La prima, la migliore: il lungo elastico che porta guerra e morte in scena
[Laura Budriesi] “Fare teatro per noi è un atto di fede. Tanto di ‘pelo’, si dice a Taranto”. Così racconta Gianfranco Berardi del suo essere attore, e del particolare lavoro drammaturgico sviluppato insieme a Gabriella Casolari per lo spettacolo La prima, la migliore. Una messa in scena che si rifà al romanzo Niente di nuovo sul fronte occidentale di E.M. Remarque, ma attinge anche a più memorie biografiche della prima guerra mondiale (1914-1918), come ad esempio Giornale di guerra e prigionia di C.E. Gadda, con il preciso intento, per sua stessa ammissione, di lavorare sulla pietà. Una messa in scena che ha il respiro, il ritmo del teatro di narrazione e di denuncia, padroneggiando i frutti del “novecento teatrale”. In primis la costruzione dello spazio scenico, reso vivo, parlante, nella sua materialità, soprattutto attraverso gli oggetti che lo abitano: in particolare, la sedia di Berardi è rimando immediato a quella simbolo del teatro di narrazione, da Marco Baliani (Kohlhaas) ad Ascanio Celestini (Radio Clandestina). Poi c’è un lungo elastico che svolge funzioni multiple e di volta in volta si fa colpo di fucile che dà la morte, si trasforma in fangosa e soffocante trincea: un oggetto di scena dinamicizzato nel suo interagire con la corporeità dell’attore, il quale a sua volta plasma e riplasma il proprio corpo attraverso la plasticità dell’oggetto in questione, come nel caso del defunto dondolante sulle corde elastiche, portavoce inerte ed infilzato da vessilli delle nazioni in guerra, o dell’agonizzante fante ferito e bendato che osserva fissamente la morte.
Un attore che per sapienza scenica si fatica a credere non vedente, ci riporta alle migliori esperienze di teatro sceno-centrico, al servizio degli elementi primari del teatro: l’attore, lo spazio con una sua precisa drammaturgia e la relazione con lo spettatore. Un teatro col testo – non per il testo - barbianamente inteso. La lingua scenica di Berardi-Casolari (pugliese lui, emiliana lei) si inscrive in un percorso iniziato da Leo de Berardinis e Perla Peragallo nella programmatica discesa a Marigliano degli anni Settanta alla ricerca di nuclei attivi della cultura popolare a contatto con la sceneggiata napoletana; proseguito con successo da Emma Dante nelle sue opere con l’uso del dialetto siciliano; e - fra gli altri - dai messinesi Scimone e Sframeli nella loro pratica teatrale ventennale: per “un linguaggio d’attore che sfugga all’afasia della recitazione accademico borghese” (De Marinis). Nel duetto col fratello, cantautore pugliese, Berardi raggiunge pienamente la sua finalità: rispecchiare il senso di memoria autobiografica dell’opera letteraria di partenza, modellandola con la sua personale esperienza di uomo e di performer anche e soprattutto attraverso i componimenti musicali popolari in dialetto, eseguiti in scena, che sono memoria di guerra, in particolare del soldato meridionale, della propria terra. La retorica patriottica legata al primo conflitto mondiale, viene smorzata, ridicolizzata, annientata dallo “straniamento brechtiano” adottato in un paio di “siparietti” da Gabriella Casolari per cucire un ponte ideale tra la ferita di una giovane generazione perduta e il nostro conflittuale e complesso presente
Spettacolo visto in occasione del debutto a Vie Festival 2015. |