruzzavano lontano perché li bagnavi prima di andare in scena, nei movimenti sinuosi delle tue spalle nude, nel ritmo sapiente dei tuoi piedi, nella memoria ereditata dai tuoi antenati arrivati in catene in Brasile dalle diverse nazioni africane, ognuna con la sua dignità di ritmi, canti, lingue e danze.

Quando sei nato, la tua madrina è stata posseduta da Omolú, l’orixá che si prende cura dei cimiteri e dei morti, ricoperto di un vestito di paglia che gli nasconde anche il viso. Ci siamo ispirati a questo costume per il personaggio di Guga, con cui partecipavi agli spettacoli di strada dell’Odin Teatret. Guga portava una maschera scolpita nel cuoio da Fabio Butera e tu stesso lo battezzasti col nomignolo con cui ti chiamavano i tuoi amici. Quando mi spiegavi che il mio orixá era Iemanjá, la dea del mare, la madre, dicevi che il tuo era metá Ogun e metà Oxalá, metà guerriero e metà vecchio saggio. Questo per chiarire che Omolú era solamente il tuo nome artistico, che ti era rimasto da quando danzavi quell’orixá agli inizi della tua carriera negli spettacoli folclorici a Bahia. Mostravi le parti malate del corpo, indicavi le orecchie, gli occhi, la bocca, le mani, e poi un fremito percorreva le tue braccia che si alzavano dietro la schiena mentre ti inginocchiavi, piegandoti in avanti per battere i pugni per terra prima di saltare verso l’alto. Quante volte ho visto questa successione di azioni quando Otello ammazzava Desdemona nel tuo spettacolo Orô de Otelo. Nel pantheon degli orixás, il ritmo di Omolú era quello che mi sembrava più semplice, con la sua ripetizione che gradualmente aumentava di velocità.
Avevi molti fratelli e sorelle di padri differenti. Tua madre era il centro della famiglia. Eri molto legato a lei, e pensando a lei ti sei commosso durante un evento della Festuge, la settimana festiva di Holstebro. Avevamo visitato il cimitero con il gruppo di Ageless, gli attori del seminario che guidavamo insieme a Deborah Hunt che creava grandi mascheroni con i partecipanti. Avevamo avuto il permesso di entrare nel cimitero con una sola maschera durante uno degli spettacoli serali. L’attrice ha depositato un fiore su una tomba e poi ha lasciato volar via un pallone bianco. Fuori noi tutti aspettavamo in silenzio. Sotto le maschere alcuni piangevano. Tu eri in disparte, anche tu muto. Tua madre era morta di recente. L’avevamo visitata un giorno con l’Odin Teatret e tu ce l’avevi presentata con orgoglio.
Eri anche fiero di accoglierci nell’angolo bar nella stanza al terzo piano di una tua casa dove non abitavi. Nell’aeroporto di Roma comprasti per quel bar dei bicchieri colorati di vetro di Murano che mi sembravano il massimo del kitsch e che tu trovavi meravigliosi. Portavi sempre regali dall’estero e ti occupavi delle case per la famiglia, dei tuoi figli, ma anche cognate, nuore, cugini, zii, padrini, madrine, nipoti, vicini. Eri giovane quando hai avuto il tuo primo figlio Gustavo che aveva studiato computer e ti aveva già fatto diventare nonno due volte. La tua seconda figlia Luana viveva a Jericoacoara, il paradiso turistico a sud di Fortaleza, con Andrea, la madre argentina di cui eri perdutamente innamorato quando arrivasti la prima volta all’Odin Teatret. Il tuo salario andava in fumo in telefonate. La piccola Alina invece viveva a Parigi con Lisa Ginzburg, la tua ultima moglie. L’avevi vista quaranta giorni prima di morire. Ti piaceva giocare con lei. Ci mostravi la sua fotografia: Alina ha la tua carnagione scura e per strada è difficile credere che la snella italiana dalla pelle d’avorio sia sua madre. Attorno a te, oltre alla famiglia, si è creata una vasta cerchia di allievi, alcuni latinoamericani, molti italiani, altri dal resto del mondo. Ti dispiaceva che fossero pochi i brasiliani.
Era il 13 gennaio 1993 quando ti abbiamo conosciuto. Eugenio Barba ed io viaggiavamo in Brasile per preparare la sessione dell’ISTA (International School of Theatre Anthropology) che si sarebbe realizzata in agosto del 1994. Nitis Jacon, la direttrice del FILO (Festival Internazionale di Londrina) voleva assolutamente che una tradizione brasiliana fosse presente accanto a quelle che venivano dal Giappone, dall’India, da Bali e dall’Europa. Noi avevamo dei dubbi che si potesse trovare tra le manifestazioni spettacolari popolari del Brasile una forma strutturata e ripetibile paragonabile alle forme codificate asiatiche. Eravamo scettici sulla possibilità di trovare un esponente di una simile tradizione in grado di spiegare a parole e dimostrare tecnicamente a freddo i diversi strati del suo sapere incorporato che nella pratica artistica è un’unità, separando la forma dal suo contesto rituale o festivo.
Avevamo visto Bumba meu boi a Brasilia, São Luis e a Fortaleza. A Salvador, accompagnati dal regista amico Paulo Dourado, abbiamo seguito prove e corsi di vari danzatori di tecnica afro-brasiliana e molte cerimonie di candomblé e caboclo. Una mattina presto Paulo ci accompagnò in una grande sala dove una settantina di danzatori sudavano al ritmo incalzante dei tamburi. Li introducevi alle danze dei diversi orixás. Hai mostrato Oxossi, il cacciatore, con il doppio passo saltellante, la frustata del cavaliere, il dito medio come la freccia che prende la mira, la corda stretta attorno alla presa, il corpo forte e il viso dall’espressione vittoriosa. Poi sei passato a Oxum, la dea dell’acqua dolce, della vanità, dell’amore, della bellezza, che si guarda allo specchio, si pettina i lunghi capelli e si adorna con gioielli. Subitamente la tua espressione da decisa, mascolina, vigorosa è diventata dolce, femminile, seducente. Non eri effeminato, né artificiale. Eri invaso da un’energia inspiegabile che ti aveva trasformato totalmente davanti ai nostri occhi. Eugenio ed io ci guardammo. Sapevamo cosa stavamo pensando tutt’e due: solo vedendo ballare Sanjukta Panigrahi, l’indimenticabile danzatrice indiana di Odissi, fondatrice anche lei dell’ISTA, avevamo visto una trasformazione simile. Fu un colpo di fulmine. Simile a quello che coglieva nel segno molti dei tuoi allievi.
