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///Una rubrica per ripensare la relazione tra semiotica e teatro oggi///
a cura di Luca Di Tommaso

“Ladro e puttana. Il luogo dove tutti i linguaggi sono possibili”
Intervista a Marco Baliani su semiotica e teatro. (1)
di Luca Di Tommaso [PDF]


Marco Baliani è fra i maggiori autori, attori e registi italiani viventi. Fondatore negli anni ’80 del “teatro di narrazione”, ha realizzato moltissimi spettacoli, tra cui l’ormai classico Kohlhaas (1987) e numerosi progetti teatrali di rilievo sociale, come Pinocchio nero (2004) con i bambini africani di Nairobi. Ha scritto anche alcuni testi sulla sua esperienza teatrale e non, tra cui segnalo il recente Ho cavalcato in groppa ad una sedia, Titivillus, Pisa 2010. Su Baliani e il teatro di narrazione sono già pubblicati alcuni studi, tra cui da segnalare almeno Silvia Bottiroli, Marco Baliani, Zona, Arezzo 2005 e Gerardo Guccini, La bottega dei narratori, Dino Audino, Roma 2005.  Per approfondimenti www.marcobaliani.it.


LDT: Cominciamo questa intervista con una domanda relativa al teatro di narrazione, di cui tu sei stato forse l'iniziatore negli anni '80 in Italia. Cominciamo con questa domanda sulla differenza fra il teatro di narrazione e il teatro di azione o di rappresentazione,  relativamente a quelli che sono gli interessi di questo progetto e cioè la costruzione del senso a teatro e la natura della comunicazione teatrale. Come cambia per te la comunicazione teatrale, come cambia la tua comunicazione teatrale nel momento in cui ti metti a raccontare su una scena rispetto a quando per esempio ti metti a rappresentare o dirigere gli attori per condurli in una rappresentazione?

MB: E’ un problema di drammaturgia dello spazio, nel senso che quando sei il raccontatore, devi rendere visibile l'invisibile con pochissimi mezzi e soprattutto con pochissimo spazio a disposizione. Le azioni di una narrazione devono avvenire più nella testa degli spettatori che non nella realtà del palcoscenico, quindi non è che se devo fare un inseguimento, corro in palcoscenico. Le mie parole correranno ad un ritmo tale che il mio corpo accennerà all'idea di una corsa, ma sostanzialmente lo spazio è assai circoscritto.
Adesso, aldilà della mia estremizzazione, io che lavoro su una sedia, ma, insomma, anche se stai in piedi...la narrazione presuppone, come dire, il rifiuto  dell’uso di uno spazio inteso come spazio d'azione, perché tutto questo deve avvenire  all'interno di un rapporto dialogico tra narratore e immaginazione dello spettatore.  Quando, invece, dirigi degli attori – io stesso sono attore dentro un gruppo – o una  compagnia, o anche se si è in due persone, poi le possibilità sono tante, tu hai una possibilità di usare lo spazio, come dire, fisicamente, biologicamente, ti muovi nello spazio. Quindi il tuo corpo è preso da un'attività reale, aldilà che poi questa attività reale sia sempre simbolica. È chiaro che ci sono comunque 9 metri per 12. Quindi una maratona la puoi fare ma sostanzialmente stai sempre sul posto, voglio dire, è sempre simbolico, però è un simbolismo che mette il corpo in condizione di agirlo lo spazio, di muoversi nello spazio, di spostarsi. C'è una prossemica completamente diversa.

LDT: Questa differenza drammaturgica e di prossemica, per te, è una differenza di natura o è una differenza di grado? Perché mi viene da pensare che anche il narratore, anche se tendenzialmente immobile sulla scena, compie delle azioni che per quanto soltanto allusive sono comunque delle azioni reali.

MB: Non c'è dubbio, è chiaro che all'interno dell'occhio,  orecchio, dei sensi dello spettatore, la verità di quello che accade è comunque una  verità che parte da una condizione di realtà fisica, siamo tutti lì, nello stesso spazio-tempo, ma che genera un'immaginazione d'altro tipo. Quindi questo c'è sempre. È  chiaro che però  nel momento in cui io so che il mio corpo ha la possibilità di spostarsi  fisicamente, questo spostamento diventa un elemento di linguaggio, cioè io devo prenderlo in considerazione, ha lo stesso valore della parola, della musica, delle luci, no? Cioè,
come dire…è un atto concreto che io devo saper usare per farlo diventare atto  simbolico. L'altra cosa è una costruzione completamente diversa, nel senso che tutto  questo io lo devo incamerare nel corpo dell'attore. Lo spazio della narrazione è uno  spazio incamerato, non è uno spazio agito. Poi è chiaro che io faccio così (accenna a un gesto), è chiaro che il movimento del corpo c'è sempre, però è un corpo appunto, è il corpo di Murphy, di  Beckett, cioè è legato. È un corpo legato, non è un corpo che può davvero farle quelle  cose.

LDT: Quindi, diciamo, la narrazione con questo appello all'immaginazione dello spettatore richiede allo spettatore un maggiore impegno?

MB: Diverso, non direi maggiore perché se no qui si fa la difesa della narrazione … non è così… E' diverso. Se no diventa un'enfasi della narrazione. Chiedo allo spettatore di costruirsi un film usando la telecamera dei suoi cinque sensi. Ma lo fa anche quando c'è l'altro teatro. Voglio dire, tutto il teatro, anche quello più tradizionale, è un teatro che comunque mette in gioco l'immaginazione dello spettatore. Infatti, dove è che cade il teatro tradizionale? Quando tenta di essere verosimile a tutti i costi. Lì è stato il crollo: il teatro borghese, Ottocento e Novecento. Ma perché non c'erano ancora né televisioni né cinema. Poi hanno vinto loro, cioè la verosimiglianza la fanno meglio loro. Ecco, lì quando il teatro ha creduto davvero che lo spettatore dovesse credere di stare dentro la stanza di Nora in un interno borghese, è andato bene finché qualcuno non è arrivato con la camera a farle meglio. Poi è finito quel teatro lì. Non è più proponibile. Ma da sempre lo spettatore è stato costretto a completare l'immaginazione che gli attori danno.


LDT: Ed ora riguardo a cosa vuol dire raccontare in generale e quindi poi anche al teatro, volevo chiederti che rapporto c'è tra i fatti più o meno immaginari e il racconto di questi fatti, la narrazione di questi fatti. Mi pare che tu abbia scritto nel tuo libro, se non ricordo male, che raccontare dei fatti è sempre in qualche modo ricrearli.(2) Vorrei sentirti su questo punto.

MB: Tu per fatti cosa intendi? Che appartengono alla realtà?

LDT: No, li intendo nel senso più lato e meno positivistico, insomma. Quindi: una serie di cose, semplicemente, cioè un concatenamento di eventi che siano o meno accaduti in qualche modo… Questi vengono ricreati, nel momento in cui vengono narrati o, se sono accaduti, vengono restituiti, senza una ricreazione?

MB: Ma sia la parola restituzione sia la parola ricreazione sono abbastanza sinonimi per me. Attenzione, però, lo fa anche Macbeth, con Shakespeare. Cioè da qualche parte c'è stato qualcuno che ha assassinato un re. Io sono quell'attore che deve prendere quel qualcuno e trasformarlo in scena nell'essere che quei fatti li ha compiuti. Cioè non è che la narrazione fa altre cose. Cioè la narrazione è stato ed è uno strumento incredibile in cui la funzione dell'attore è tautologica. Cioè, tutto il mondo delle azioni è dentro il corpo dell'attore che narra… però, come dire, è una scelta di linguaggio. Non  è né il futuro del teatro né… cioè, è stata una sperimentazione. Adesso sto divagando fin troppo. Allora, lo devi fare con quella logica, è una scelta di linguaggio estremo in cui hai questa possibilità. Però non è che questo non avviene, cioè è chiaro che io devo ricreare con i mezzi del narrare, mentre l'attore che fa Macbeth deve ricreare con i mezzi di Stanislavskij, a seconda di che scuola sei, del regista che dà i suoi suggerimenti, però lo deve ricreare anche lui. Non è che quello di Macbeth è fatto originario che nasce lì. È già accaduto. Perché ciò è accaduto nei testi di Shakespeare, negli innumerevoli altri Macbeth che sono stati fatti nel mondo. Per cui, in qualche  modo, siamo sempre in un'idea diretta di ricreare e ricostruire qualche cosa. È chiaro che lo spettatore che vede Macbeth è uno spettatore che sta empatizzando con una figura che gli sta facendo credere che lui è Macbeth. Se è bravo, ci riesce. Lo spettatore che guarda uno che racconta, tutto questo è un processo d'immaginazione diverso. Come dicevamo prima. Cioè, deve essere lui che se lo ricostruisce in testa e, come dire, forse non sarà mai così preciso come quel Macbeth di quell'attore lì. È tutto più sporco quello che crediamo, quando ascoltiamo. Non è che ci affacciamo ad un film perfetto. E quindi anche proprio per questo a me  è interessata ed interessa la narrazione. Costringe in questa società veramente non solo a fare a meno del visivo, ma ricostruirti un tuo visivo che passa per altri canali.

