Mises en scène d’Allemagne(s), a cura di Didier Plassard, con la collaborazione di Carole Guidicelli e Charlotte Bomy, Collection Arts du Spectacle, Les voies de la création théâtrale, dirigée par Béatrice Picon-Vallin, vol. 24, Paris, CNRS, 2014, 383 pp.
[Cristina Grazioli] Il titolo del volume, Mises en scène d’Allemagne(s), nella sua apertura ad una declinazione singolare e/o plurale del teatro di regia tedesco degli ultimi decenni (dalla fine degli anni Sessanta a oggi), mette già chiaramente in evidenza un motivo importante di quest’opera collettiva guidata e coordinata da Didier Plassard: la questione dell’identità, o della doppia identità della scena (e della cultura) di lingua tedesca. Ma in questo alludere alle due Germanie e alla riunificazione, quindi al processo temporale della storia, mette a segno anche un motivo che è parte integrante di questa/e identità: quello dell’epoca, der Zeit. Un orizzonte, quello del rapporto politico del teatro con la storia, che abbraccia l’evolversi del teatro tedesco del Novecento (basti pensare al titolo di una celebre rivista e casa editrice che in quest’ottica, nel 1946, scelse il nome di Theater der Zeit). Sembra essere questo il filo rosso che tesse insieme le molteplici concezioni e manifestazioni del Regietheater tedesco. Tra i tanti pregi del volume vi è proprio quello di rendere questa tessitura non solo percepibile ma comprensibile attraverso (e nonostante) l’eterogeneità dei percorsi proposti. Diversità inevitabile, data l’ampiezza dell’oggetto di studio, ma anche sottolineata dalla moltitudine delle differenti prospettive adottate dai singoli contributi.
L’architettura del volume è complessa e al tempo stesso chiaramente leggibile: alcune coordinate di riferimento comune orientano le linee segnate dai diciannove saggi, che indagano contesti e artisti evitando ripetizioni e disegnando un ampio quadro di preziose informazioni, offrendo esempi metodologici diversificati e consentendo al lettore di approfondire gli articolati percorsi dei registi trattati anche tramite la messa in relazione dei diversi sguardi. L’opera è divisa in tre parti: la prima dedicata al sistema di organizzazione, gestione e produzione dello spettacolo (Créer en Allemagne), la seconda alle più significative poetiche “di regia” (Le triomphe du Regietheater), la terza alla ricerca di nuovi percorsi, creativi e produttivi (Nouveaux regards, nouveaux modes de faire); parti che si rivelano vasi comunicanti grazie ai numerosi rimandi dall’una all’altra, testimoniando il tessuto della cultura teatrale tedesca, qui oggetto di descrizione, di analisi e di riflessione. Tra le coordinate di riferimento comune emergono alcune costanti: la diversità Est-Ovest e le questioni (finanziarie, politiche, culturali) poste dalla riunificazione; la profonda tradizione del teatro di regia – radicata perché diffusa capillarmente e non accentrata nelle grandi città – che affonda le proprie radici nel periodo della Jahrhundertwende e nei primi decenni del Novecento; una vocazione teatrale profondamente politica, dove la professione del teatro è vissuta come dimensione civile; una sedimentata consapevolezza dell’autonomia della partitura scenica rispetto al testo drammaturgico e contemporaneamente un’interrogazione altrettanto stratificata e assimilata circa il rapporto del testo spettacolare con la parola, e in particolare con la parola dei classici, dove la scrittura dell’autore non è più “all’origine” della messinscena ma si pone con essa in un rapporto dialettico, continuamente rimesso in discussione. Tutti i punti di questa costellazione sono direttamente implicati dal più generale motivo a cui si faceva riferimento in apertura, quello del rapporto con il tempo presente. L’utile introduzione di Didier Plassard precisa la concezione dell’opera e le intenzioni di questo progetto di ricerca: non offrire uno specchio delle tantissime pratiche esistenti ed esistite in Germania dal dopoguerra ad oggi, bensì una gamma di percorsi, scelti per la loro esemplarità e considerati da differenti punti di vista. Si sottolinea come le scelte siano cadute su coloro che hanno contribuito in modo decisivo alla vitalità della scena tedesca e che hanno saputo dare la maggior apertura all’idea di un “teatro di regia” come si era delineata all’inizio del XX secolo, «imponendola, rinnovandola o decostruendola».
