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TEATRO DEI LIBRI

Amore e anarchia. Uno spettacolo del Teatro delle Albe, a cura di Cristina Valenti, Corazzano (Pisa), Titivillus, 2015, 168 pp.

 

 

[Lorenzo Donati] Scrivere un libro su uno spettacolo teatrale è oggi operazione difficilissima. Nell'attuale panorama editoriale delle arti sceniche, infatti, il rischio di “parlarsi addosso” è dietro l'angolo. Non di rado si finisce per raccontare e dissezionare processi creativi che sono rimasti tali, dal momento che le opere finite hanno raggiunto solo una manciata di repliche; così il prodotto editoriale consuntivo spesso riflette su spettacoli a cui è mancato un confronto con diversi spettatori, con testimonianze orali, scritture critiche, note giornalistiche, saggi non premeditati etc. In questi casi, dunque, il libro corre il pericolo di restare quasi l'unico discorso sull'opera, facendo poco o nulla per alimentare quella cultura teatrale dai contorni sempre più chiusi che tutti conosciamo. Così, spesso accade di avere fra le mani volumi che non appena sfogliati “evaporano”.
Un secondo rischio di un libro sui processi creativi risiede nella tentazione di mettere nero su bianco tutti i passaggi che hanno concorso a costruire uno spettacolo, conferendo ad appunti, annotazioni, dichiarazioni una dignità letteraria che spesso era consigliabile non avessero, perché naturalmente inscritte nel “chiuso” di un percorso creativo. Paratesti, insomma, estrapolati dal bagaglio di materiali “non rappresentabili” del lavoro di ogni attore e attrice e che una volta depositati sulla pagina finiscono per appiattire le “altezze” dell'arte, abbassandone il mistero, rendendo tutto troppo spiegato.
Già dall'incipit è chiaro che Cristina Valenti, curatrice di Amore e anarchia. Uno spettacolo del Teatro delle Albe (Titivillus, Corazzano 2015), aveva ben presenti tali rischi ed è riuscita a evitarli. Il volume potrebbe anzi essere preso a modello per comporre libri a partire da una sola opera teatrale. «Abbiamo chiesto agli autori coinvolti di continuare il dialogo dello spettacolo», si legge nelle note introduttive a firma della curatrice, e davvero questo ci pare un punto di partenza in grado di marcare una credibilità sia scientifica che artistica.


Partiamo gettando uno sguardo all'indice. Dopo l'introduzione, compaiono il testo drammaturgico dello spettacolo e una sezione fotografica; troviamo, a seguire, una serie di saggi raccolti sotto la voce “Visioni e contesti”, articoli che si danno il compito di ampliare la prospettiva teatrale del volume; segue un ritorno in prossimità della creazione e del suo farsi, con la sezione “Il percorso dello spettacolo”. Il volume si chiude con un corredo di “Lettere” inviate all'opera, ai suoi autori, ma anche in qualche misura al libro stesso, pensieri diversi che fanno pensare a una salutare “biodiversità” che non sempre gli studi teatrologici possiedono.

Amore e anarchia è uno spettacolo del Teatro delle Albe che ha debuttato nel 2015 con la regia di Luigi Dadina, la scrittura di Laura Gambi e la presenza in scena di Dadina stesso e di Michela Marangoni. Dicono molto già le prime righe, che situano, noi spettatori, in una scuola elementare ad ascoltare i dialoghi di Maria Luisa Minguzzi e di Francesco Pezzi, anarchici nati a metà dell'Ottocento impegnati da subito in una estenuante battaglia per la libertà. I due si riuniscono con i più noti Malatesta e Cafiero in congressi e riunioni clandestine, prendono navi solcando gli oceani e i mari, costretti al confino o in fuga verso il Sudamerica. Leggendo è come se li vedessimo di corsa sotto la pioggia nei boschi toscani, sempre in soccorso della povera gente, in lotta per una società in cui vi fossero dignità per tutti e si bandisse lo sfruttamento, in favore di un'autonomia personale come preludio per pensieri collettivi. Maria Luisa e Francesco sono in una scuola e dialogano, rievocando giorni felici in un dramma-conversazione (la formula è di Peter Szondi) che anziché mascherare un vuoto riporta al tempo presente qualcosa di cui si era dimenticato il valore, rendendo credibile questo dialogo fra morti nel qui ed ora, di fronte a noi, nei nostri anni (come non citare il discorso sull'educazione di Gigia, rivolto alle tante maestre che negli anni si sono avvicendate nella scuola di San Bartolo? «Educare è stare a vedere / Educare è sperimentare / Educare è permettere di sbagliare»).