LDT: E questo vale anche per la narrazione in video, non soltanto per la narrazione al teatro, visto che questo è un genere che va molto di moda oggi? Vedi il teatro di narrazione portato in televisione…

MB: Ed anche lì dipende da come lo fai. Perché più delle volte è noioso. Cioè, il teatro non si può portare in televisione, perché sono delle condizioni biologiche diverse. Perché non stiamo lì, non c'è la compresenza, quindi se eliminiamo questo, secondo me, è un problema che non c'è. Nel senso che non si pone. Se tu porti una qualsiasi cosa in televisione, compresa la narrazione, devi inventarti un linguaggio che non è più televisione, non è più teatro. Allora, devi però costruirlo. Non mi pare che ci si stia lavorando. Io vedo Paolini che fa il sergente, come l'ho visto al teatro, quattro camere, un po' ripreso di qua, un po' di là,  ed è meno forte che in teatro. Non c'è dubbio. Come erano meno forti le commedie di Eduardo. Allora o si ha la capacità di inventarsi un linguaggio, che però vuol dire più camere, più tempi di montaggio, più invenzione, no? Perché allora devi usare la camera in modo diverso. Allora diventa interessante. Se no, si perde tanto tempo e tanti soldi.
Bisogna creare un linguaggio che permetta a quel tipo di teatro di non essere più teatro e quindi poi lo spettatore lo deve poter accettare. E poi che funzioni lo stesso, Celestini che fa i suoi numeri a "Parla con me" o Paolini, voglio dire, anch’io ho fatto le cose mie…, quello funziona perché anche quello è inaspettato, no?, perché lo spettatore non è mai stato abituato a credere che ci possa essere uno da solo che gli sta raccontando una storia di quella potenza. Però, è comunque un surrogato povero, diciamo, di quello che invece accade nella compresenza del teatro. Ma, attento. Io non sono un difensore della purezza del teatro. A me vanno benissimo i mass-media. Cioè, io potessi lavorarci, ci lavorerei. Però, va fatto un lavoro.

LDT: Spesso, anche nel tuo ultimo libro ritorna questa idea… che il teatro ed in particolare la narrazione su una sedia, questa essenzialità, questa ricerca dell'asciuttezza dei segni, abbia un valore politico, diciamo, soltanto per il fatto di essere fatta, indipendentemente dai suoi racconti, ecc. Proprio perché si pone in questa società, con questa emorragia di stimoli, di output, ecc. Quindi, in che senso, non sei un difensore, diciamo, del teatro e ti vanno benissimo i mass-media?

MB: No, no. Attento. Non è che mi vanno benissimo. Sto dicendo, mi interessano molto le tecnologie. Se le potessi usare con dovizia di soldi, di tempo per poterli usare, io credo che potremmo inventare... io ci sto lavorando, io adesso la prossima cosa che faccio, se ce la faccio, è una cosa narrativa, televisiva, che però presuppone un modo di lavorare completamente diverso. Non mi interessa fare il mio teatro e poi riprenderlo intelligentemente con le camere, questo non funziona. Bisogna inventarsi dei linguaggi. Bisogna lavorarci. Io non difendo i mass-media così come sono, andrebbero  sterminati. Però, sono fatti da strumenti, quelle tecnologie lì, compreso il microfono, compreso tutto quello che si può mettere dentro, vanno usate in modo diverso. Alla fine degli anni '70, si era incominciato a sperimentare: Martone, Barberio Corsetti, Raffaello Sanzio, i primi videoclip teatrali si vedono fatti alla fine anni '70, poi non si sono più fatti…

LDT: Prima di ritornare ancora su questo rapporto tra i linguaggi e gli strumenti, volevo chiederti, ancora per approfondire il discorso del teatro di narrazione e del tuo approccio al teatro di narrazione, quali sono le influenze che tu hai sentito più forti, visto che comunque questo genere praticamente te lo sei inventato negli anni '80. Volevo sapere se per te è stato più importante l'influenza, ad esempio, di un teatro popolare, alla cunto siciliano per intenderci, o ad esempio le indicazioni di Brecht sull'epicità oppure Mistero Buffo di Dario Fo.

MB: Non so dirti. Ecco, il cunto no, perché l'ho conosciuto dopo. L'ho incontrato dopo devo dire e lo dico pure nel libro, faccio un omaggio a Cuticchio, però dopo. Si, Mistero Buffo l'abbiamo visto tutti negli anni '70, forse inconsciamente. Non ti so dire. Non ti saprei dire cosa c'è dietro, se… cosa hai detto, l'altra cosa?

LDT: … le indicazioni di Brecht sull'epicità.

MB: Ma quelle forse un po' di più, ma quelle più di testa, più intellettuali. A me piaceva molto ottenere l'estraniamento, avevo letto Brecht, però forse nemmeno questo… Certo, il mio primo maestro è stato Carlo Formigoni e lui era un allievo di Brecht. Sai sono cose che passano anche attraverso l'esercizio. Tu non te ne accorgi, ma nell'esercizio fatto in quel modo lì, lui ti sta dicendo una cosa che riguarda una modalità diversa di stare in scena; cioè, i maestri non sono innocenti, quello che trasmettono è un sapere, che neanche loro stessi sanno da dove viene. E quindi è probabile che ci sia stata anche quella cosa lì, poi tutta la mia esperienza è stata un'esperienza sul campo, per cui sono stati appunto soprattutto le scuole, i ragazzini, la piazza, le strade, catturare la gente per strada, raccontare una cosa al parco. Tutto, tranne che nel teatro.

LDT: Quindi un'esigenza più prettamente artigianale all'inizio, che non intellettuale o politica o teorica.

MB: No, e ti dirò. Infatti, è arrivata molto tardi. Quando ho scritto il primo libretto, Pensieri di un raccontatore di storie (3), siamo già nel '91-'92, io avevo incominciato a raccontare storie nel '82-'83, le prime fiabe. Però, le vedevo come uno strumento, capito? Era una delle varie… C'era l'animazione, c'era il teatro per ragazzi, e poi c'erano questi esperimenti che facevo in assoluta solitudine. Poi è venuto Roberto Anglisani che mi ha seguito, il più grande raccontatore di fiabe in Italia. Però, è venuta un po' così, non c'è stata premeditazione.  Sicuramente non è stata intellettuale. Non è che mi sono detto: adesso proviamo a vedere… Tutte queste cose che ti sto dicendo sono riflessioni a posteriori. La politica, lo spostamento, l'occhio, l'orecchio… sono venuti dopo. Non è che prima ho detto “faccio una cosa di questo tipo…”, non sapevo neanche che effetti avrebbe prodotto. Cioè, io ho fatto Kohlhaas per due anni solo per le scuole. Avevo fatto più di 200 repliche, non le ha viste nessuno. Cioè, non si sapeva neanche che cos'era. Poi, una sera mi invitano al Teatro Verdi a Milano ed è un successo. Arriva Palazzi, scrive l'articolo ed è il boom.

LDT: E' questa idea della sedia? Perché, soprattutto nel primo spettacolo, questa ricerca netta e decisa della staticità, almeno della tendenza all'immobilità, che funzione doveva avere per te?

MB: E' sempre artigianale. Perché con i ragazzini avevo sempre sperimentato seduto. Lo so, tu vorresti delle cose più…

LDT: Sì, degli scoop!

MB: E invece… Cioè, il teatro è arte artigianale. Ma tutta l'arte. Io penso che tutta l'arte sia così. Purtroppo, dal Romanticismo in poi l'hanno fatta diventare un'altra cosa, sublime… E quindi la difesa dell'artigianato per me è anche un valore, nel senso che tu pratichi, pratichi, pratichi, pratichi e alla fine a forza di scalpellare in un certo modo, poi sai come dare la botta con lo scalpello per fare quella cosa lì. Però, ci vuole un sacco di tempo. Infatti, tutti i danni che, ahimè, ha fatto la narrazione è che si sono tutti svegliati, fanno un corso di una settimana e credono di poter raccontare.

LDT: Una domanda generale su che cos'è ancora narrazione. Voglio citare questa bellissima frase che mi è rimasta impressa dal libro, anche perché si ricollega a un'impressione forte che ho avuto durante la presentazione di questo libro al teatro India.(4) Cioè: "dire le cose serve solo per dare un senso al nostro passaggio in questa vita". Mi interessa molto perché da un punto di vista teorico e semiotico, in particolare, è stata sondata molto in profondità questa idea che il senso si costruisca attraverso le narrazioni. Ci sono fior di filosofi nel '900, come Ricoeur, ma a partire da Aristotele, per cui appunto il senso si costruisce attraverso la narrazione. E un'esperienza nuda, diciamo così, tra virgolette, non potrebbe essere sensata. Che ne dici?