Paulo Dourado ci presentò alla fine della lezione al tavolino del bar in cui ti riunivi per bere birra con studenti, amici e musicisti. Era vicino al Teatro Castro Alves dove lavoravi nella compagnia di danza contemporanea come primo ballerino. Geladinha è una parola che mi viene in mente quando penso al Brasile: la birra deve essere gelata, e se non lo è, se ne ordina un’altra. C’erano molte bottiglie e bicchieri sul tavolino. Paulo cercò di spiegarti chi eravamo. Molte volte nelle dimostrazioni dell’Odin Teatret hai poi raccontato che pensavi di essere di fronte a turisti curiosi che avrebbero presto perso interesse nella tua danza. Fra una birra e l’altra riuscimmo a convincerti a portarci al tuo terreiro.
Allora ancora non parlavamo portoghese ma spagnolo, e Paulo traduceva. Sei tu che ci hai obbligato a imparare il portoghese, l’unica lingua che conoscevi. Anni dopo, Eugenio ti disse che per rimanere all’Odin Teatret, se non il danese, almeno l’inglese era obbligatorio. Lilicherie McGregor, che era assistente alle prove di Il sogno di Andersen, cercò di insegnartelo con infinita pazienza: one, chwo, three… (chissà perché in Brasile la t diventa c…) Arrivasti a contare fino a otto, i tempi che erano necessari per far capire il ritmo della danza che insegnavi. Poi, quando ti sei sposato con Lisa Ginzburg e hai vissuto a Roma un periodo, le parole italiane che ti piacevano hanno cominciato a infilarsi nei tuoi discorsi. Anche se la tua grande intelligenza si rivelava nel linguaggio del corpo, hai sempre avuto qualche smania intellettuale, come, in fondo, molti attori dell’Odin.
Quel giorno al terreiro abbiamo parlato di energia, sull’axé, movimenti codificati e improvvisati, danza, teatro, rituale e religione. Ci hai mostrato le pietre che i devoti del candomblé piantano nei vasi per marcare la loro iniziazione al culto. Questi sassi sono come semi e crescono, ci hai spiegato. Ci hai indicato le offerte, le casette dei vari orixás con i loro oggetti, la cucina, i dipinti sui muri, le sedie che appartenevano alla mãe de santo e all’ogan, l’assistente delle cerimonie, i tamburi cerimoniali protetti da un panno bianco. Anche tu eri un ogan e, come i suonatori di tamburo, non cadevi in trance come gli altri devoti. Hai accennato al fondamento, agli elementi sacri del candomblé, che non dovevano essere comunicati all’esterno e che non potevano far parte di un’espressione artistica sconnessa dal rituale. Nella religione c’era una parte segreta con una disciplina rigorosa che esige isolamento dal mondo esterno e una parte pubblica. Chiamavi “festa” la cerimonia aperta che avveniva con danze, musica e il cibo condiviso con tutti i presenti, anche i non adepti. Gli orixás scendevano durante le danze e “cavalcavano” i loro fedeli.
Verso la fine della visita al terreiro ci siamo seduti su delle sedie di plastica bianche. Eugenio ti ha chiesto se eri capace di danzare seduto. Hai annuito sorridendo. Ci ha chiesto di improvvisare un dialogo tra energie forti e soavi: tu utilizzando le danze degli orixás, ovvero una codificazione che ti era stata passata da una tradizione, e io la mia codificazione personale di attrice dell’Odin Teatret, ovvero elementi che avevo inventato io stessa. Non avevamo mai fatto qualcosa di simile assieme prima, ma non fu difficile. Anche se non avevo ancora idea di cosa significassero i tuoi movimenti e tu non sapevi interpretare le mie azioni, avevamo una lingua in comune. La nostra energia modellava forme precise che, alternandosi, si fondevano e si respingevano ritmicamente. Sembravano dirci qualcosa. Paulo si mise a ridere allegramente: gli piaceva osservare attori al lavoro, commentò. Quel pomeriggio Eugenio decise di farti partecipare alla sessione dell’ISTA. Non ti era chiaro cosa fosse l’ISTA e l’antropologia teatrale. Accettasti e fu l’inizio di un lungo processo di mutuo apprendimento.
Alla tua morte Francesca Romana Rietti, la studiosa che lavora negli OTA, gli archivi dell’Odin Teatret, scrisse ad Eugenio:

 


From: francesca
Sent: 3. juni 2013 22:30
To: gegge
Subject: Re: No Subject

Caro Eugenio,
Ieri ho provato mille volte a rispondervi via email, ma non ci sono riuscita, l'email tornava sempre indietro. Così stasera scrivo solo a te per dirti che questa partenza di Augusto mi ha lasciato gelata sulla sedia, attonita, incredula per un dolore insensato e una morte priva di grazia e dignità. Poi davanti agli occhi della mia anima sono passate una dietro l'altra tante immagini di tanti anni con Augusto, da quelli dell'università fino alle ultime chiacchierate sempre belle che ci facevamo quando tornava al Nord, con la promessa - oggi mancata - di andarlo a trovare nella sua Bahia. E una delle immagini più belle, una delle molte di cui gli sarò grata per sempre è stata quella legata alla gioia danzante dei tuoi occhi mentre lo guardavi lavorare e danzare. Poi il motore innescato da quella gioia dagli occhi ti scivolava via lungo la spina dorsale, saltavi in piedi dalla tua sedia e con lui iniziavi un dialogo bellissimo perché lui ti seguiva, dava forma alla danza dei tuoi pensieri. Eravate così belli insieme. Voglio ricordare Augusto così. Voglio ricordarlo per la gioia che ha dispensato.
Ti abbraccio. Francesca


Quando Eugenio ha mandato la lettera di Francesca per condividerla con noi tutti dell’Odin, mi ha commentato: “È vero, era proprio così”.

 

Sei morto quando all’Odin Teatret eravamo in pieno festival di Transit. In quei giorni frenetici non avevamo tempo per abbandonarci alla tristezza, non sarebbe stato giusto nei confronti dei nostri ospiti. Ho potuto solo dedicarti il mio discorso di apertura al festival, in cui ho parlato anche della violenza che ci circonda, quella che si abbatte in particolare contro le donne, ma non solo.
Eugenio mi ha confidato che ti considerava nostro figlio, perché ti abbiamo cresciuto insieme. Per me, invece, eri un fratello. Di quelli con cui condividi molta storia, che ami e che a volte ti fanno schiattare di rabbia, come quando arrivasti cinque minuti prima della chiusura all’ambasciata jugoslava per ricevere il visto che eravamo riusciti a farti emettere d’urgenza mentre ti aspettavamo al Festival Bitef a Belgrado con Il sogno di Andersen e tu non avevi neanche 10 euro in tasca per pagarlo; oppure quando, senza avvisarci, arrivasti con due giorni di ritardo alla tournée di tre settimane al Teatro Reale di Copenaghen.
