Paolo Puppa, Ca' Foscari dei dolori. Romanzo, Corazzano (Pi), Titivillus, 2014, pp. 272.
Caro Paolo,
raramente mi è capitato di leggere un’opera di narrativa di cui conoscessi personalmente l’autore, come per il tuo Ca’ Foscari dei dolori. Ammetto che, dietro la maschera dello scrittore, mi è stato impossibile non intravedere anche la persona-drammaturgo, il performer e l’accademico. E, pur sapendo che questo romanzo è “solo” frutto di invenzione, mi ritrovo ora a ricongiungere le tue molteplici identità, compiacendomi di questa ambiguità come di una scoperta fatta tra le righe del testo. Più che un’interpretazione critica del libro, questa lettera vuole dunque restituirti l’indiscrezione del mio sguardo, che rivolgo al drammaturgo e al professore universitario, come al romanziere e, ancor più, alla persona in cui questi ruoli e funzioni si congiungono. Per tutta la lettura non ho potuto fare a meno di cogliere una connessione fortissima con la scrittura teatrale: seppure in prosa e con quell’approfondimento che solo il romanzo forse consente, mi è parso di ascoltare un lungo monologo (questa la forma teatrale che vi assocerei) e, di conseguenza, di essere spettatrice solitaria, come spiando dalla fessura di una porta, più che da una grande sala. Quest’impressione credo sia data dalla definizione dei personaggi. Le altre persone, a parte Giacomo, esistono solo nei loro comportamenti, nella loro esteriorità. Sembrano esserci unicamente come risposta o reazione alla presenza e alle parole del protagonista, senza una vita propria: vediamo tutto esclusivamente dal suo punto di vista.
E Giacomo… certo che sembra un po’ un anticristo, costretto a piangersi i mali di cui è causa. Da lettrice ho avvertito il disagio di ascoltare le sue ragioni, quasi di essere chiamata ad una connivenza: di solito la voce narrante non è del buono? Ma è chiaro che non c’è lieto fine o redenzione nel mondo di Giacomo, né la caduta dovuta alla mediocrità, quanto l’ammissione disincantata della sua normalità. Il crescente senso di estraneità nei suoi confronti non ha impedito però all’oralità intrinseca al tuo scritto di agire sull’andamento del mio respiro di lettrice, dettandone accelerazioni e rallentamenti nell’inseguimento della storia. Dapprincipio, mi è infatti parso di immergermi pian piano, senza foga, dentro l’universo di pensieri che traspiravano dall’evocazione di gesti e parole, mentre con l’avanzare del testo mi è sembrato che le azioni e gli eventi prendessero il sopravvento sulle riflessioni, affrettando di conseguenza anche il ritmo della lettura. Passaggio che avviene, senz’altro, quando il corpo di Giacomo si impone sulla sua mente/volontà, per quanto i due non mi pare che si parlino davvero. All’inizio, tanto la storia si presenta asciutta, nella sua evoluzione, quanto densa di introspezione, come di un’allusione alla vita non vissuta realmente e che potrebbe aprirsi (di cui continua almeno l’attesa) ad ogni angolo di strada. Mi ritorna in mente il titolo di un film, Sliding Doors, di Peter Howitt. Lì, la semplice riapertura delle porte della metropolitana cambiava il destino alla protagonista, di cui nella pellicola si vedono le due vite parallele. Qui, trame immaginarie si incrociano: Giacomo sfiora, a più riprese, la possibilità (e il desiderio senza età) di altre vite, invischiando letteralmente il lettore e al tempo stesso svelando la casualità del destino, condizionato da occasioni accidentali, piuttosto che da un chiaro disegno, divino o mondano. Se realtà e fantasia si confondono sempre crudelmente, inizialmente la prima non sembra stare al passo della seconda. La confusione è tanto più crudele in quanto, nell’incrocio con la realtà, la fantasia è frutto non di un percorso, ma di uno smarrimento continuo e ripetuto. Quando sembra farsi azione, non è comunque coerente o coraggiosa. L’immaginazione, ad ogni modo, rispecchia l’idea che di Giacomo ci si fa leggendo, pur essendo, nelle prime parti (quando ancora l’intreccio non si è sviluppato ed esiste come premessa), sintomo di una sensazione di impotenza che credo rispecchi un male del nostro tempo che taglia le generazioni trasversalmente. Come se non ci fossero più Pensieri cui affidarsi, Utopie di vita o simili, mentre prevale un fantasticare smarrito, accolto sempre e immancabilmente da un’ovattata rassegnazione. È chiaro che quanto più si entra nelle ossessioni del protagonista, tanto più questo senso generale si canalizza nell’identificazione del personaggio. Ho comunque avvertito, come dicevo, leggendo e retrospettivamente, delle svolte nella storia. Senza cambiamenti di registro e di linguaggio (e questo credo sia estremamente riuscito) si transita verso l’azione, gli intrighi, le cronache di vita e morte. Almeno così sembra, visto che nelle pagine finali si riapre il dubbio sulla veridicità di quanto è stato raccontato.