MB: Hai già detto tutto. Lo credo profondamente, però non credo che sia solo la narrazione. O almeno se non decliniamo narrazione in tanti modi. Io non credo che in questo caso stiamo parlando della narrazione di un attore che racconta, cioè anche Picasso fa una narrazione in Guernica.

LDT: Ecco, allora come intendi la narrazione, in questo senso lato?

MB: Nel senso di costruire un percorso di segni che dica un qualcosa che ci produce un senso.

LDT: Quindi anche una rappresentazione può essere una narrazione.

MB: Una scultura, un quadro. Però, se vedi... Cioè, non tutti sono così. Cioè, ci deve essere dietro un percorso. Cioè, quando tu vedi L'uomo che cammina di Giacometti, lo capisci che c'è stato qualcuno che ha incominciato a camminare da tanto tempo prima per arrivare a fissarsi in quella stanza. Allora, questo non accade in Cattelan, per dirne uno di contemporanei, dove c'è un'irrealtà puramente presente, un' oggettività, non c'è più la narrazione. Secondo me, la narrazione è un dire con diversi strumenti del dire, poi se vuoi parliamo della narrazione orale e del racconto. Però, è un dire per tentare di dare una parvenza, io direi, proprio una parola grossa, una parvenza di senso ad una dimensione assurda in questo cammino. Cioè, sono frammenti di senso che tu dai attraverso l'arte, non è che ricostituisci un senso, compiuto. Però, rispetto all'insensato del mondo che ti circonda, quel gesto è un gesto che dona al mondo un barlume di senso e fa sentire gli essere umani meno sperduti. Però, questa mia visione è di un non-credente. Per un credente tutto ciò che sto dicendo è bestemmia, no? Per Ricoeur era completamente diverso. Era credente. Cioè, attraverso la costruzione del senso e del dire, lui leggeva il divino. In quella fase l'essere umano non solo ridà senso all'esistenza, ma questo senso fa leggere il grande disegno. Quindi redime, lui parla di redenzione, questa è una visione di qualcuno che ha fede che c'è un disegno.

LDT: Per te dunque non si tratta di ricostruire una temporalità escatologica, diciamo così.

MB: No, questo proprio no.

LDT: Ecco. Né, diciamo, che ubbidisce ad un disegno, ma si tratta di costruire una temporaneità momentanea.

MB: Momentanea, frammentaria, momentanea. Che ti consegna comunque una parvenza di senso. E ti aiuta, è curativa. Non so come dire, sono degli elementi in cui tu per un momento dici: “ah, ma allora…” Io vedo La Guernica e mi rendo conto che c’è stato un bombardamento di una città di povera gente. Quella cosa lì, è molto forte. Mi fa venire 300 pensieri, su come, cosa, cosa vuol dire stare, poi uno pensa al terremoto, l'altro pensa, non lo so, gli animali che scappano dallo zoo, uno si ricorda un film… Cioè, si mescolano tantissime cose se tu sei dentro a quel dire. Quel dire ti sta catturando, ti sta isolando dalla realtà di tutti i giorni, ti sta costruendo un'altra realtà, dentro la quale tu hai il diritto, il permesso, la possibilità di costruire per un momento un inizio, uno sviluppo, una fine. Che magari è anche brevissimo. Può essere anche nell'atto. Non è che hai uno sviluppo lineare per forza. Però, in quel momento, quello è l'arte, secondo me.

LDT: E quindi nel dare una compiutezza anche ad un incompiuto.

MB: Certo. Poi ti posso dire, una cosa come Kohlhaas la dà a palate, no? Nel senso che costruisce un grande "se", che devi seguire dall'inizio alla fine, dentro cui però ci sono tanti frammenti di "se". Cioè, in realtà è una trappola, nel senso che tutta la storia in sé non serve, cioè serve a catturarti. Tu vuoi sapere come continua, ma in realtà Kolhaas si è fatto di tanti momenti di senso, no?, poi ognuno prende quelli che gli servono, la storia più grande serve a rincasellarli lì e a non farti andare via, dopo che hai assorbito la prima botta del dire-senso. Potresti dire “me ne posso andare”, e invece resti, perché poi forse ce ne saranno altre. Però, è la trappola della narrazione fiabesca, della favola. Quella cosa lì, che non accade in tutte le narrazioni.

LDT: Tutto questo mi sembra che vada molto aldilà dei limiti del genere "teatro di narrazione". In questo senso mi pare paradossalmente curioso che il fondatore del teatro di narrazione italiano vada  molto aldilà del suo concetto fondativo.

MB: E perché lo trovi curioso? Se ci pensi non è tanto lontano.

LDT: E' coerente, invece?

MB: Il problema è che tu ascoltando uno che racconta, ti sembra che il precipitato di senso sia infinitamente più grande. È solo quello il problema. Mentre, davanti ad una scultura fai più fatica. Ma fai più fatica perché la guardi distrattamente. Se tu ti pagassi un biglietto e fossi ubriaco per un'ora davanti ad una scultura di Giacometti, usciresti con la stessa storia di Kohlhaas! Il problema è che lo fai in un altro modo; c'è quel tipo di percezione. Allora, lì è per eletti. Sulla base o un momento di cattura di tutte le sculture che sono sempre tutte nuove, becchi quella, l'altro becca quel quadro. A ciascuno sta dicendo qualcosa. Rilke diceva "Ognuno ha il suo poeta". Lo diceva di quelli che leggono i libri nelle biblioteche, diceva "che bello, qui ognuno ha il suo poeta". Ognuno per un momento, diverso da tutti gli altri, sta costruendo il suo senso. Per un momento sta immaginando che ci sia un angelo che lo sta aiutando a costruire un senso.

LDT: Senti, visto che mi stai suggestionando tanto con queste immagini scultoree o pittoriche, questo mi sembra un tratto molto importante del tuo lavoro, ma direi del lavoro, se non di tutti gli artisti teatrali, almeno dello maggior parte insomma, ma in particolare rispetto al tuo percorso. Ad esempio, nel tuo ultimo libro, ci sono delle foto molto belle di Enrico Fedrigoli che mi richiamano delle composizioni cubiste. Perché, in qualche modo, cercano di catturare le diverse sfaccettature delle tue performance o addirittura il movimento, quindi anche delle tracce di futurismo.

MB: Bacon.

LDT: Bacon?!

MB: Bacon era un post-espressionista.

LDT: Sì, era per dire... la cosa mi interessa non per rintracciare le influenze di questo fotografo, ma per costruire teoricamente un atteggiamento anche etico, documentario, diciamo, di fotografi, operatori cinematografici o televisivi sul teatro. Come se il teatro potesse essere restituito meglio, più fedelmente, quanto più lo si tradisce e lo si trasforma nel proprio linguaggio.

MB: Eh, ma è quello che dicevamo prima della televisione! È un altro modo per dirlo, questo del tradimento è giustissimo! Tradere, trasportare…

LDT: Quindi queste foto per te, in che modo riescono a tradurre-tradire il tuo teatro?

MB: Beh, Enrico è un fotografo che lavora con il banco ottico. Quindi, è un pazzo totale perché si sposta con tutto quel materiale che pesa quintali... E ha lavorato ultimamente sempre molto con i teatri di sperimentazione, Motus, Fanny & Alexander… Mi interessava molto. Quando ha visto Kohlhaas lui ha detto "voglio provare a fotografare la tua voce". Che è impossibile, no? Però, non abbiamo fotografato la voce… non era tanto il problema di far vedere tutti i movimenti di un corpo, perché se no si sarebbe anche potuto fare con una spalmata più lunga, allora aprivi l'obiettivo lo lasciavi per la durata… e invece, lì, è stato tutto un lavoro lunghissimo. “Stai venti secondi, fermati, io faccio una fotografia con un diaframma aperto, con un diaframma chiuso,riparti…” Cioè, tutto quel lavoro che sembra una sola foto, in realtà sono 18 foto. 18, 19, 20 lastre che poi lui mette insieme. Quindi c'è un lavoro di montaggio, che non corrisponde più a nulla del Kohlhaas, però restituisce l'imprendibilità del corpo. Io volevo che lui facesse non tanto la bella fotografia, me ne hanno fatte 3000, dove  vedi la posa, l'attore che sta interpretando. Ma quella cosa lì, in realtà, al teatro non la vede nessuno. È un trucco, è una truffa. O Dio, è un tradimento anche quello se vogliamo.

LDT: Però, forse disonesto. Perché si spaccia per la restituzione fedele. Ecco.