[…] Henning Röper nel capitolo di apertura (Aperçu sur le système théâtral allemand) della prima parte del volume presenta una lucida messa a fuoco del sistema teatrale tedesco. Sulla linea di una concezione di teatro nella Storia, ci conduce entro una dettagliata e documentata descrizione della situazione novecentesca, toccando i temi della suddivisione tra teatri statali e comunali, dotati di sovvenzioni pubbliche, e Freies Theater (teatro indipendente); della tendenza nel periodo tra le due guerre ai Theaterkonzerne (il sodalizio tra diverse istituzioni) e della loro crisi alla fine degli anni Venti, che determina una maggior visibilità dei teatri pubblici; della tradizione di decentramento, con la connessa estesa diffusione di cultura teatrale, legata anche alle modalità di programmazione (dove la grande quantità di repliche consente un’offerta quasi quotidiana di spettacoli). Il saggio inoltre presta attenzione alla questione del repertorio e dei generi. […] Lo “shock” della riunificazione e la fragilità del sistema teatrale tedesco dopo il 1990 – motivo che inevitabilmente aleggia su tutto il volume – è trattato nello specifico da Laure de Verdalle (Le choc de la réunification et la fragilisation du système théâtral allemand dans les années 1990). […] Entro il paesaggio delineato dalla ricognizione d’insieme dei primi saggi si inseriscono i contributi successivi, che prendono in considerazione esempi più specifici su singoli teatri. […] Si evidenziano così le linee delle strategie messe in campo, che sono insieme culturali e politiche e commerciali. Tra gli esempi focalizzati su di una esperienza specifica, Hans-Thies Lehmann e Patrick Primavesi prendono ad oggetto di trattazione il Theater am Turm di Francoforte (TAT) (Le Theater am Turm de Francfort-sur-le-Main) […] Secondo Lehmann e Primavesi il TAT è una «scena rivelatrice delle strutture del teatro tedesco»: Landesbühne incentrata sull’educazione popolare, Stadttheater politicamente impegnato, poi luogo d’innovazione estetica di apertura internazionale fino a che i problemi finanziari lo strangolano poco a poco. Gli autori vi leggono una parabola dei «pregi e rischi del sistema teatrale tedesco»: a questo sistema, scrivono, si deve un gran numero di capolavori e un lavoro continuativo di grande qualità, «ma non si può negare la tendenza alla mancanza d’immaginazione e all’immobilismo che, in periodo di difficoltà finanziarie, può avere conseguenza catastrofiche. L’arte allora si trova non solamente vittima del mercato, ma anche di una burocratizzazione incompatibile con l’elasticità necessaria al processo creativo». […] La prima parte del volume, dedicata alle scelte e ai processi di produzione, è chiusa da una ricognizione “problematica” delle accezioni della definizione Freies Theater, svolta da Nikolaus Müller-Schöll (De la rébellion contre l’institution théâtral au théâtre “hors de soi”: le Freies Theater depuis 2000), esemplificata poi da due spettacoli dei gruppi Theaterkombinat (Massenmycènes, 2000) e Rimini Protokoll (Cargo Sophia, 2006). Del vastissimo universo del “teatro indipendente” (la metà degli anni Novanta registra l’esistenza di 2000 gruppi di Freies Theater, che ingloberebbe teatro per i ragazzi, teatro di marionette, teatrodanza, performance e altri generi) vengono sottolineati da un lato la programmatica distanza dal teatro pubblico e dal suo sistema (di produzione, di programmazione, dal punto di vista dei finanziamenti e delle normative sociali), dall’altro la connotazione estetica di teatro di ricerca (cioè libero da barriere tra generi, operante in luoghi alternativi, incline all’utilizzo dei nuovi media, volto al superamento della distinzione tra processo e prodotto, tra creazione e ripresa). […] Fattore ineludibile in tale contesto è quello del rapporto con gli spettatori, motivo