C’era molto da fare per immetterti nell’ISTA a pari livello con gli altri maestri. Tutti loro erano stati preparati da Eugenio con lunghi periodi di osservazione e collaborazione, avevano appreso a fare dimostrazioni e soprattutto si presentavano con uno spettacolo della loro tradizione. Era importante che i partecipanti dell’ISTA dimenticassero le ore passate a scandagliare e paragonare terminologie e dettagli tecnici di fronte alla forza persuasiva e alla maestosa suggestività di uno spettacolo. Tu non avevi né dimostrazione né spettacolo. Dovevi assolutamente crearli per partecipare all’ISTA come rappresentante della tradizione delle danze degli orixás. Ci mostrasti varie parti delle coreografie che conoscevi come ballerino e una sequenza di danze degli orixás. Sembrava che avessi diverse identità che dipendevano dalla musica che ti accompagnava. Osservandoti cominciai a imparare il nome delle danze di ogni orixá. Questa conoscenza si rivelò fondamentale per assistere Eugenio Barba al momento di montare lo spettacolo Orô de Otelo, Cerimonia per Otello. Non avevi mai pensato agli orixás come personaggi che potessero instaurare un dialogo fra loro.
Pierre Verger aveva raccolto molte testimonianze, fotografie e disegni dal mondo del candomblé. Sfogliavamo il suo libro alla ricerca di ispirazione per il nostro lavoro con te. Ti chiedemmo delle storie. Ce ne raccontasti una di Iansá. Aveva due uomini: Xangô, il marito, e Ogun, l’amante. Erano gelosi l’uno dell’altro. Questa storia fu il primo passo verso il tuo spettacolo: una scena di seduzione, incontro amoroso e scontro violento. Ci volle tempo. Una cosa era farti passare da un orixá all’altro senza interruzione, un’altra era convincere i musicisti che ti accompagnavano a fare lo stesso. La difficoltà più grande però era passarti l’esperienza che non basta eseguire una successione di elementi diversi per creare l’effetto di una loro relazione.
Ti invitammo a Holstebro a lavorare con Sanjukta Panigrahi e i suoi musicisti. Era un’occasione per scoprire le possibilità del tuo sapere grazie a un’altra tradizione. Lei non parlava portoghese, tu non parlavi inglese. Eugenio vi lasciò da soli nella sala nera con il compito di creare una scena assieme. L’unico modo di comunicare era attraverso un linguaggio scenico. Sanjukta cominciò a improvvisare, passando dalla rappresentazione di un elefante a un pavone, da Rhada a Krishna, da un serpente a un demone. L’hai seguita rispondendo alle sue trasformazioni con le tue: da Oxumaré a Naná, da Iamanjá a Ossain, da Iansá a Ogun… Per marcare il cambiamento, lei usava una giravolta. Trovammo assieme lo stratagemma che tu avresti potuto usare un procedimento simile con un baixavento, la leggera perdita di equilibrio con una caduta all’indietro che segna la presa di possesso del devoto da parte di un orixá. Quando cambiavi orixá era come se il baixavento trasfondesse una nuova energia nel tuo corpo.
Eravamo preoccupati che la familiarità di lavoro che avevi con Sanjukta avrebbe creato dei problemi. La toccavi e la prendevi fra le tue braccia seguendo le abitudini brasiliane e le convenzioni della danza occidentale. Questo comportamento era tabú nella danza tradizionale indiana, specialmente per una bramina come Sanjukta. Lei ci tranquillizzò con un sorriso malizioso. Sembrava che in fondo le piacesse la tua irriverenza affettuosa. I suoi musicisti trovavano le tue danze poco raffinate e le paragonavano a quelle indigene o popolari. Dopo pochi giorni li conquistasti con la forza della tua danza. Avevi la sicurezza di sé e l’allegria che permette ai brasiliani di usare parole come negro e popolo senza inibizione, e di chiamare i presidenti della repubblica con il nome invece del cognome.
In quella settimana a Holstebro hai lavorato anche con gli attori dell’Odin Teatret. Eravamo nella nostra sala bianca. Oxalá, il vecchio, con la schiena sempre più piegata con l’andare dell’età, ci distrusse le gambe. Nonostante ciò, ti facevi voler bene. Anche con gli alunni è sempre stato così: più li mettevi alla prova, più sudavano e arrancavano, e più erano disposti a qualsiasi cosa per seguirti e starti vicino. A Holstebro hai fatto anche la tua prima dimostrazione. Ti avevamo chiesto di presentare tutte le danze che conoscevi e raccontare la tua autobiografia artistica. Hai preso d’assalto i nostri magazzini per confezionarti i costumi dei diversi orixás. Ancora non avevi fiducia nell’efficacia dell’azione nuda e volevi impressionarci. Ti sentimmo parlare dei tuoi primi maestri: Mestre King del Balletto Folklorico negli anni ‘70, e Emília Biancardi che dirigeva il gruppo Viva Bahia.
I tuoi occhi hanno dovuto imparare a creare quello che non c’è. Creare una relazione attraverso lo sguardo è una tecnica evidente per un attore, ma non per un danzatore che si concentra sul disegno dei propri movimenti e non sull’immagine da produrre nella testa di uno spettatore. Quando lavoravamo alla scena fra Iansá e Ogun e Xangô, mi spostavo nello spazio per farti vedere con chiarezza dove era Iansá quando danzavi Ogun o Xangó, e dove erano Ogun e Xangô quando danzavi Iansá. L’hai capito con il corpo pensando alla distribuzione nello spazio: Ogun guardava da lontano e poi correva per separare l’altra coppia; poi eri Iansá a destra che sollevava le sue gonne al vento verso Xangó e quando diventavi Xangó scivolavi al lato opposto tenendo i pugni chiusi.
Poi hai imparato a proiettare e fissare il tuo sguardo nello spazio per indicare come Iansá, mentre ballava, invitava Xangô, lo seduceva, lo portava verso di sé e lo respingeva. Ogun, danzando sul posto, spiava Iansá e Xangô che danzavano assieme con uno sguardo dal basso come un animale pronto a combattere. Il tuo Ogun teneva la spada e lo scudo, mostrando prima il palmo e poi il dorso della mano in rapida successione. Il tuo Xangô si impigliava nelle gonne di Iansá non solo con un movimento avanti-indietro delle braccia, ma anche con gli occhi che tentavano di dominare la natura selvaggia e tempestosa della donna che aveva di fronte.
Non ricordo esattamente quando Eugenio decise di lavorare con te sulla storia di Otello. Forse fu la gelosia fra Ogun e Xangô che gli suggerì questo tema. Come regista Eugenio aveva bisogno di un punto di partenza personale. Se tu usavi componenti della tua cultura - la danza degli orixás - lui cercò di incontrarsi a metà strada con te con il bagaglio della propria cultura: le arie dell’opera suonate dalle bande nelle piazze dei paesi dell’Italia del sud per le feste del Santo patrono. Otello, un negro, era un personaggio che ti calzava a pennello e che il pubblico dell’intero pianeta riconosceva.