MB: Non lo è! È uno che ha deciso di tutta la situazione di fissare un frammento, di ingigantirlo, di estrapolarlo, di toglierlo dal contesto della sua fluidità, quindi dal tempo e dalla biologia… e ormai è questa la convenzione della fotografia teatrale.
Poi c'è Buscarino, che lo fa stupendamente, altri fanno meglio. Qui, no, qui siamo dall'altra parte. Qui c'è quell'idea che quell'immagine non si può fermare. Tu non puoi farmi vedere quanto sono bravo nel momento di massima stasi o di massima tensione. Vedi la faccia, allora tutti dicono in quel momento poi quanto è bravo quell'attore. Qui la faccia è mostruosa. Perché l'attore è un mostro. Noi mostriamo continuamente, capito? Allora è un fluire di tempo quello che accade in teatro, non è una successione di fotogrammi. E questo fluire, allora queste foto, in qualche modo, ne restituiscono però una cosa, che è quello che succede nella testa dello spettatore. Le deve mettere insieme lui, poi le immagini per dare un senso alla successione di quello che accade. Però, chiaramente, che succede? che nessun giornale ti pubblicherà mai una di quelle foto. Perché la definizione di quelle foto sulla pagina giornalistica dove di solito si mettono le foto teatrali…ha un bassissimo grado di definizione, perché c'è bianco e nero, i colori non ci sono… una cosa del genere è solo mossa. Quindi, entri nell'errore, ma per me no: sono le convenzioni con le quali leggiamo la realtà.

LDT: Senti, volevo ancora soffermarmi su questo rapporto tra il teatro e gli altri linguaggi, per mettere in crisi l'idea che il teatro abbia il suo linguaggio separato dagli altri. Cioè, tu fai continuamente riferimento agli altri e alle fonti di ispirazione che vengono per te da altri domini, dell'arte, ad esempio la pittura, la scultura... In questo ambito di discorso, mi pare doveroso richiamare La Pelle con le citazioni da Caravaggio. (5) Che cosa queste hanno significato per te, soprattutto che cosa credi, con quelle situazioni e con quelle immagini, di aver costruito nel tuo spettacolo. In che modo quelle immagini hanno arricchito e rivalutato, nel senso più radicale, cioè trans-valutato il senso del tuo spettacolo. Tanto spesso da essere riconosciute come citazioni pittoriche, voglio dire.

MB: Io tutte le volte che ho fatto spettacoli corali, dove c'è un bel gruppo di attori dai 9 ai 50, ai 100, mi sono sempre appoggiato a questo patrimonio. il teatro ha un andamento tra il puttanesco  e il ladro. Il teatro è ladro e puttana. Perché prende da tutti e ruba dove può. Perché il teatro è il luogo dove tutti i linguaggi sono possibili. Cioè, è uno dei pochi luoghi… io posso mettere tutto lì dentro: cinema, televisione, radio, scultura, pittura, architettura. Voglio dire che è fatto con queste cose qua: musica, suono, voce. E poi c'è il corpo dell'attore che è l'insieme di tutte queste cose mescolate. Quindi, sono rimasto sempre molto influenzato dalla civiltà a cui appartengo. Non potrei mettere in scena le mie cose, come dire, l’immaginario africano che non conosco, che c'è, c'è come c'è il nostro, come il cinese e l’orientale, c'è come c'è il nostro. Noi abbiamo una tradizione millenaria di immagini prodotte. E allora, quando lavoro con gli attori, mi piace molto usare alcune, alcuni frammenti di quell'immaginario per condensare un senso ancora più alto rispetto a quello che sta accadendo. Allora, non si può usare sempre, non è che tutto lo spettacolo deve avere un andamento di questo tipo, se no l'estetizzazione diventa prevalente. Si sono visti spettacoli di questo tipo.

LDT: Quindi è una questione di equilibri.

MB: Peter Greenaway, Bob Wilson, usano questa cosa qua. Proprio ultimamente ci ho lavorato molto per lo spettacolo La Repubblica di un solo giorno (6) che si ispirava a Gerolamo Induno, Hayez, Fattori, Segantini, pittori del Novecento che hanno dipinto il Risorgimento, i colori, i costumi... È un immaginario. È chiaro che in qualche modo anche il più sprovveduto degli spettatori, che non è mai andato a vedere una mostra d'arte, ce l'ha dentro. Io credo che tutta la nostra pittura, tutta la nostra scultura, ce le abbiamo nel dna, antropologicamente, anche se non hai mai visto Canova da vicino, o non hai mai toccato una sua statua. E quindi hai tutto quel materiale da poter saccheggiare. Perché non saccheggiarlo, quando saccheggiamo da tutte le parti?

LDT: Ultime due domande: una relativa al rapporto fra due concetti, due fatti  molto importanti al teatro e cioè empatia e straniamento; ed un'ultima domanda su come studiare dal punto di vista semiotico l'atto teatrale. Allora, per quanto riguarda la prima domanda, tu hai scritto nel tuo libro che i tuoi spettacoli empatia e straniamento vanno di pari passo.

MB: Mi piacerebbe che andassero di pari passo. Non sempre succede.

LDT: In che modo tu lavori sulle azioni, sui gesti, sui segni del tuo corpo, del corpo degli altri o del corpo scenico in generale per creare l'uno, l'altro o l'altalena?

MB: Mah… ci sono due modi nel procedere nel lavoro. Che sono poi le grandi scuole del teatro occidentale. Stanislavskij da una parte, la commedia dell'arte dall'altra. Non ci siamo inventati altro che queste due. Cioè, il terzo teatro di Barba è la commedia dell'arte applicata al corpo di Stanislavskij. Cioè, queste due sono state le due grandi scuole. Chiaramente Stanislavskij viene molto dopo, con la rivoluzione, dopo l'industrializzazione, prima non si sarebbe pensato che il corpo poteva essere oggetto di un'analisi così approfondita. Solo con il fordismo il corpo diventa produttivo. Quindi per secoli siamo andati avanti con queste due, non credo ce ne siano altre. Queste due generano una ramificazione infinita di possibilità combinatorie. Brecht si inserisce qui con lo straniamento, Brook con l'idea del risveglio. Quindi, è un modo di procedere durante il percorso delle prove. Io faccio in modo che i miei attori non siano né completamente alla ricerca della verità stanislavskijana, cioè del personaggio che quando parla è lui, ci credi, perché ha una storia, una sua memoria, perché è capace di entrare dentro la pelle di quel personaggio. Come accade quando vedi i russi: resti impressionato dalla loro adesione fisico-sensoriale al personaggio. È una cosa buona, però a me non basta, perché se per tutto lo spettacolo resti così, a me come spettatore lasci poco spazio per immaginare altro da quello che sto vedendo. Se è così onnivoro, onnicomprensivo questa tuo pormiti davanti, che ti leggo il sudore, piango con te, respiro con te, sudo con te, poi dò vado io? E considera, qua ci sarebbe da aprire tutto il capitolo Actor's studio, cioè Stratsberg, che è allievo di Stanislavskij. Stratsberg inventa l'Actor's studio sul metodo stanislavskijano per gli attori americani e quindi riduce tutto il lavoro enorme che Stanislavskij aveva fatto sull'intimità e l'interiorità del personaggio legato alla memoria, alle domande di Stanislavskij sull'infanzia del personaggio. Lo riduce ad uso e consumo di una prestazione segmentata e frammentata come quella del cinema. Fa una cosa geniale, Stratsberg. Quindi, insegna come tenere una tazzina in mano e come sentire il caffè che stai prendendo mentre parli di tutt'altro, il sapore del caffè tu lo devi sentire anche se il caffè non c'era e la tazzina non ce l'hai in mano. Quindi, un altro sviluppo di quella scuola lì, molto funzionale e pragmatico, perché poi serve per fare una cosa che non ha linearità, dove tu inizi l'ultima scena che già alla fine del film, cioè le devi saper fare quelle cose lì. No, perché ho detto questo? Mi sono perso…

LDT: Stavi parlando delle due grandi direzioni di lavoro…

MB: Allora, quella cosa lì, bisogna conoscerla, praticarla, è quella con cui tutto il teatro borghese ha convissuto. Poi da noi non è mai stata molto presente perché ha prevalso l'attore Trombone o l'attore mattatore, perché arrivava dalla tradizione dell'opera lirica e quindi il melodramma. Quindi, Stanislavskij non ha avuto un grande seguito da noi. Pirandello l'hanno fatto meglio all'estero che da noi, l'hanno fatto sicuramente meglio i tedeschi, i russi, gli anglosassoni. Però, quel mondo lì è un mondo, come dire, veramente dove tutto è dato. Allora, ed è il mondo del dramma tradizionale, dove tutto è dialogo e dramma. Allora, io voglio che all'interno, voglio, cerco nei miei lavori di fare in modo che quel mondo non si perda perché è la nostra tradizione del passato prossimo e perché ha un potere enorme di empatia, però non può essere che in tutto lo spettacolo sia così. Allora il problema è come entrare ed uscire da spezzoni di dramma. La repubblica di un solo giorno più de La Pelle, perché La Pelle non ce l'aveva proprio queste cose. È una serie di quadri staccati tra di loro come il libro. Invece in quest'ultimo lavoro è proprio molto evidente. C'è un coro di attori che fa movimenti, azioni, immagini pittoriche, barricate, musiche, danze, e poi improvvisamente tac: in tre diventano personaggi, quello è il ragazzino che scappa, io lo riprendo per i capelli, diventa quasi una specie di teatro naturalistico. Allora questi spezzoni, entrare e uscire dall'immedesimazione del personaggio, per riallargarlo improvvisamente e fare qualcosa  che non c'entra niente con quello e vai in un altro mondo, magari quello della danza, è generico straniamento.