messo in luce sin dall’introduzione di Didier Plassard, riassunto nell’alternativa «educare o provocare». Con il consueto proficuo sguardo retrospettivo, il curatore ricorda l’omogeneità del pubblico costituito dalla borghesia, a cui si rivolgono gli autori fondanti il repertorio tedesco a partire dal Settecento, a differenza che negli altri paesi europei, dove si dispone di una drammaturgia scritta per contesti storico-sociali diversi nel corso delle epoche. […] Nodo cruciale di ogni discorso sul teatro di regia è il già citato motivo del rapporto con il testo. Dopo l’effervescenza dei primi decenni del Novecento, quando rispetto alle esperienze degli altri paesi europei la pratica della messinscena in Germania rivendica con forza l’urgenza di rivitalizzare la pagina dell’autore, e in particolare le pagine dei classici (pensiamo a Leopold Jessner), i registi dominanti, scrive il curatore nell’introduzione, si sono adagiati sulla propria carriera, attraversando l’epoca del regime nazista, poi il dopoguerra, senza mettere in atto dinamiche di rinnovamento o rimessa in discussione delle pratiche diffuse. È nel corso degli anni Sessanta, esaurita quella generazione, complici i movimenti di contestazione che percorrono la politica e la cultura del mondo occidentale, che nuove figure si fanno carico della messa in crisi e del rinnovamento. Con Peter Zadek, Peter Stein, Claus Peymann, Klaus Michael Grüber, Hansgünther Heyme, Jürgen Flimm nasce l’espressione Regietheater, a sottolineare il rafforzarsi dell’autorità della messinscena: autorità, scrive il curatore, che si libera dallo sguardo delle letture accademiche ma anche che si esercita all’interno delle istituzioni teatrali: sia quando il regista ne diviene il direttore, sia che egli guadagni in elasticità nella scelta di repertorio e di collaboratori all’interno degli stessi teatri. È un punto importante, che riemerge e viene chiarito con grande accuratezza nel corso del volume: regia in tale contesto significa anche scelta di politica culturale; il regista diventa – e lo sarà di più negli anni a seguire – l’ago della bilancia di un modo di concepire non solo il teatro, ma di gestirlo, amministrarlo, produrlo. Ma questo esito, ne siamo convinti e lo ricorda ancora il curatore, ha la sua base e premessa nell’opera di grandi registi d’inizio secolo come Max Reinhardt, Leopold Jessner, Erwin Piscator, con i quali si affermano la «potenza delle immagini sceniche e la libertà rispetto ai classici». Questo “teatro degli ebrei” o dei bolscevichi (come verrà definito dal regime – ma sono questioni che rimbalzano anche nella stampa italiana degli anni Trenta), viene bandito negli anni del nazionalsocialismo e ignorato negli anni del dopoguerra, segnati da posizioni conservatrici (con l’eccezione, che rimane tale, di Fritz Kortner al suo rientro dall’esilio statunitense). L’impulso alla rilettura e attualizzazione dei classici sembra sopito e non si impone fino al 1968, momento in cui i registi qui in questione fanno dell’insolenza, della sperimentazione e della libertà qualcosa che si impone come modello. Impensabile invece una rilettura critica (lo seppe Brecht, bersaglio di veti e censure) in quella zona, nel frattempo diventata “l’Est”, la RDT, una “Repubblica dei teatri” per la forte concentrazione di istituzioni teatrali, che ha costruito la propria dimensione su due assi principali: il realismo socialista imposto dall’URSS e il culto delle grandi opere nel repertorio. L’affermazione, o meglio l’evoluzione, di un Regietheater nella Germania dell’Est viene dunque in generale frenata dal regime, nonostante alcuni importanti avvenimenti. Per esempio le esperienze di Benno Besson, al Deutsches Theater nel corso degli anni Sessanta e alla Volksbühne dal 1969, di cui si ricordano gli “Spektakel”, maratone teatrali