Abbiamo ripreso a lavorare assieme a Salvador, nella tua Bahia, su quello che sarebbe diventato lo spettacolo Orô de Otelo. Eri da solo in scena a raccontare danzando la storia di Otello, accompagnato dal ritmo dei tamburi di tre musicisti intramezzati da frammenti registrati dell’opera di Verdi. Eugenio era il regista ed io il suo assistente alla regia. Sarebbe più giusto chiamarmi assistente al danzatore, oppur più semplicemente traduttore delle intenzioni del regista che spesso non sono facili da intendere neanche per i suoi attori.
Lo spettacolo è stato presentato per la prima volta all’ISTA di Londrina nel 1994 e l’ultima volta a Holstebro durante l’Odin Week Festival nel 2012. Lo hai mostrato in tournée in molti paesi. Per renderti più indipendente e facilitarne la diffusione abbiamo registrato la musica per una versione dello spettacolo completamente da solo. Ma ogni volta che era possibile ti accompagnavano i tre musicisti. Come dimenticare la volta che a Firenze, disobbedendo allegramente alle mie indicazioni, siete tornati sul palco tutti e quattro alzando le braccia assieme come dei calciatori vittoriosi per prendere gli applausi di 400 spettatori entusiasti? O lo spettacolo nella chiesa sconsacrata di Montemor-o-novo con un enorme crocefisso che sovrastava la scena?
A Salvador le prove erano state difficili. Non capivi cosa Eugenio ti chiedesse e lui non conosceva a sufficienza quello che potevi offrire. Eugenio non comprendeva il portoghese e non sempre il suo spagnolo era chiaro per te e i musicisti. L’idea di partenza era uno spettacolo costruito interamente da danze degli orixás: le loro manifestazioni, con le inerenti modulazioni di tensioni e qualità di energia, avrebbero espresso le passioni di Otello, Iago e Desdemona. Per noi era importante salvaguardare la logica della tua tradizione, senza ingerenze di danza contemporanea o di elementi di teatro estranei alla tua pratica. Ripetevo spesso: non fare quello che Eugenio ti chiede, ma quello che vuole vedere. Ti mancava l’esperienza che noi attori dell’Odin Teatret abbiamo nel seguire la nostra strada, indovinando la direzione da prendere dai compiti dati dal regista che non anticipa il risultato. Negli ultimi tempi raccontavi con umorismo i tuoi malintesi durante queste prime prove.
Tutti i maestri dell’ISTA conoscevano il procedimento che all’Odin Teatret chiamiamo di “riduzione”, ovvero di come un’azione può essere eseguita mostrandone solo gli impulsi. Era il modo più evidente di cancellare l’estetica legata alla forma del genere spettacolare, e sottolineare l’essenza delle tensioni che danno vita all’azione. La forma esteriore è compressa in modo da non irrompere per intero nello spazio, e allo stesso tempo le tensioni muscolari, con le loro opposizioni, resistenze, direzioni e segni trattenuti, sono mantenuti o potenziati.
Nella prima scena dello spettacolo, accompagnato dal dialogo d’amore fra Otello e Desdemona dell’opera di Verdi, entravi elegantemente vestito di bianco. Eri immerso nella lettura di un libro: Othelo di Shakespeare. Gli spettatori vedevano una semplice camminata, con alcune interruzioni e cambiamenti di direzione. Sembrava che la lettura scuotesse qualcosa dentro di te, che reagissi alle parole scritte con pause di riflessione, e sguardi che si perdevano nel vuoto e ritornavano rapidi alle parole scritte. Invece quello che sottostava e decideva della dinamica dei tuoi passi e di ogni minimo cambiamento dinamico era la sequenza di Ogun, in cui affilavi le spade con passi decisi verso destra e poi verso sinistra. La riduzione della forma obbligava a concentrarti sul fare, evitando così di recitare.
Nel passaggio dalla danza al teatro la tua prima tentazione fu di interpretare emozioni e rappresentarle con il viso. Perdevi la tua forza così espressiva nelle danze degli orixás le cui radici erano l’agire, e cominciavi a ostentare immaginari stati d’animo. Pensavi che quando Eugenio ti chiedeva più dolcezza tu dovessi ostentarla. Anche la musica classica ti faceva perdere radici, il senso del peso nel corpo e il contatto con la terra che ritrovavi immediatamente quando il ritmo dei tamburi ti riportavano alla tua danza degli orixás. Anni dopo, nelle dimostrazioni in cui spiegavamo insieme il processo di creazione dello spettacolo, eri capace di mostrare subito la differenza nel modo di camminare di cui in quei primi giorni ti aiutavo ad essere consapevole: con la musica di Verdi tendevi la caviglia e toccavi il suolo con la punta del piede come un ballerino classico, con i ritmi del candomblé appoggiavi tutta la pianta; con la musica dell’opera ti elevavi e il tuo baricentro si spostava nel petto, con i ritmi del candomblé la tua base era nel bacino e fermamente abbarbicata alla terra. Non cambiava solo la tua forza o la tua leggerezza, era come se cambiasse la cultura e l’espressività del tuo corpo. Per usare il nostro linguaggio di lavoro: risultavi più organico quando danzavi gli orixás. Con l’aiuto dei tamburi e diventando cosciente di come il tuo corpo reagiva automaticamente alla musica riuscimmo piano piano a farti rimanere radicato anche quando ti accompagnava la musica di Verdi.
La riduzione è stata utile anche per altre scene: ti toglievi la giacca, la camicia e le scarpe con la sequenza di azioni che indicavano la scrittura delle leggi di Xangô; gli attacchi da serpente di Oxumaré esprimevano la rabbia e la sfida a Dio di Iago; con le braccia alzate di Naná invocavi i ricordi dell’ancella di Desdemona; la stretta di mano di Omolú ti serviva per far cadere il fazzoletto che raccoglievi con il movimento del luccichio del pesce nel mare di Iemanjá. Ma per la scena in cui Desdemona si prepara ad andare a letto e, ignara, aspetta Otello avevamo bisogno di più variazioni e sfumature. Per la prima volta, nella sala prove del balletto del Teatro Castro Alves, hai fatto un’improvvisazione ispirandoti a Oxum. Non dovevi attenerti alle forme conosciute, ma inventare posizioni, andature, modi di inginocchiarti, sdraiarti, correre sempre con la stessa qualità di energia. In seguito questo processo l’hai ripetuto molte volte nei tuoi seminari. Spiegavi che non importava tanto che gli alunni ripetessero le forme che tu avevi mostrato quanto che sentissero il piacere di bagnarsi con l’acqua, la sensualità, la morbidezza, il desiderio di abbellirsi e di sedurre.