LDT: Vorrei, però, mettere in discussione quest'idea che l'empatia sia legata ad un canone, cioè quello del teatro borghese, del tetro classico, ecc. Evidentemente l'empatia, cioè la direzione di lavoro dell'immedesimazione è stata creata per, in funzione di una resa teatrale in questo senso qua. Però, io immagino che in un teatro, ammettiamo, del tutto antiborghese, una piccola scena buttata lì di teatro classicamente borghese, è uno straniamento molto più grande di quello che si otterrebbe perpetrando quel canone antiborhghese.

MB: Sono d'accordo.

LDT: …quindi empatia e straniamento sono sempre in relazione dialettica tra di loro...

MB: Sì, però le stai leggendo con una coscienza… cioè non ce l'hanno tutti chiara questa cosa.

LDT: Si, va bene. Io chiedo a te se sei d'accordo…

MB: Sì, sì, io sono molto d'accordo.

LDT: Soprattutto per dire che l'empatia è anche ottenibile  con la narrazione antiborghese.

MB: Non solo. Io sono ancora di più alla ricerca, a me piacerebbe che nel momento in cui gli attori si mettonessero a danzare, ma non una danza coreografica che se no diventa canone, non ti accorgessi neanche che stanno ripetendo una gestualità… io vorrei che scattasse pure lì l'empatia. Allora se ci riesci, crei dei corto circuiti continui. Lo spettatore è continuamente messo in una condizione che deve aderire o no, aderire o no, aderire o no. E questo lo tiene sveglio. Io credo che sia il risveglio di cui parlava Peter Brook, mentre lo straniamento di Brecht era ancora di ordine drammaturgico, era ancora di ordine testuale, era sui contenuti dello spettacolo, non era sulla forma. Un po' sulla forma, i cartelloni, lo stacco, quello che viene in avanti e dice il titolo della scena successiva, il pezzetto di canzone che viene messa in mezzo… c'erano già anche delle cose formali, ma la canzone serviva per spiegare i contenuti della scena prima. Cioè, era l'educazione del popolo, era molto ideologico… però geniale, se pensi a quando l'ha fatto, siamo tutti figli di quella idea.

LDT: L’ultima domanda è sul modo in cui, secondo te, bisogna approcciare il teatro in tutta la sua generalità, complessità e quindi non soltanto eventualmente lo spettacolo, per studiarlo per bene da un punto di vista semiotico. Perché, come sai negli anni '70 e '80, si è molto soffermati sullo spettacolo che si è inserito all'interno del paradigma del testo, per cui si è arrivato a parlar del testo spettacolare come oggetto scientifico da poter studiare, quello più o meno ripetibile, quindi quello più o meno strutturato, più analogo al film, più analogo al testo scritto, ecc, ecc. Ora, però noi sappiamo che lo spettacolo è qualcosa che si rinnova a seconda del pubblico, dei contesti, ecc. Quindi, la domanda è: da un punto di vista semiotico, quindi ambiziosamente scientifico, e tu sai che non vi è scienza se gli oggetti che si studiano non sono in qualche modo ripetibili, è lo spettacolo che bisogna studiare oppure, non so, altro, bisogna prendere in carico le prove, la progettualità artistica, quale indicazione ti sentiresti di dare ad un proggetto scientifico di questo tipo?

MB: Se la scienza, come tu dici, è la possibilità di riverificare i contenuti del proprio procedere, delle proprie analisi attraverso la ripetizione, vuol dire che non ci siamo. Il teatro non è quello, non è ripetibile. Lo so che tutte le sere cerchiamo di ripetere quella cosa lì, perché si chiamano repliche, ma lo sappiamo che non è così. Un giorno ho la febbre, un giorno quello ha litigato con l'altro attore, oppure un giorno lo spazio acusticamente è sbagliato, si alzano in 15 per pisciare… cioè, non è mai uguale. Allora, se tu lo vuoi scomporre, io penso che c'è un problema a monte. Siccome, la semiotica, per come la conosco io (non è che sono un esperto di semiotica), vuolescomporre per frammenti... Io penso questo: serve una visione leonardesca. E serve, è un modo di procedere come quando Bloch studia il narrare, Bloch o Benjamin studiano la narrazione. Cioè, non si fissano sull'elemento testuale, non si fissano sulla costruzione della parola. Mettono in gioco tutto, compreso il loro essere osservatori di quella cosa lì. "Cosa ti sta succedendo a te?", è più utile spiegare e tentare di analizzare un fatto teatrale anche con le ricadute che tu hai avuto del fatto, che non pretendono un'oggettività scientifica. Quindi, secondo me non è scomponibile in testo, attore ecc. Non posso andare ad analizzare questi elementi, come se ciascuno di essi fosse un significante. Non lo è, perché preso da solo no lo è. È l'insieme e l'allaccio di queste cose nella totale sporcizia, nel totale errare. Lo so che tutto questo sembra l'enfasi allora dell'improvvisazione, del teatro come cosa biologica, quindi imprendibile, e non lo puoi analizzare. Io penso che sarebbe bello analizzarlo, però avendo una visione che rimanda anche a tutti gli agganci che in quel momento quella cosa di quell’attore rimanda a te, perché tu in quel momento hai visto un film, che hai visto solo tu, magari manco il regista che ha fatto quella cosa o quell’attore, però lo puoi leggere grazie ad Al Pacino quello che si sta facendo in quel momento. Allora perché non mettercelo? Dice: non è scientifico. Perché? Cioè, io penso così. Cioè, se io dovessi andare a vedere uno spettacolo per analizzarlo nella sua struttura, per tentare di destrutturarlo… Io, adesso faccio una cosa, in questo ultimo anno sono arrivato alla novecentottantesima replica di Kohlhaas in certi posti lo destrutturo. Cioè, io faccio delle lezioni in cui smonto Kohlhaas, e lo faccio proprio vedere a pezzi, facendo capire che lavoro c'è dietro… l'incipit, per esempio. Io parlando dell'incipit, lo faccio vedere, vedo come è costruito, allora vedo: come è costruito il testo, il linguaggio, il corpo cosa fa, cosa vedo, cosa fanno gli occhi, cosa fa la testa. Quindi, come fai. Lo puoi smontare, ma non lo puoi…, come dire, quello che ho detto prima. Non puoi isolare un significante. Secondo me, se lo fai… lo puoi fare, però...

LDT: Non è detto che bisogna farlo. Le indicazioni che stai dando possono essere riconciliate con uno studio strutturale, diciamo così. Si utilizza una struttura più ampia…

MB: Ecco, strutturale onnicomprensivo, capito? Come se avessi… non lo dovessi riportare in una sola cosa, come se a tua volta dovessi riportare quello che stai vedendo su uno schermo panoramico gigante, non so come dire, no? Forse allora avrebbe più senso tentare… Perché la critica fallisce sempre? Perché o si appunta sulla letterarietà del testo che è stato costruito o, quando il testo non c'è, si appunta sui rimandi estetici di quello che ha visto. Raramente riesce a mettere insieme due o tre linguaggi di quello che è lo spettacolo: i corpi degli attori non ci sono quasi mai. Cioè, sono visti come quadri, come immagini. Quindi, la biologia dei corpi, la fatica, il come quel corpo è arrivato a fare quella cosa, mai. Come mai? No, voglio dire…. vuol dire che non ho lo spazio per scrivere tutto. E’ anche un problema mentale. È anche un problema di approccio, no?

LDT: Potresti darmi un esempio o due esempi positivi di critica o di critici da seguire, in questo senso?