Il cuore del volume è senza dubbio rappresentato dalla sezione “Visioni e contesti”, con interventi capaci di portare il “dialogo dello spettacolo” fuori dai confini del teatro. Si parte con un denso saggio critico di Massimo Marino, che ci invita a leggere il lavoro come la possibilità di dare forza agli interstizi, «fra la fine delle utopie e l'inizio di qualcosa di sperato»; si procede con le riflessioni intime di Marco Martinelli e Ermanna Montanari, compagni di lavoro di oltre trent'anni, fra Patti di sangue con chi ha dato corpo a «personaggi bislacchi» radicati fra Porto Corsini e il quartiere Anic (Martinelli) e rievocazioni della natura di una «coppia scenica» (Montanari/Dadina) che ha saputo sostanziare attoralmente la storia del gruppo, da Perhindérion a Sterminio, da I Refrattari al Sogno di una notte di mezza estate. Racconta la Montanari che un nuovo corso si è aperto dopo I Polacchi, con il Pêdar Ubu interpretato da Mandyaye N'dyaye e il contestuale sviluppo del lavoro del “Gigio” narratore e regista (con Narrazione della pianura, Griot Fulèr). Segue un magistrale scritto di Massimo Ortalli che ci riporta al contesto storico in cui si svolge la storia della coppia: la Romagna contadina del secondo '800, le bonifiche e l'aria malsana paludosa, il dissidio con Andrea Costa sull'esito istituzionale delle battaglie (Costa fu il primo deputato di idee socialiste). Ortalli ci invita a riflettere su come abbia prevalso una lettura utopistico-infantile della vicenda anarchica, mentre le battaglie raccontate nel volume riguardano la libertà di tutti, uomini e donne. A quello di Massimo Ortalli segue un saggio che pensiamo avrà il valore di spartiacque negli studi sul campo, a firma di Cristina Valenti. La curatrice e docente indaga i rapporti fra teatro e anarchia, passando in rassegna le produzioni teatrali degli anarchici, enumerando alcuni esempi di comunità teatrali dove si sono sperimentati procedimenti anarchici (dall'Agit-Prop al teatro comunitario fino al Living Theatre). Chiude il saggio di Valenti una rassegna delle trame anarchiche, dagli anni settanta di Dario Fo e Arnaldo Picchi agli anni zero di Ulderico Pesce e Beatrice Baruffini.


Come già detto, il volume torna poi dentro al processo, attraverso un'estesa conversazione con Luigi Dadina, Laura Gambi e Massimo Ortalli, in cui si dà conto del metodo di ricerca, degli studi, dei viaggi di esplorazione sul campo, degli incontri e discussioni con esperti (fra i quali gli stessi Ortalli e Cristina Valenti). Il diario di Michele Pascarella osserva da vicino il processo e con grazia ci porta al fianco delle domande quotidiane degli autori, ci fa sedere in macchina nei loro viaggi attorno ai boschi della Toscana e ci fa salire sui tornanti insieme allo stesso estensore del diario, con il suo timore di un rivoltamento di stomaco. Con Michela Marangoni ci affianchiamo al lavoro dell’attrice, alle domande sulla biografia e la composizione del personaggio, al percorso di ricerca su Gigia che incrocia studio storico e autobiografia: «E mi viene subito da pensare alla mia vita, a mia zia Livia, classe 1913, sorella di mio nonno». Chiude la sezione il rivelatore sguardo da spettatore «un po' dramaturg» di Gerardo Guccini.

Fino a qui il tentativo di riattraversare i contenuti del libro, cercando di leggere anche attraverso l'architettura del volume. Ma se ogni griglia è necessaria per orientare e sostenere, in un libro cerchiamo sempre qualcosa che ne rappresenti l'eccedenza, qualcosa che indichi una fuoriuscita dalle gabbie e dalle strutture, come riesce a fare a volte il teatro, quando ci fa smarrire. Tre sono le zone che preservano questa dimensione di “incolto” e biodiversità, pur dentro alla struttura. Le fotografie iniziali di Davide Baldrati, un bianco e nero consistente, un campo dell'inquadratura che si allarga e si stringe alternativamente, con i protagonisti dello spettacolo che non guardano mai in camera. Le immagini traducono dunque un senso del “qui ed ora” non rivolto a noi eppure ben evidente, come se chiunque, in qualunque tempo potesse essere spettatore del loro dialogo; la seconda zona è rappresentata dalla sezione finale delle “Lettere”, con testimonianze disparate in cui si arriva a raccontare di biciclettate d'amore sull'argine citando Piero Gori (Alessandro Luparini), di luci teatrali alla Hopper (Piero Fenati), delle sette carbonare criminali di accoltellatori di Ravenna (Claudia Bassi Angelini, autrice del primo volume storico sui due personaggi pubblicato nel 2004). C'è infine un terzo livello rappresentato dalle note biografiche stese dalla curatrice, che per tutto il volume corrono parallele al testo principale e si prendono il complicato ma importantissimo compito di divulgare le biografie dei protagonisti storici del racconto, da Errico Malatesta a Carlo Cafiero, da Anna Kuliscioff a Piero Gori a molti altri. Queste note e altre zone “eccedenti” fanno del volume anche un generoso varco per accedere al pensiero anarchico: un libro dunque sull'anarchia ma anche – ci sia permessa una licenza che riprende il saggio della curatrice – un lavoro compiutamente e felicemente anarchico.

 

Fotografie dello spettacolo di Davide Baldrati tratte dal volume.

 
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