Pioveva ogni giorno a Salvador, e le prove duravano dalla mattina presto a sera tardi. Nonostante i tuoi sforzi, Eugenio era insoddisfatto. Sentiva che non riusciva a guidarti verso la porta aldilà della quale il mondo cambia. Diventò impaziente e irritabile. Quando dovette partire decise che io sarei rimasta a Salvador a lavorare con te. Per finanziare la prolungazione del mio soggiorno davo un seminario al pomeriggio e due alla sera al Teatro Castro Alves. Provavo con te il mattino. Spesso eri in ritardo, un paio di volte non sei apparso. Era luglio e la pioggia si ostinava a cadere monotona. Gli abitanti di Salvador non usano ombrelli, perché la pioggia è calda. Aspettavo. Era il periodo delle mie vacanze estive. Impazzavano i mondiali di calcio e il Brasile era in finale. Disciplina e concentrazione non erano all’odine del giorno. Stavo per rinunciare, ma mi hai convinto a non cedere. Non capivo cosa pensavi, se il lavoro ti interessasse, quali fossero le tue intenzioni.
Una volta in sala lavoravamo bene assieme e facevamo progressi. I manierismi da ballerino cominciavano a sparire. Conoscendo meglio le possibili variazioni dei diversi orixás, ero in grado di aiutarti ad arricchire di dettagli la tua partitura mentre tu ti facevi portare dalla musica. Un giorno lavorammo anche sulla voce e sulle diverse sonorità che appartengono agli orixás. Presa dall’entusiasmo, immaginavo che così come Sanjukta Panigrahi aveva rifondato la danza classica dell’Odissi in India, anche tu avresti potuto codificare in un vasto vocabolario i movimenti delle mani, degli occhi, dei piedi e anche le voci per ogni orixá.  Avresti completato le danze con un’infinità di dettagli per raggiungere una ricchezza di espressione simile ad altri generi spettacolari. Ma forse era più importante attrarre i bambini che vivono per strada con il suono dei tamburi e farli danzare per dare loro un senso di appartenenza, come hai fatto con il tuo Ilé de Omolú, la scuola che riuscivi a farti finanziare da un’amica che viveva a São Paulo e da altri che credevano nel tuo progetto.
Lavorammo a lungo sul dialogo in cui Otello accusa Desdemona di tradimento. Ti sembrava impossibile seguire lo scambio veloce di battute cantate nell’opera da Luciano Pavarotti e Tiri Te Kanawa con l’alternanza di orixás maschili e femminili. Bloccavo in continuazione la musica che dettava il ritmo mettendo in pausa il piccolo registratore che usavamo nella sala prove del balletto del Teatro Castro Alves. Avevamo fissato ogni reazione, ma avevi bisogno di tempo per incorporare e ricordare senza esitare. Appena ti distraevi un secondo, la musica continuava imperterrita e tu ti trovavi a fare un salto furioso di Ogun mentre sospirava Desdemona oppure a pettinarti con cura come Oxum mentre urlava Otello. Col tempo questa è diventata la scena più impressionante dello spettacolo e la presentavi anche nelle dimostrazioni di lavoro pubbliche.
Hai sempre avuto la tendenza a pensare che gli spettatori fossero più interessati a vederti danzare con musica classica che ascoltare i ritmi dei tamburi e vedere danze di orixás. Ridevamo assieme ogni volta che ricordavamo le piroette e i salti da ballerino con cui ti sei scatenato sul grande palco galleggiante nel lago di Holstebro durante una Festuge (settimana festiva) invece di presentare la danza di Ogun come era in programma; oppure pensando alle scene di coppia innamorata che facevi con Carolina Pizarro, sempre come ballerino classico, rincorrendovi fra gli alberi fino a sguazzare e rotolarvi nell’acqua melmosa dello stagno del parco di Holstebro durante l’ultima Festuge a cui hai partecipato nel 2011.
Lo xiré degli orixás in Orô de Otelo ti sfiniva, specie quando non avevi il sostegno dei tamburi, mentre prorompeva sempre l’energia necessaria per i due colpi di spada che segnavano l’uccisione di Desdemona, seguiti dal segno della croce di Omolú e la lenta discesa a terra con l’ultimo tremito delle mani. Nello xiré, cominciando da Ogun, presentavi tutti gli orixás, in più versioni e con i diversi ritmi Keto, Angola, e Jeje. Dopo l’uccisione di Desdemona ti rialzavi per l’avania, la chiusura della cerimonia del candomblé, in cui gli orixás salutano prima di ritirarsi. Dopo l’assordante ritmo dei tamburi, il silenzio era ritmato dal tuo respiro ansimante. Indietreggiavi adagio e raccoglievi con noncuranza il fatidico fazzoletto e i tuoi vestiti sparsi nello spazio, mentre i musicisti si univano a te per l’ultimo baixavento. Un rilassato sorriso collettivo marcava la fine dello spettacolo. Continuavano a bruciare le candele davanti ai tamburi, illuminando le foglie che, come Ossain, avevi strofinato su parti del tuo corpo prima di buttarle in aria per sparpagliarle sul pavimento dove avresti strisciato subito dopo come Oxumaré.
Nella scena di Iansá con Xangô e Ogun, i diversi ritmi dei tre orixás erano suonati con e senza bacchette. Questo aiutava anche gli spettatori a capire il cambiamento di personaggio. Il passaggio da un ritmo all’altro era velocissimo. Era difficile sincronizzare questo cambio durante le prove a Salvador con tre musicisti. Poi quando ti accompagnò in tournée un solo musicista, i passaggi sembravano impossibili. Ory Sacramento, Jorge Paim and Bira Monteiro sono stati i primi musicisti che ti hanno seguito o condotto, perché sono i tamburi a decidere la danza. Durante la sessione dell’ISTA in Portogallo, Ory ha dimostrato che un solo musicista poteva eseguire il lavoro di tre. Per non perdere il tempo nell’accompagnare i tuoi movimenti, metteva in bocca le bacchette, manteneva la base del ritmo sul tamburo più piccolo e marcava gli accenti su quello grande. Cantava, sussurrava, borbottava e faceva le smorfie più incredibili per la fatica e la concentrazione, ma si divertiva allo stesso tempo. L’anno dopo Ory è stato sostituito con la stessa bravura dal più giovane Cleber Conceção da Paixão, che fece innamorare tutte le ragazze balinesi dello spettacolo Ur-Hamlet per il suo entusiasmo e la sua disponibilità.
Per dieci anni eri stato uno dei maestri dello staff artistico alle sessioni dell’ISTA: a Londrina nel 1994, a Umeå nel 1995, a Copenaghen nel 1996, a Montemor-o-novo e Lisbona nel 1998, a Bielefeld nel 2000. Molte volte mi avevi chiesto come si poteva entrare nell’Odin Teatret. Eugenio aveva cercato in tutti i modi di scoraggiarti, ma tu eri sicuro: volevi crescere artisticamente e rimanere in un ambiente che te lo avrebbe permesso. Eri stanco di chiedere il permesso per lasciare il corpo di balletto ogni volta che dovevi viaggiare. L’ISTA ti aveva reso consapevole dei principi contenuti nella tua danza. Affermavi che prima non eri consapevole del valore della tua danza degli orixás, sebbene appartenessi completamente a quella cultura. Lo studio comparativo dell’ISTA ti aveva rivelato la logica dinamica dei tuoi passi e movimenti delle tue braccia, delle spalle, della testa, delle mani. Le danze degli orixás erano dettate da un perché: come un guerriero attacca e si difende con la spada; come il guaritore strappa le foglie dagli alberi, le macina e le beve; come il serpente attacca la sua preda; come le onde del mare bagnano la riva; come il vecchio tiene il bastone; come il legislatore scrive e mostra le leggi. Dei principi nascosti riempivano queste danze e le infondevano di axé, potere, vita.