MB: Ti dovresti andar a rileggere le recensioni di Flaiano, quando andava a teatro. Erano geniali. Perché c'era lui. Va bene, aveva il triplo di pagine, aveva il triplo di spazi, di battute di quello che ha Franco Quadri. Però, portava tutto se stesso dentro ciò che stava vedendo, quindi non si limitava…. A dire il vero anche il '900, cioè quando riuscivano ad andare a sentire Mahler… Schnitzel che  legge Mahler non sta parlando né di musica né di composizione, sta parlando di  politica, cioè, eppure allo stesso tempo ti sta dicendo cosa ha visto, cosa ha sentito. Però, perché appartenevano ad un mondo in cui la complessità era un dato. Cioè, la complessità era dentro il modo di procedere dell'indagine. Noi, oggi, la complessità ce l'abbiamo solo come referente, no? Il mondo è complesso, però procediamo per finestrine, per accostamenti schematici di finestre. Non c'abbiamo un pensiero complesso, noi. Cioè, è complessa la realtà, ma noi non siamo complessi. Noi siamo assolutamente superficiali. Per questo, io non sono assolutamente d'accordo con I Barbari di Baricco. Sì, è vero, ma quella cosa lì sono i nuovi barbari, vuol dire che sono i figli di questo mondo che abbiamo fuori e serve quindi un pensiero complesso per analizzare il teatro. Perché il teatro è ancora un residuo arcaico di qualcosa che non ha nulla a che fare con questa complessità apparente, no? Non è che è apparente. Il mondo è complesso, è vero, e per decifrarlo e tentarci di stare dentro, gli strumenti che abbiamo sono come gli strumenti di un primitivo che scrive solo una cosa rispetto ad un mondo che ha, è gigantesco. È paradossale. Noi crediamo – internet, no? – di essere riusciti a comprenderlo. È l'esatto contrario, stiamo lavorando, stiamo facendo i graffiti sulla caverna rispetto a quello che sta succedendo. E sono pochissimi quelli che riescono ad avere una visione che mette insieme quello che sta succedendo in Cambogia rispetto a… cioè, quelli che riescono ad avere un pensiero complesso loro. Allora, secondo me, essendo il teatro un luogo arcaico, dove la complessità è ancora vivente nel modo di costruire quel dire, di cui parlavamo, dei tanti linguaggi che vi confluiscono dentro, per analizzarlo o'hai una testa complessa e quindi sei capace di far vivere la complessità come relazioni continue tra i diversi linguaggi, senza che nessuno prevalga sull'altro, se no sei spacciato.  Cioè, non lo puoi catturare.

 


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(1) Intervista dell’inverno 2011
(2) Marco Baliani, Ho cavalcato in groppa ad una sedia, Titivillus, Pisa 2010
(3) Marco Baliani, Pensieri di un raccontatore di storie, Comune, Genova 1991
(4) La presentazione di Ho cavalcato in groppa ad una sedia, cit., si è tenuta al Teatro India di Roma nel febbraio del 2011
(5) Di La Pelle, spettacolo del 2008 tratto dal celebre romanzo di Curzio Malaparte, Baliani è stato regista e attore
(6) Di La repubblica di un giorno solo, Baliani è stato coautore con Ugo Ricciardelli e regista. Per il NapoliTeatroFestivalItalia lo spettacolo è andato in scena al Real Albergo dei Poveri nel giugno 2010

 

Significazione.02
///Una rubrica per ripensare la relazione tra semiotica e teatro oggi///
a cura di Luca Di Tommaso

“Ladro e puttana. Il luogo dove tutti i linguaggi sono possibili”
Intervista a Marco Baliani su semiotica e teatro. (1)
di Luca Di Tommaso [PDF]

Marco Baliani è fra i maggiori autori, attori e registi italiani viventi. Fondatore negli anni ’80 del “teatro di narrazione”, ha realizzato moltissimi spettacoli, tra cui l’ormai classico Kohlhaas (1987) e numerosi progetti teatrali di rilievo sociale, come Pinocchio nero (2004) con i bambini africani di Nairobi. Ha scritto anche alcuni testi sulla sua esperienza teatrale e non, tra cui segnalo il recente Ho cavalcato in groppa ad una sedia, Titivillus, Pisa 2010. Su Baliani e il teatro di narrazione sono già pubblicati alcuni studi, tra cui da segnalare almeno Silvia Bottiroli, Marco Baliani, Zona, Arezzo 2005 e Gerardo Guccini, La bottega dei narratori, Dino Audino, Roma 2005.  Per approfondimenti www.marcobaliani.it.


LDT: Cominciamo questa intervista con una domanda relativa al teatro di narrazione, di cui tu sei stato forse l'iniziatore negli anni '80 in Italia. Cominciamo con questa domanda sulla differenza fra il teatro di narrazione e il teatro di azione o di rappresentazione,  relativamente a quelli che sono gli interessi di questo progetto e cioè la costruzione del senso a teatro e la natura della comunicazione teatrale. Come cambia per te la comunicazione teatrale, come cambia la tua comunicazione teatrale nel momento in cui ti metti a raccontare su una scena rispetto a quando per esempio ti metti a rappresentare o dirigere gli attori per condurli in una rappresentazione?
MB: E’ un problema di drammaturgia dello spazio, nel senso che quando sei il raccontatore, devi rendere visibile l'invisibile con pochissimi mezzi e soprattutto con pochissimo spazio a disposizione. Le azioni di una narrazione devono avvenire più nella testa degli spettatori che non nella realtà del palcoscenico, quindi non è che se devo fare un inseguimento, corro in palcoscenico. Le mie parole correranno ad un ritmo tale che il mio corpo accennerà all'idea di una corsa, ma sostanzialmente lo spazio è assai circoscritto.
Adesso, aldilà della mia estremizzazione, io che lavoro su una sedia, ma, insomma, anche se stai in piedi...la narrazione presuppone, come dire, il rifiuto  dell’uso di uno spazio inteso come spazio d'azione, perché tutto questo deve avvenire  all'interno di un rapporto dialogico tra narratore e immaginazione dello spettatore.  Quando, invece, dirigi degli attori – io stesso sono attore dentro un gruppo – o una  compagnia, o anche se si è in due persone, poi le possibilità sono tante, tu hai una possibilità di usare lo spazio, come dire, fisicamente, biologicamente, ti muovi nello spazio. Quindi il tuo corpo è preso da un'attività reale, aldilà che poi questa attività reale sia sempre simbolica. È chiaro che ci sono comunque 9 metri per 12. Quindi una maratona la puoi fare ma sostanzialmente stai sempre sul posto, voglio dire, è sempre simbolico, però è un simbolismo che mette il corpo in condizione di agirlo lo spazio, di muoversi nello spazio, di spostarsi. C'è una prossemica completamente diversa.

LDT: Questa differenza drammaturgica e di prossemica, per te, è una differenza di natura o è una differenza di grado? Perché mi viene da pensare che anche il narratore, anche se tendenzialmente immobile sulla scena, compie delle azioni che per quanto soltanto allusive sono comunque delle azioni reali.
MB: Non c'è dubbio, è chiaro che all'interno dell'occhio,  orecchio, dei sensi dello spettatore, la verità di quello che accade è comunque una  verità che parte da una condizione di realtà fisica, siamo tutti lì, nello stesso spazio-tempo, ma che genera un'immaginazione d'altro tipo. Quindi questo c'è sempre. È  chiaro che però  nel momento in cui io so che il mio corpo ha la possibilità di spostarsi  fisicamente, questo spostamento diventa un elemento di linguaggio, cioè io devo prenderlo in considerazione, ha lo stesso valore della parola, della musica, delle luci, no? Cioè,
come dire…è un atto concreto che io devo saper usare per farlo diventare atto  simbolico. L'altra cosa è una costruzione completamente diversa, nel senso che tutto  questo io lo devo incamerare nel corpo dell'attore. Lo spazio della narrazione è uno  spazio incamerato, non è uno spazio agito. Poi è chiaro che io faccio così (accenna a un gesto), è chiaro che il movimento del corpo c'è sempre, però è un corpo appunto, è il corpo di Murphy, di  Beckett, cioè è legato. È un corpo legato, non è un corpo che può davvero farle quelle  cose.

LDT: Quindi, diciamo, la narrazione con questo appello all'immaginazione dello spettatore richiede allo spettatore un maggiore impegno?
MB: Diverso, non direi maggiore perché se no qui si fa la difesa della narrazione … non è così… E' diverso. Se no diventa un'enfasi della narrazione. Chiedo allo spettatore di costruirsi un film usando la telecamera dei suoi cinque sensi. Ma lo fa anche quando c'è l'altro teatro. Voglio dire, tutto il
teatro, anche quello più tradizionale, è un teatro che comunque mette in gioco l'immaginazione dello spettatore. Infatti, dove è che cade il teatro tradizionale? Quando tenta di essere verosimile a tutti i costi. Lì è stato il crollo: il teatro borghese, Ottocento e Novecento. Ma perché non c'erano ancora né televisioni né cinema. Poi hanno vinto loro, cioè la verosimiglianza la fanno meglio loro. Ecco, lì quando il teatro ha creduto davvero che lo spettatore dovesse credere di stare dentro la stanza di Nora in un interno borghese, è andato bene finché qualcuno non è arrivato con la camera a farle meglio. Poi è finito quel teatro lì. Non è  più proponibile. Ma da sempre lo spettatore è stato costretto a completare l'immaginazione che gli attori danno.