Non lo avessi saputo, avrei comunque collegato il romanzo alla mente creativa di un uomo. A dire il vero, è proprio evidente. Mi chiedo anche se il lettore modello possa similmente essere di genere maschile. Impossibile, per me, un processo di identificazione e, anzi, alle volte, il testo può essere irritante per una lettrice. La fisionomia appesantita dagli anni è enfatizzata, quasi fosse l’unico segno della maturità femminile, mentre della gioventù Giacomo vede, ancora e solamente, la facciata esterna, affascinante, attraente e perciò perturbante. La figlia mancata, causa delle sue voglie incestuose, e Gloria, la prostituta di cui si invaghisce, portano impresso il volto anodino della sua concupiscenza: sono nulla al di fuori della pericolosa funzione di moderne Salomé, che mi è impossibile condividere come rappresentazione della donna e della femminilità. Il contesto: lucido e inclemente nello spiegare le relazioni accademiche e sociali (il nascondersi di tutti dietro gli impegni, sempre ribaditi e ricordati, perché esistenti ma anche, in fondo, perché ricercati come protezione, in quanto giustificazione di quel distacco, di quella autonomia che sarebbe anacronistico e scortese ammettere come scelta). La realtà accademica però, appunto, è solo il background, nonostante il titolo lasci pensare possa essere protagonista. Mi sembra che Ca’ Foscari e, diciamo, l’Università in generale, sia mostrata nella sua maggiore miseria di relazioni umane: invidie, sotterfugi, cortesie/ipocrisie, con estrema concretezza e disincantata lucidità. Tutti elementi che non sono oggetto reale di valutazione, poiché assunti come dato di fatto nella loro routiniera ripetitività (esistono un po’ come il buongiorno e il buonasera). Fa sorridere – amaramente – ritrovarli così nitidamente espressi; non fa ben sperare immaginare che, fuori dalla pagina, questo resoconto, seppure romanzato, restituisca la percezione di un professore ormai prossimo al congedo: nessuna affezione o illusione che tocchi il mondo accademico conosciuto così a lungo e approfonditamente. Se potessimo identificarlo con una persona, questo gigante non sarebbe meno estraneo degli altri personaggi (al di fuori del protagonista), interpretabili solo per l’esteriorità dei loro comportamenti, più o meno coerenti. Forse, però, più di loro, gigante senza anima, che – nella storia di Giacomo – non appaga i desideri (diversamente, seppur qualche rara volta o come ricordo e fantasia, dalle persone conosciute o intraviste). Anche qui, poi, la luce in cui si collocano gli eventi comunque cambia nel corso della lettura: come non essere solidali originariamente con il povero associato mai salito in cattedra per la scomparsa del proprio maestro? (Se non fossi un professore ordinario, confondendo piano letterario e realtà, direi anzi che provi disprezzo del tuo ruolo). Poi, invece, sembra quasi che Giacomo voglia nascondersi dietro le circostanze sfavorevoli e che sia tanto improduttivo sul piano scientifico, quanto biologicamente sterile. Il grande miraggio, l’enciclopedia cui da sempre lavora, celando la propria inadeguatezza dietro a un progetto troppo ambizioso, esaspera il senso di nullità che lo annichilisce. La sua bassezza, però, comporta paradossalmente la possibilità di una “giustizia” accademica e terrena, seppure a lui negata. Come quel dvd che in ultimo brucia accanto al suo corpo collassato e inerme, le sue aspirazioni sembrano, cioè, andare in fumo per la sua incapacità, e non per la disumana freddezza del sistema: come a dire che un Dio benevolo esiste per chi sa meritarselo... Non so, però, se quest’ipotesi di lettura appartenga ancora al testo o se nella finzione dello scritto io non stia cercando, piuttosto, la percezione dell’accademico; se la fantasia non misuri, in questo caso, lo scarto tra ciò che nitidamente si vede e ciò che si vorrebbe invece, quantomeno, intravedere.
Spero che questo riscontro sui nessi sotterranei che ho creduto di scorgere nel tuo Ca’ Foscari dei dolori non ti sia sembrato troppo azzardato o inopportuno.
Un caro saluto, Rossella Mazzaglia
Bologna, 23 giugno 2015
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