“Come farai a sopravvivere nel freddo danese?” chiedeva Eugenio, “senza conoscere la lingua, senza amici, senza famiglia?” La diversa disciplina di un attore, la riservatezza della gente, l’isolamento in una piccola cittadina nordica... All’ISTA eri trattato con i riguardi di un maestro, entrando all’Odin Teatret avresti dovuto cominciare da capo, saresti diventato principiante con doveri e responsabilità. Ma tu insistevi.
Nell’inverno del 2002, al Festival di Portuguesa, in Venezuela, vi fu un incontro sull’influenza di Eugenio Barba in America Latina. Eugenio decise di presentare Orô de Otelo assieme al mio spettacolo Le farfalle di Doña Musica. Al ritorno dal Festival, tra le nuvole, volando insieme verso il Brasile, tu ed Eugenio bisbigliaste insieme durante l’intera notte. Il dado era stato gettato, avresti partecipato come attore al prossimo spettacolo dell’Odin. Sei arrivato in Danimarca all’inizio di gennaio del 2003. Dovevi affrontare il gelo dell’inverno, le prove, le esigenze di Eugenio, l’incomprensibilità e l’incomprensione di un nuovo paese. Quante volte ci siamo trovati a parlare del modo in cui sei stato accolto, dei problemi che hai avuto, della difficoltà a sentirti accettato?
Cominciavano le prove per lo spettacolo che sarebbe diventato Il sogno di Andersen. Uno dei temi era la rotta degli schiavi e le culture che erano sorte dalla diaspora africana. Eugenio ci aveva anche raccontato la storia di un negro che si crede il Salvatore, che viene ucciso dai vecchi di una casa di riposo, messo in una bara e che resuscita con una fiaccola in mano. La tua persona poteva adattarsi bene a questi temi. Ma la tua entrata nell’Odin Teatret era anche utile per dare uno scossone alle dinamiche di un gruppo consolidato: i nostri comportamenti automatici si dovevano adeguare alla tua diversa esperienza. Eugenio ci aveva lasciato soli a gennaio. Avevamo un mese a nostra disposizione: ognuno di noi doveva preparare un’ora di materiali e mettere in scena con gli altri attori una fiaba di Andersen a sua scelta. A febbraio avremmo ripreso le prove assieme.
Sei arrivato con qualche giorno di ritardo e nei turni di regia che avevamo estratto a sorte, toccava a te mettere in scena il racconto di Andersen. Scegliesti di mettere in scena diversi personaggi dalle fiabe che ti avevano affascinato. Rifacendoti alla tua esperienza di coreografo ci facesti eseguire un balletto: senz’altro un’esperienza nuova per noi! Poi, nella scena preparata da Kai Bredholt, per rappresentare la storia del soldatino di piombo e della ballerina che si getta nel fuoco, hai indossato un vero tutù ed hai ballato un pas-de-deux immaginario. Questa scena è rimasta nel montaggio finale di Il sogno di Andersen. La luce era bassa, leggermente colorata di azzurro. Sherhezade, una marionetta, ti spiava in un angolo seduta sulle mie ginocchia. Con le sue piccole mani seguivo gli impulsi delle tue piroette sulla neve finta e mentre sparivi nella fiammata finale. Portavi una maschera con il viso di Andersen che ti limitava la vista, ma riuscivi lo stesso a mantenere la leggerezza e l’equilibrio dei tuoi salti da ballerina. Quando Jan Ferlev è venuto a Salvador per portarti l’ultimo saluto da parte di tutti noi, ha depositato la maschera di Andersen nella tua bara. Così qualcosa di quello spettacolo che unì le nostre vite per dieci anni ti accompagnerà per sempre.
Nel Sogno di Andersen avevi un dialogo con Tage Larsen, il più chiaro e biondo di noi. Eravate gli opposti, come il cigno e il brutto anatroccolo della prima scena o come l’uomo e la sua ombra quando verso la fine l’ombra della fiaba di Andersen prende il potere e fa impiccare il suo padrone. Insieme a Tage, dondolandovi su un’altalena che spezzava lo spazio, ti divertivi a stuzzicare Roberta Carreri nella sua scena dello strip-tease; eri felice di prendere Iben Nagel Rasmussen fra le braccia e volare letteralmente con lei, di lasciarti manipolare come una marionetta da Torgeir Wethal nascosto da un cappuccio rosso alla Ku Klux Klan, e di cantare dolcemente una canzone brasiliana mentre attraversavi lo spazio in uniforme militare con il cadavere di una donna in abito da sposa in spalla. A metà spettacolo, in una scena collettiva, gli attori si ritrovavano in un grill-party. Mangiavamo salsicce, bevevamo birra e raccontavamo barzellette. Poi entravi tu vestito da soldato e tiravi fuori da un sacco un cane ringhioso. “Sono nato in Danimarca - dicevi - la Danimarca è la mia casa”. E noi, insieme agli spettatori, scoppiavamo in una risata. Il tuo accento danese era incredibile, eri veramente l’essenza dello straniero come in fondo lo siamo tutti noi dell’Odin Teatret.
Per questo partecipavamo con entusiasmo alle cene che organizzavi al teatro. Preparavi una moqueca de camarão e invitavi tutti. Ci sedevamo a tavola regolarmente con due o tre ore di ritardo, ma non ci lamentavamo perché riempivi il tempo con caipirinhas. Tenevi sempre la musica accesa mentre cucinavi: ti piaceva ballare il forró mentre aspettavi che l’acqua del riso bollisse. All’Odin Teatret hai portato una parte di Brasile anche fuori dal teatro dove lavoravi e abitavi. In pieno inverno andammo al fiordo di Struer per una cerimonia a Iemanjá. Eravamo tutti vestiti di bianco: invece dei vestiti di pizzo delle baiane, eravamo imbacuccati con maglioni, giacche a vento, cappotti, mutandoni sotto i pantaloni e stivali. Tu eri riuscito a trovare una tuta bianca imbottita e con questa addosso sei entrato nell’acqua ghiacciata del fiordo per disperdere i fiori e le candele che portavi nel cestino. Sulla spiaggia c’era la neve ed era vera, non come quella dello spettacolo.