LDT: Ed ora riguardo a cosa vuol dire raccontare in generale e quindi poi anche al teatro, volevo chiederti che rapporto c'è tra i fatti più o meno immaginari e il racconto di questi fatti, la narrazione di questi fatti. Mi pare che tu abbia scritto nel tuo libro, se non ricordo male, che raccontare dei fatti è sempre in qualche modo ricrearli.(2) Vorrei sentirti su questo punto.
MB: Tu per fatti cosa intendi? Che appartengono alla realtà?
LDT: No, li intendo nel senso più lato e meno positivistico, insomma. Quindi: una serie di cose, semplicemente, cioè un concatenamento di eventi che siano o meno accaduti in qualche modo… Questi vengono ricreati, nel momento in cui vengono narrati o, se sono accaduti, vengono restituiti, senza una ricreazione?
MB: Ma sia la parola restituzione sia la parola ricreazione sono abbastanza sinonimi per me. Attenzione, però, lo fa anche Macbeth, con Shakespeare. Cioè da qualche parte c'è stato qualcuno che ha assassinato un re. Io sono quell'attore che deve prendere quel qualcuno e trasformarlo in scena nell'essere che quei fatti li ha compiuti. Cioè non è che la narrazione fa altre cose. Cioè la narrazione è stato ed è uno strumento incredibile in cui la funzione dell'attore è tautologica. Cioè, tutto il mondo delle azioni è dentro il corpo dell'attore che narra… però, come dire, è una scelta di linguaggio. Non  è né il futuro del teatro né… cioè, è stata una sperimentazione. Adesso sto divagando fin troppo. Allora, lo devi fare con quella logica, è una scelta di linguaggio estremo in cui hai questa possibilità. Però non è che questo non avviene, cioè è chiaro che io devo ricreare con i mezzi del narrare, mentre l'attore che fa Macbeth deve ricreare con i mezzi di Stanislavskij, a seconda di che scuola sei, del regista che dà i suoi suggerimenti, però lo deve ricreare anche lui. Non è che quello di Macbeth è fatto originario che nasce lì. È già accaduto. Perché ciò è accaduto nei testi di Shakespeare, negli innumerevoli altri Macbeth che sono stati fatti nel mondo. Per cui, in qualche  modo, siamo sempre in un'idea diretta di ricreare e ricostruire qualche cosa. È chiaro che lo spettatore che vede Macbeth è uno spettatore che sta empatizzando con una figura che gli sta facendo credere che lui è Macbeth. Se è bravo, ci riesce. Lo spettatore che guarda uno che racconta, tutto questo è un processo d'immaginazione diverso. Come dicevamo prima. Cioè, deve essere lui che se lo ricostruisce in testa e, come dire, forse non sarà mai così preciso come quel Macbeth di quell'attore lì. È tutto più sporco quello che crediamo, quando ascoltiamo. Non è che ci affacciamo ad un film perfetto. E quindi anche proprio per questo a me  è interessata ed interessa la narrazione. Costringe in questa società veramente non solo a fare a meno del visivo, ma ricostruirti un tuo visivo che passa per altri canali.

LDT: E questo vale anche per la narrazione in video, non soltanto per la narrazione al teatro, visto che questo è un genere che va molto di moda oggi? Vedi il teatro di narrazione portato in televisione…
MB: Ed anche lì dipende da come lo fai. Perché più delle volte è noioso. Cioè, il teatro non si può portare in televisione, perché sono delle condizioni biologiche diverse.
Perché non stiamo lì, non c'è la compresenza, quindi se eliminiamo questo, secondo me, è un problema che non c'è. Nel senso che non si pone. Se tu porti una qualsiasi cosa in televisione, compresa la narrazione, devi inventarti un linguaggio che non è più televisione, non è più teatro. Allora, devi però costruirlo. Non mi pare che ci si stia lavorando. Io vedo Paolini che fa il sergente, come l'ho visto al teatro, quattro camere, un po' ripreso di qua, un po' di là,  ed è meno forte che in teatro. Non c'è dubbio. Come erano meno forti le commedie di Eduardo. Allora o si ha la capacità di inventarsi un linguaggio, che però vuol dire più camere, più tempi di montaggio, più invenzione, no? Perché allora devi usare la camera in modo diverso. Allora diventa interessante. Se no, si perde tanto tempo e tanti soldi.
Bisogna creare un linguaggio che permetta a quel tipo di teatro di non essere più teatro e quindi poi lo spettatore lo deve poter accettare. E poi che funzioni lo stesso, Celestini che fa i suoi numeri a "Parla con me" o Paolini, voglio dire, anch’io ho fatto le cose mie…, quello funziona perché anche quello è inaspettato, no?, perché lo spettatore non è mai stato abituato a credere che ci possa essere uno da solo che gli sta raccontando una storia di quella potenza. Però, è comunque un surrogato povero, diciamo, di quello che invece accade nella compresenza del teatro. Ma, attento. Io non sono un difensore della purezza del teatro. A me vanno benissimo i mass-media. Cioè, io potessi lavorarci, ci lavorerei. Però, va fatto un lavoro.

LDT: Spesso, anche nel tuo ultimo libro ritorna questa idea… che il teatro ed in particolare la narrazione su una sedia, questa essenzialità, questa ricerca dell'asciuttezza dei segni, abbia un valore politico, diciamo, soltanto per il fatto di essere fatta, indipendentemente dai suoi racconti, ecc. Proprio perché si pone in questa società, con questa emorragia di stimoli, di output, ecc. Quindi, in che senso, non sei un difensore, diciamo, del teatro e ti vanno benissimo i mass-media?
MB: No, no. Attento. Non è che mi vanno benissimo. Sto dicendo, mi interessano molto le tecnologie. Se le potessi usare con dovizia di soldi, di tempo per poterli usare, io credo che potremmo inventare... io ci sto lavorando, io adesso la prossima cosa che faccio, se ce la faccio, è una cosa narrativa, televisiva, che però presuppone un modo di lavorare completamente diverso. Non mi interessa fare il mio teatro e poi riprenderlo intelligentemente con le camere, questo non funziona. Bisogna inventarsi dei linguaggi. Bisogna lavorarci. Io non difendo i mass-media così come sono, andrebbero  sterminati. Però, sono fatti da strumenti, quelle tecnologie lì, compreso il microfono, compreso tutto quello che si può mettere dentro, vanno usate in modo diverso. Alla fine degli anni '70, si era incominciato a sperimentare: Martone, Barberio Corsetti, Raffaello Sanzio, i primi videoclip teatrali si vedono fatti alla fine anni '70, poi non si sono più fatti…

LDT: Prima di ritornare ancora su questo rapporto tra i linguaggi e gli strumenti, volevo chiederti, ancora per approfondire il discorso del teatro di narrazione e del tuo approccio al teatro di narrazione, quali sono le influenze che tu hai sentito più forti, visto che comunque questo genere praticamente te lo sei inventato negli anni '80. Volevo sapere se per te è stato più importante l'influenza, ad esempio, di un teatro popolare, alla cunto siciliano per intenderci, o ad esempio le indicazioni di Brecht sull'epicità oppure Mistero Buffo di Dario Fo.
MB: Non so dirti. Ecco, il cunto no, perché l'ho conosciuto dopo. L'ho incontrato dopo devo dire e lo dico pure nel libro, faccio un omaggio a Cuticchio, però dopo. Si, Mistero Buffo l'abbiamo visto tutti negli anni '70, forse inconsciamente. Non ti so dire. Non ti saprei dire cosa c'è dietro, se… cosa hai detto, l'altra cosa?
LDT: … le indicazioni di Brecht sull'epicità.
MB: Ma quelle forse un po' di più, ma quelle più di testa, più intellettuali. A me piaceva molto ottenere l'estraniamento, avevo letto Brecht, però forse nemmeno questo… Certo, il mio primo maestro è stato Carlo Formigoni e lui era un allievo di Brecht. Sai sono cose che passano anche attraverso l'esercizio. Tu non te ne accorgi, ma nell'esercizio fatto in quel modo lì, lui ti sta dicendo una cosa che riguarda una modalità diversa di stare in scena; cioè, i maestri non sono innocenti, quello che trasmettono è un sapere, che manche loro stessi sanno da dove viene. E quindi è probabile che ci sia stata anche quella cosa lì, poi tutta la mia esperienza è stata un'esperienza sul campo, per cui sono stati appunto soprattutto le scuole, i ragazzini, la piazza, le strade, catturare la gente per strada, raccontare una cosa al parco. Tutto, tranne che nel teatro.

LDT: Quindi un esigenza più prettamente artigianale all'inizio, che non intellettuale o politica o teorica.
MB: No, e ti dirò. Infatti, è arrivata molto tardi. Quando ho scritto il primo libretto, Pensieri di un raccontatore di storie (3) stiamo già nel '91-'92, io avevo incominciato a raccontare storie nel '82-'83, le prime fiabe. Però, le vedevo come uno strumento, capito? Era una delle varie… C'era l'animazione, c'era il teatro per ragazzi, e poi c'erano questi esperimenti che facevo in assoluta solitudine. Poi è venuto Roberto Anglisani che mi ha seguito, il più grande raccontatore che c'è di fiabe in Italia. Però, è venuta un po' così, non c'è stata premeditazione.  Sicuramente non è stata intellettuale. Non è che mi sono detto: adesso proviamo a vedere… Tutte queste cose che ti sto dicendo sono riflessioni a posteriori. La politica, lo spostamento, l'occhio, l'orecchio… sono venuti dopo. Non è che prima ho detto “faccio una cosa di questo tipo…”, non sapevo neanche che effetti avrebbe prodotto. Cioè, io ho fatto Kohlhaas per due anni solo per le scuole. Avevo fatto più di 200 repliche, non le ha viste nessuno. Cioè, non si sapeva neanche che cos'era. Poi, una sera mi invitano al Teatro Verdi a Milano ed è un successo. Arriva Palazzi, scrive l'articolo ed è il boom.