che presentano i lavori di Heiner Müller, le regie di Fritz Marquardt, Manfred Kargo, Matthias Langhoff. Se il governo Honecker (1971) apre uno spiraglio di possibilità a nuovi percorsi, ben presto ci si deve ricredere. I registi innovativi nel corso degli anni Settanta emigreranno ad ovest o lasceranno la direzione dei teatri all’ortodossia. Fino a quando negli anni Ottanta artisti come Alexander Lang, Wolfgang Engel, poi Frank Castorf si riappropriano degli spazi aperti dai loro predecessori. Ed è un’altra linea che possiamo disseppellire lungo queste Mises en scène d’Allemagne(s): storie di esili, autoesili e migrazioni, che segnano la storia di diversi registi e che ritornano in modo tematico in una delle regie efficacemente descritte e commentate da David Roesner, nella terza parte del volume, Die Spezialisten di Marthaler (Une esthétique de gaspillage de haute précision: Les Specialistes de Christoph Marthaler), una sorta di “variazione sul tema” della fuga. Un esempio di ‘dissezione’ del testo spettacolare, in cui l’autore grazie ad una analisi di microelementi dimostra il raffinato lavoro di composizione in una partitura dei diversi registri dello spettacolo. […] Tutti i momenti più strettamente legati alle poetiche della creazione registica costituiscono il centro del volume, la seconda parte, aperta dal puntuale saggio dello stesso Didier Plassard su tempo storia memoria nelle regie di Peter Stein (“Se souvenir est un travail politique”: le temps, l’histoire, la mémoire dans quelques mises en scène de Peter Stein). […] Un altro maestro del teatro di regia, Klaus Michael Grüber, è affrontato da Philippe Ivernel attraverso la lettura di Winterreise im Olympiastadion del 1977 (Voyage d’hiver dans le stade olympique: L'Hyperion di Hölderlin mis en scène par Klaus Michael Grüber); in questa creazione, che aspira a porre sullo stesso piano i codici di testo, voce, gesto e spazio, la strategia di alterazione del tempo si realizza nella simultaneità delle situazioni, evocate anche dai riferimenti a luoghi pregni di storia come appunto lo Stadio Olimpico o l’Anhaltsbahnhof. Da una prospettiva diversa ma complementare a questa, Helga Finter concentra l’attenzione sulle relazioni tra voce, corpo e spazio, sullo sfondo di un orizzonte psicanalitico (Klaus Michael Grüber et l’éthique de la parole: un espace pour la voix de l’autre) ma anche citando il precedente di Kortner, e, nel caso di Bérénice di Racine, le teorie della declamazione e del canto del XVII secolo. Attraverso un lavoro centrato sull’attore, scrive l’autrice, il regista esplora, decostruendolo, «il nodo problematico del soggetto nel suo rapporto con il linguaggio e con il corpo» scrutando così la sua relazione con il testo. […] Il paesaggio del Teatro di regia in Germania, in virtù della sua complessa articolazione ma anche del suo configurarsi intorno ad assi di riferimento comuni, può essere aperto come una finestra su questioni che toccano il teatro di regia internazionale. Secondo Plassard ciò è possibile principalmente sulla scorta di tre motivi. In primo luogo si tratta di un dispositivo d’interpretazione del testo che tende a scostarsi dalle letture comuni, scolastiche o universitarie, così che non solo per i testi antichi, ma anche per i contemporanei, si creano scarti, elementi inattesi. Se questo motivo è alla base di tutta la regia moderna, è la dimensione critica di questo gesto che conduce nel territorio del Regietheater, creando una frattura tra realizzazione scenica e orizzonte di attesa del pubblico, là dove le scelte interpretative dell’equipe artistica cessano di creare immediatamente consenso (è il caso di Brecht al Berliner Ensemble, di Peter Stein e Dieter Sturm alla Schaubühne). Scelte che in una prima fase sono articolate sulla base di analisi sociologiche, politiche, economiche, psicanalitiche, e