Nel Sogno di Andersen avevamo dei dialoghi. In uno tu parlavi brasiliano, io inglese. Per trovare il testo che in realtà nessuno avrebbe capito tranne noi, abbiamo improvvisato un dialogo fra Otello e Desdemona e poi il racconto della principessa e il cane che vola dalla fiaba dell’accendino di Andersen. Le azioni erano estratte dalla scena che noi chiamavamo il nostro fondamento, la sequenza che abbiamo creato all’ISTA di Bielefeld nel 2000. Eugenio era impegnato a provare con Kanichi Hanayagi e Sae Nanaogi uno spettacolo in stile buyo giapponese, e ci chiese di lavorare assieme da soli per preparare una scena. Abbiamo preso spunto da alcuni libri di pittura, riproducendo le immagini con posizioni e azioni. Da un quadro di Botticelli abbiamo ricavato una serie di atteggiamenti che ripetevamo aiutandoci con una numerazione fino a sette; da Delacroix figure di cavalli e bandiere che sventolano. Usavamo questi titoli per ricordarci l’un l’altro la sequenza. Avanzavamo piano, per trasformare prima la posizione in azione e poi subito metterla in relazione fra noi. A volte ti ammassavo come il pane, altre volte tu mi facevi girare sulla tua schiena con la tecnica di un ballerino. Le forme erano decise dai quadri, ma il nostro era un dialogo di ritmi e impulsi.
Avevo la sensazione che nella nostra scena di fondamento i nostri corpi si univano per creare un Oxumaré, un orixà che mi ha sempre affascinato. Dicevi che era metà donna e metà uomo. Quando lo danzavi, ti trasformavi in serpente unendo le braccia sopra la testa, in questa posizione ti abbassavi fino a sdraiarti per terra aprendo e chiudendo il tuo corpo in modo che i piedi toccavano le mani a intervalli regolari. Nella danza di Oxumaré sporcavi sempre i pantaloni bianchi. Da umano, diventavi animale. Nella nostra scena riuscivamo a creare un essere solo, simile a un animale, uomo e donna assieme. Quando l’abbiamo presentata per la prima volta alle prove di Il sogno di Andersen, accompagnati dal violino di Frans Winther, ci eravamo vestiti e truccati metà nero e metà bianco. Tu avevi coperto di trucco bianco la metà del tuo viso, io di nero la metà del mio.
Il tuo colore ci faceva preoccupare quando viaggiavi: l’Europa di oggi non è il posto più accogliente per un negro. In più non conoscevi le lingue. Riuscivi quasi sempre ad arrivare a destinazione, spesso appena prima che fosse troppo tardi. Avevi la capacità di sedurre le hostess per non pagare extra peso e per farti cambiare la combinazione dei viaggi. Una volta questo non funzionò: ti fermarono alla frontiera danese perché nella tua crema per capelli c’era un prodotto che i cani riconoscevano come cocaina. I doganieri erano convinti che i tuoi frequenti passaggi per l’aeroporto di Billund fossero quelli di un corriere di droga e ti trattennero per molte ore senza lasciarti telefonare. Rimanemmo inorriditi che qualcosa del genere potesse succedere nella democratica Danimarca. Anche tu ne rimanesti scosso. Protestammo ufficialmente e ricevesti delle scuse. Per molto tempo non hai perdonato i danesi. Fu la prima volta che ti sentii dire che avresti lasciato l’Odin Teatret. Ma sei rimasto e a Holstebro hai coreografato bambini troppo piccoli per camminare.
Per un festival regionale chiamato Vinden (il vento) viaggiavamo con il gruppo cubano Teatro Buendía per i paesini dello Jutland. Insieme improvvisavamo attività locali, piccoli interventi spettacolari, parate e brevi corsi nelle scuole. Un giorno hai scoperto che gli allievi con cui dovevi preparare una parata per visitare una casa di anziani, erano ancora in età da carrozzina. “Come? Io? Un coreografo riconosciuto a livello internazionale lavorare con i neonati?” Passato il primo shock, li hai messi tutti in fila con dei nastri fra le dita che imitavano i movimenti delle mani di Iemanjá, le maestre che spingevano le carrozzine e i bambini un po’ più grandi dietro. Io chiudevo il corteo con il personaggio di Mr Peanut, la Morte, il cui volto è un teschio.
Ma lo shock più grande per te era vedere lo stato dei corpi dei giovani che partecipavano ai corsi con l’ambizione di fare teatro. Non avevano senso del ritmo, si confondevano con i passi più semplici, non erano capaci di ripetere quello che facevi vedere molte volte, non avevano forza. Eri sinceramente preoccupato per questa umanità che cresceva con l’illusione di conoscere solo attraverso l’intelletto, apparentemente interessata alla religiosità delle tue danze senza capire che l’energia della natura si manifesta in azioni invece che nelle emozioni. Così hai imparato a spiegare non solo come mettere un piede davanti all’altro, come alzare un braccio in una direzione e l’altro in quella opposta, come saltare allo stesso tempo che si da un colpo, ma anche come trasformare i movimenti in azioni. Dietro ogni passo c’era un motivo e la precisione era data dal ritmo.
Quando hai partecipato alla dimostrazione dell’Odin Teatret I venti che sussurrano, sul rapporto fra teatro e danza, mentre ognuno di noi faceva il percorso dal teatro alla danza, tu partivi dal contrario. Sei nato in un terreiro, sei diventato ballerino, hai incontrato l’antropologia teatrale. La danza classica e moderna ti ha dato la disciplina, lo sfondo culturale, la motivazione; l’antropologia teatrale ti ha sviluppato la capacità di analisi e di trasformazione. Nella dimostrazione, prendevi una partitura e la eseguivi prima come danza e poi come una sequenza di azioni teatrali. Cambiavi gli accenti, inserivi pause nel flusso, aumentavi la forza dell’impulso, facevi piccole variazioni di ritmo. Ti concentravi sull’effetto di quello che facevi fuori da te, invece che sulla forma del movimento del tuo corpo.
Eri anche orgoglioso di essere l’unico che si ricordava tutta la sequenza dell’esercizio perfetto che Eugenio aveva voluto per la sessione dell’ISTA in Portogallo. Lo chiamavamo tre-tre: Iben Nagel Rasmussen, Roberta Carreri ed io abbiamo proposto ognuna tre esercizi che sono stati messi in sequenza. In quell’ISTA tutti i maestri delle varie tradizioni hanno imparato l’esercizio e l’hanno trasformato secondo le proprie regole. Per la prima volta invece di individuare principi comuni attraverso il confronto di forme diverse, ci siamo concentrati sulla stessa forma per immetterci principi diversi determinati dal genere spettacolare. Tu hai lavorato molto sul respiro, fissando ispirazioni ed espirazioni per ogni azione. Ti entusiasmava insegnare quell’esercizio come anche danzare nello spettacolo Ode al progresso in cui eri vestito da donna. Portavi una maschera di Klaus Tams che nascondeva la tua barba; avevi una parrucca, un vestito rosso e molte collane. Mr Peanut ti acchiappava con una grande rete da farfalle in cui mettevi la tua bambola che sembrava bianca, ma quando la giravi, diventava nera. Quello era uno spettacolo semplice per te, tutto basato su un dialogo di azioni e reazioni.
