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Romaeuropa Festival 2013

Osservazioni intorno a Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni


 

[Silvia Mei] È in equilibrio precario, contro la forza di gravità della rappresentazione, il virtuosismo di Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni, ultimo lavoro della consolidata coppia d’arte Daria Deflorian e Antonio Tagliarini, “appena fatto” per ROMAEUROPA Festival 2013. Assieme al precedente Reality (2012) costituisce con chiara evidenza un dittico, o forse, più banalmente, prosegue un discorso, sul lavoro dell’attore, sul quid della rappresentazione. Prima, a partire dai diari asettici e impermeabili al vissuto di Janina Turek, sconosciuta polacca nota alle cronache per la maniacale registrazione tassonomica delle sue giornate e dei suoi gesti (il materiale narrativo veniva dal racconto di Mariusz Szczygieł, Reality, 2011); ora, sul suicidio di gruppo di quattro pensionate greche dal romanzo, liberamente attraversato, dello scrittore e sceneggiatore turco-greco Petros Markaris (L’esattore, 2011). È infatti la forte immagine tratta dalle prime pagine a scatenare la reazione immaginativa di Deflorian-Tagliarini, assecondati da Monica Piseddu e Valentino Villa nel formare un quadrilatero di tensioni e vissuti che rompe l’ordinarietà dei conflitti psicologici.

 

Sono convinta che ogni opera produca la sua critica. Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni mi sollecita a smarginare, a riferire in discorso indiretto, a non parlare direttamente del lavoro di Tagliarini-Deflorian insieme a Piseddu-Villa, bensì a girarci intorno, riferendone per inciso, tra parentesi, incidentalmente. Quasi che il discorso critico fosse appunto un incidente rispetto all’oggetto da cui emana; ma anche un fallimento che fa della scrittura bien faite, del confezionamento letterario un atto contro l’impotenza, contro la morte. Soprattutto quando ci troviamo di fronte all’indicibilità, all’irrapresentabilità che rende osceno qualsiasi tentativo che non sia la citazione dell’originale.

 

ph. Claudia PAJEWKI

 

Con Reality avevo finalmente veduto una plastica rappresentazione del mio lavoro di storica del teatro. Il lavoro sui vuoti (di memoria, di scrittura, di senso, di azioni) che Daria e Antonio esponevano gesto dopo gesto, pensiero dopo pensiero, era impareggiabilmente vicino al mio, di studiosa pura del passato remoto. Anche (ma soprattutto) da un punto di vista sentimentale. Era tutto semplicemente commovente. Mi rievocava quei densi e stravaganti passaggi di Georges Didi-Huberman in Ninfa moderna sulla necessità di chiudere gli occhi per saper vedere, di attivare una capacità creativa sui documenti: “[…] dobbiamo accettare che la costruzione di un’ipotesi, in questo campo più che in qualsiasi altro, dipenda da un’immaginazione all’opera”.

 

Reality è una perfetta esposizione di metodo, di procedure e di processi, tra attore, autore e interprete, dove la scrittura scenica non è narrazione né giustapposizione alogica. Evidentemente si è trattato per questi due lavori di far deflagrare la forma rappresentazione, correndo necessariamente il rischio di cadere nelle sue panie e perfino di raddoppiarla. In Ce ne andiamo…, ancora più apertamente, l’impossibilità del dramma è programmatica oltre che predicata. Dichiarata addirittura esplicitamente come un’arresa di fronte alla tragedia che investe tutti quanti. “Ci vuole un gesto”, sollecita Antonio, e qui sta il vero conflitto, la vera crisi: il teatro, oggi, non è più in grado di servire la tragedia, la storia, di renderle patrimonio condiviso, o anche solo di elaborarle à la ancienne nella catarsi. Teatro è uno sterile onanismo, una manducazione concettuale che non riesce a sfidare la forza devastante del reale e della realtà umano-esistenziale dello spettatore. Serve piuttosto a compiacere quel singolare narcisismo d’attore, che ora vorrebbe togliersi di mezzo, in quanto peso inutile (per non dare, appunto, preoccupazioni) ma resistibilmente, accanitamente resta.

 

ph. Claudia PAJEWSKI

 

Alla fine Ce ne andiamo… è un gioco di prestigio a trucco scoperto. Come raccontare qualcosa senza rappresentarlo in modo convenzionale, cioè senza l’artificio del “come se”, del mimetismo, dell’illustrazione etc. E però farlo arrivare allo spettatore drammaticamente – anche pateticamente, perché la tentazione è inevitabile – giocando sull’intercambiabilità delle battute/parole. Elaborando un escamotage per cui si rappresenta senza cadere nella rete della finzione, citando, pure, in terza persona. Vecchia storia, certo, Brecht et similia. (Ma sarebbe da miopi non scorgervi, en camouflage, il metateatro pirandelliano). Non si tratta però di una variazione di teatro di narrazione o teatro epico; stenterei anche a vedervi l’esposizione di un processo di lavoro, per quanto il congegno è strutturato. Tutto trasuda, e talora puzza, terribilmente, di spettacolo, facendo sottobanco il suo gioco. Una “fuitina”, sì, ma per scherzo. Resistere alla tentazione di fare, confessa Daria all’inizio, per poi sciorinare tutto, e anche di più. È come se in questo lavoro non si riuscisse a profanare quell’alcova amniotica cui si aspira ritornare.


Illustrare il sottotesto esponendolo alla sua fallacia non basta (forse, mi sembra), perché non lo si può recitare, essendo memoria emotiva che da magmatica diventa in-formata. La magia sta proprio qui: nel rappresentare l’invisibile, come Antonio, ad un certo punto, tenta, scomparendo, ton sur ton, sul fondale. Se figura e sfondo coincidono, lo ammettono loro stessi, ciò costituisce solo un intralcio: il personaggio e la persona dell’attore lottano per prevaricarsi, il sottotesto si srotola, si enuncia inarrestabile…Ancora, qui, un fallimento, l’ennesimo: parlare del nostro dramma parlandosi addosso, girarci intorno senza andare altrove…subire la fissità del teatro, il suo piano sequenza.
È un fallimento reciproco, alla fine, che lascia la bocca amara. Non riusciamo che a percorrere il nostro ombelico, avvitarci, irrimediabilmente, nelle nostre sicurezze: la scatola scenica, la pagina, la scrittura, il linguaggio…far finta, illudendoci, di nuovo.
Ancora, evidentemente, non abbiamo nulla da perdere. La vita, ad esempio. Come per le quattro pensionate greche e le altre decine di suicidi che ogni giorno dicono basta alle rappresentazioni del potere. Non abbiamo ancora nulla da perdere: come scriveva Pippo Delbono nei giorni caldi delle proteste di piazza a Roma, quando nel mediterraneo arabo scoppiava la primavera dei popoli e si perdeva la vita anche solo a manifestare. Non abbiamo ancora nulla perdere. E, malgrado tutto, vien da dire, per fortuna.

 

*** dove non indicato il contributo fotografico è estratto dal web

 

http://romaeuropa.net/it/festival/1355-daria-deflorian-antonio-tagliarini.html

http://www.pav-it.eu/Deflorian-Tagliarini.html

 


 
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