da vent’anni a questa parte sembrano sempre più legate a poetiche personali, come nel caso di Castorf. […] In seconda istanza il Regietheater dagli anni Settanta ha iniziato a prendere forma come dispositivo di creazione, dove la messinscena non è più interpretazione di un’opera preesistente, ma opera a sé, nella quale creazione drammaturgica e creazione scenica sono indissolubilmente integrate. La musica, la danza, le arti visive hanno giocato un ruolo importante in questo senso nel corso del secondo Novecento (si menzionano l’influenza di Bob Wilson, il teatrodanza di Pina Bausch, le performance di Joseph Beuys). È una direttrice che compone nel rispetto dell’eterogeneità dei materiali e dei generi; si pensi al ruolo della musica in Heiner Goebbels, alla danza in Johann Krenisk, ma anche alla concezione di una Dramaturgie jazz nell’opera di Peter Zadek, di cui Michael Raab offre una ricca rassegna del confronto con i testi shakespeariani (La douche écossaise des emotions. Peter Zadek metteur en scène de Shakespeare). Ma l’opera scenica si definisce come autonoma dal testo anche nel caso di una forte connotazione “attuale”, come negli spettacoli presi ad esempio da Florence Baillet (Quand l’actualité fait irruption dans le jeu: mettre en scène au moment de la Wende) nel saggio che apre la terza parte del volume. Se, come dimostrano i diversi percorsi proposti in Mises en scène d’Allemagne(s), il teatro tedesco del Novecento è nella Storia, al momento della riunificazione la storia delle due Germanie irrompe nel teatro, che annuncia, prepara, riflette quel momento. […] Il terzo motivo enucleato da Plassard è la peculiarità di dispositivo d’apparizione: ci si riferisce alla messa in campo di strategie complesse dove sono convocati reale e simulacro, documento e finzione, identità e alterità, ma in cui tale binomio è posto a rafforzare lo statuto di evidenza “assoluta” della corporeità, dove la presenza umana assume il valore di evento. Qui si mette in gioco il rapporto tra assenza scenica e iperpresenza dell’immagine elettronica (per esempio in Pollesch) oppure il luogo scenico come spazio della costruzione e decostruzione delle identità, delle alterità e delle rappresentazioni. Ne sono esempi efficaci le analisi delle opere di Grüber proposte da Helga Finter. […] Infine ci sembra importante rilevare la posizione del curatore rispetto ad una categoria forse troppo spesso citata e un po’ meno analizzata, quella del teatro postdrammatico di Lehmann: le categorie e le puntuali analisi raccolte nel volume non corrispondono alla fortunata definizione di Lehmann, che non include il rapporto con il testo (escludendo così la funzione culturale del teatro, in particolare nella sua relazione con il repertorio). La nozione di “dispositivo d’interpretazione”, scrive Plassard, permette di «reintrodurre questa funzione culturale ricordando che nella messinscena viene messa in gioco anche la nostra relazione con l’eredità e la costruzione del senso: è il motivo per cui è accordata una grande importanza, negli studi presentati, al lavoro di drammaturgia [nel senso di lavoro del Dramaturg], tappa essenziale del passaggio dal testo alla scena». L’idea di un cambiamento di paradigma artistico proposta da Lehmann andrebbe quindi ridimensionata, come universo non esaustivo delle direttrici che operano nel presente e recalcitrano di fronte alla cesura tra pre- e post-drammatico. L’autore propone di pensare la tensione tra astratto e figurativo operante nelle arti visive come analoga alla tensione tra drammatico e non-drammatico nelle arti sceniche. Il teatro postdrammatico sarebbe quindi in questa prospettiva non tanto il superamento del teatro di regia, bensì una delle vie principali del suo rinnovamento.
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