Invece il lavoro per il tuo Amleto fu sofferto. Guardavo da fuori la scena di Ur-Hamlet in cui lottavi con il balinese I Wayan Bawa, quando lo zio veniva ucciso dal nipote che instaurava la legge del più forte. Eravate tutt’e due invasi da forze demoniache che sembravate incapaci di dominare. Il mio personaggio, il vecchio cronista Saxo Gramaticus, accompagnava la vostra lotta con gridi acuti, l’orchestra suonava a tutto volume. Ogni sera ero angustiata dal timore che non avreste controllato i colpi che vi davate, che avresti infilato la spada nella bocca di I Wayan Bawa troppo a fondo o che avresti ricevuto una ferita dal kriss balinese. Eppure conoscevate il limite oltre il quale non potevate andare.
Avevi scelto di legarti con corde bianche. Le usavi per frustare la madre di Amleto, ed erano quelle con cui l’innocente bambina balinese ti teneva al guinzaglio, la stessa che nell’ultima scena trasformavi in guerriera. Dovevi simulare la pazzia e la cantante francese Brigitte Cirla ti aveva insegnato i canti del gallo. Per la seconda versione dello spettacolo Ur-Hamlet, mentre l’ensemble balinese presentava una versione comica della storia dell’Amleto di Shakespeare, ti aggiravi nello spazio vestito da barbone, trascinando dei cartoni legati da spesse corde bianche. Forse con quell’inizio eri riuscito finalmente a scoprire la forza del tuo personaggio, che non poteva nutrirsi solo della sonorità dei tamburi, ma doveva centrare la complessità e l’ineluttabilità del potere che cancella anche la tenerezza dell’amore. Avremmo dovuto presentare lo spettacolo in Cina, e invece….
Stavo preparando lo spettacolo Ave Maria da presentare quella sera quando ha chiamato Paulo Dourado da Salvador per darmi la notizia che non aveva il coraggio di annunciare direttamente a Eugenio. Eugenio l’ho chiamato io. Poi pensavo a come raccontarlo a Jan Ferslev, il tuo amico che chiamavi jacaré, alligatore. Ma lui aveva già saputo tutto da Patricia Alves da São Paulo. Nel frattempo la notizia volava su facebook e molti erano increduli e in lacrime. Eugenio scrisse in inglese alla gente dell’Odin: “Paulo Dourado ha chiamato e ha detto che Augusto è stato ucciso nella sua casa a Salvador. La polizia presume che siano stati dei ladri. Ci riuniamo oggi alle 23 al varde di Sanjukta. Voi che siete lontani sarete con noi.” Quella notte, intorno al monticello di sassi spediti da tutto il mondo dalle persone che avevano conosciuto Sanjukta all’ISTA, abbiamo acceso molte candele, cantato in brasiliano, bevuto e raccontato. C’è bisogno di raccontare per ricordare. La tua vita è finita nella tua casa di Baruquinho, vicino al mare. Eri tornato a Salvador con la testa piena di progetti, per te lavorare era una necessità assoluta. Adesso ballavi con Sanjukta da qualche parte nel buio.
Fra le migliaia di messaggi di cordoglio che abbiamo ricevuto, voglio terminare con questo, che ti definisce come la persona capace di far sentire a casa gli stranieri e di rappresentare l’Odin Teatret con la tua generosità.


Queridos do Odin,
É com grande tristeza que recebemos hoje a noticia do falecimento do Augusto Omulú, na sua chácara na Bahia. Imaginamos a tristeza de vocês e oferecemos nossas condolências.
Foi por intermédio do Odin que tivemos a oportunidade de conhecer Augusto, que mesmo sendo nosso conterrâneo tivermos que atravessar o mar para encontra-lo. Na semana que estivemos com vocês em 2011, quando tudo era tão estranho à nós brasileiras, o clima, as pessoas, a língua e as linguagens, Augusto foi a porta aberta do Odin, que nos recebeu no primeiro dia como se fôssemos velho amigos se reencontrando. E talvez essa seja a verdade.
Sem palavras para descrever a tristeza que nos assaltou nesta manhã, resolvemos nos juntar em solidariedade com o grupo que o acolheu e o norteou para o desenvolvimento da sua pesquisa, tão rica as artes cênicas do Brasil e, acreditamos, do teatro contemporâneo mundial.
Grande abraço,
Tatiana e Juliana (Cia Pessoal de Teatro)

(Cari dell’Odin, è con grande tristezza che riceviamo oggi la notizia della morte di Augusto Omolú, nelle sua casa di campagna a Bahia. Immaginiamo la vostra tristezza e offriamo le nostre condoglianze. Fu attraverso l’Odin che abbiamo avuto l’opportunità di conoscere Augusto, che nonostante sia nostro conterraneo, per incontrarlo, abbiamo dovuto attraversare il mare. Nella settimana in cui siamo stati con voi nel 2011, quando tutto era strano per noi brasiliani, il clima, le persone, la lingua e i linguaggi, Augusto fu la porta aperta dell’Odin, che ci ricevette il primo giorno come se fossimo vecchi amici che si incontrano di nuovo. E forse questa è la verità. Senza parole per descrivere la tristezza che ci ha assalito questa mattina, ci siamo decisi a riunirci in solidarietà con il gruppo che lo ha accolto e gli ha dato un riferimento per lo sviluppo della sua ricerca, così ricca per le arti sceniche del Brasile e, crediamo, per il teatro contemporaneo mondiale. Un grande abbraccio, Tatiana e Juliana, Cia Pessoal de Teatro)

A volte quando danzavi, sembrava che volessi rivelarci la forza della vita e allo stesso tempo prenderci in giro, come nell’ultima scena dello spettacolo Le grandi città sotto la luna. Lo spettacolo parla di bombardamenti, rovine, esilio, e tu apparivi nell’ultima scena con una bombetta rossa, spensierato, spiccio, un’esplosione di insolenza. Danzavi buttando allegramente in aria pugni di cenere mentre estraevi la lama occultata nel tuo bastone e ci imbarcavi tutti su una giunca cinese che ci portava via. In una scena appena prima avevamo cantato questi versi di Li Po mentre nel buio si intravedeva il volto di volto di Torgeir, il nostro compagno morto tre anni fa. Caro Augusto, ascoltavi questi versi da fuori, mentre ti preparavi. Eri là, accanto a noi, pronto.


Mi chiedi quanto rimpianga il distacco:
è cadere di fiori a tarda primavera, confusi e intricati.
A che serve il parlare che non finisce,
nel cuore nulla finisce.
Chiamo ora il ragazzo,
lo faccio inginocchiare per sigillare questa lettera
che mando lontano mille miglia, ricordando.


Luglio 2013

 
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