LDT: E' questa idea della sedia? Perché, soprattutto nel primo spettacolo, questa ricerca netta e decisa della staticità, almeno della tendenza all'immobilità, che funzione doveva avere per te?
MB: E' sempre artigianale. Perché con i ragazzini avevo sempre sperimentato seduto. Lo so, tu vorresti delle cose più…
LDT: Sì, degli scoop!
MB: E invece… Cioè, il teatro è arte artigianale. Ma tutta l'arte. Io penso che tutta l'arte sia così. Purtroppo, dal Romanticismo in poi l'hanno fatta diventare un'altra cosa, sublime… E quindi la difesa dell'artigianato per me è anche un valore, nel senso che tu pratichi, pratichi, pratichi, pratichi e alla fine a forza di scalpellare in un certo modo, poi sai come dare la botta con lo scalpello per fare quella cosa lì. Però, ci vuole un sacco di tempo. Infatti, tutti i danni che, ahimè, ha fatto la narrazione è che si sono tutti svegliati, fanno un corso di una settimana e credono di poter raccontare.

LDT: Una domanda generale su che cos'è ancora narrazione. Voglio citare questa bellissima frase che mi è rimasta impressa dal libro, anche perché si ricollega a un'impressione forte che ho avuto durante la presentazione di questo libro al teatro India.(4) Cioè: "dire le cose serve solo per dare un senso al nostro passaggio in questa vita". Mi interessa molto perché da un punto di vista teorico e semiotico, in particolare, è stata sondata molto in profondità questa idea che il senso si costruisca attraverso le narrazioni. Ci sono fior di filosofi nel '900, come Ricoeur, ma a partire da Aristotele, per cui appunto il senso si costruisce attraverso la narrazione. E un'esperienza nuda, diciamo così, tra virgolette, non potrebbe essere sensata. Che ne dici?
MB: Hai già detto tutto. Lo credo profondamente, però non credo che sia solo la narrazione. O almeno se non decliniamo narrazione in tanti modi. Io non credo che in questo caso stiamo parlando della narrazione di un attore che racconta, cioè anche Picasso fa una narrazione in Guernica.

LDT: Ecco, allora come intendi la narrazione, in questo senso lato?
MB: Nel senso di costruire un percorso di segni che dica un qualcosa che ci produce un senso.

LDT: Quindi anche una rappresentazione può essere una narrazione.
MB: Una scultura, un quadro. Però, se vedi... Cioè, non tutti sono così. Cioè, ci deve essere dietro un percorso. Cioè, quando tu vedi L'uomo che cammina di Giacometti, lo capisci che c'è stato qualcuno che ha incominciato a camminare da tanto tempo prima per arrivare a fissarsi in quella stanza. Allora, questo non accade in Cattelan, per dirne uno di contemporanei, dove c'è un'irrealtà puramente presente, un' oggettività, non c'è più la narrazione. Secondo me, la narrazione è un dire con diversi strumenti del dire, poi se vuoi parliamo della narrazione orale e del racconto. Però, è un dire per tentare di dare una parvenza, io direi, proprio una parola grossa, una parvenza di senso ad una dimensione assurda in questo cammino. Cioè, sono frammenti di senso che tu dai attraverso l'arte, non è che ricostituisci un senso, compiuto. Però, rispetto all'insensato del mondo che ti circonda, quel gesto è un gesto che dona al mondo un barlume di senso e fa sentire gli essere umani meno sperduti. Però, questa mia visione è di un non-credente. Per un credente tutto ciò che sto dicendo è bestemmia, no? Per Ricoeur era completamente diverso. Era credente. Cioè, attraverso la costruzione del senso e del dire, lui leggeva il divino. In quella fase l'essere umano non solo ridà senso all'esistenza, ma questo senso fa leggere il grande disegno. Quindi redime, lui parla di redenzione, questa è una visione di qualcuno che ha fede che c'è un disegno.

LDT: Per te dunque non si tratta di ricostruire una temporalità escatologica, diciamo così.
MB: No, questo proprio no.
LDT: Ecco. Né, diciamo, che ubbidisce ad un disegno, ma si tratta di costruire una temporaneità momentanea.

MB: Momentanea, frammentaria, momentanea. Che ti consegna comunque una parvenza di senso. E ti aiuta, è curativa. Non so come dire, sono degli elementi in cui tu per un momento dici: “ah, ma allora…” Io vedo La Guernica e mi rendo conto che c’è stato un bombardamento di una città di povera gente. Quella cosa lì, è molto forte. Mi fa venire 300 pensieri, su come, cosa, cosa vuol dire stare, poi uno pensa al terremoto, l'altro pensa, non lo so, gli animali che scappano dallo zoo, uno si ricorda un film… Cioè, si mescolano tantissime cose se tu sei dentro a quel dire. Quel dire ti sta catturando, ti sta isolando dalla realtà di tutti i giorni, ti sta costruendo un'altra realtà, dentro la quale tu hai il diritto, il permesso, la possibilità di costruire per un momento un inizio, uno sviluppo, una fine. Ma che anche magari è brevissimo. Può essere anche nell'atto. Non è che hai uno sviluppo lineare per forza. Però, in quel momento, quello è l'arte, secondo me.

LDT: E quindi nel dare una compiutezza anche ad un incompiuto.
MB: Certo. Poi ti posso dire, una cosa come Kohlhaas la dà a palate, no? Nel senso che costruisce una grande "se", che la devi seguire dall'inizio alla fine, dentro la quale però ci sono tanti frammenti di "se". Cioè, in realtà è una trappola, nel senso che tutta la storia in sé non serve, cioè serve a catturarti. Tu vuoi sapere come continua, ma in realtà Kolhaas si è fatto di tanti momenti di senso, no?, poi ognuno prende quelli che gli servono, la storia più grande serve a rincasellarli lì e a non farti andare via, dopo che hai assorbito la prima botta del dire-senso. Potresti dire “me ne posso andare”, e invece resti, perché poi forse ce ne saranno altre. Però, è la trappola della narrazione fiabesca, della favola. Quella cosa lì, che non accade in tutte le narrazioni.

LDT: Tutto questo mi sembra che vada molto aldilà dei limiti del genere "teatro di narrazione". In questo senso mi pare paradossalmente curioso che il fondatore del teatro di narrazione italiano vada  molto aldilà del suo concetto fondativo.
MB: E perché lo trovi curioso? Se ci pensi non è tanto lontano.
LDT: E' coerente, invece?
MB: Il problema è che tu ascoltando uno che racconta, ti sembra che il precipitato di senso sia infinitamente più grande. È solo quello il problema. Mentre, davanti ad una scultura fai più fatica. Ma fai più fatica perché la guardi distrattamente. Se tu ti pagassi un biglietto e fossi ubriaco per un'ora davanti ad una scultura di Giacometti, usciresti con la stessa storia di Kohlhaas! Il problema è che lo fai in un altro modo; c'è quel tipo di percezione. Allora, lì è per eletti. Sulla base o un momento di cattura di tutte le sculture che sono sempre tutte nuove, becchi quella, l'altro becca quel quadro. A ciascuno sta dicendo qualcosa. Rilke diceva "Ognuno ha il suo poeta". Lo diceva di quelli che leggono i libri nelle biblioteche, diceva "che bello, qui ognuno ha il suo poeta". Ognuno per un momento, diverso da tutti gli altri, sta costruendo il suo senso. Per un momento sta immaginando che ci sia un angelo che lo sta aiutando a costruire un senso.

LDT: Senti, visto che mi stai suggestionando tanto con queste immagini scultoree o pittoriche, questo mi sembra un tratto molto importante del tuo lavoro, ma direi del lavoro, se non di tutti gli artisti teatrali, almeno dello maggior parte insomma, ma in particolare rispetto al tuo percorso. Ad esempio, nel tuo ultimo libro, ci sono delle foto molto belle di Enrico Fedrigoli che mi richiamano delle composizioni cubiste. Perché, in qualche modo, cercano di catturare le diverse sfaccettature delle tue performance o addirittura il movimento, quindi anche delle tracce di futurismo.
MB: Bacon.
LDT: Bacon?!
MB: Bacon era un post-espressionista.
LDT: Sì, era per dire... la cosa mi interessa non per rintracciare le influenze di questo fotografo, ma per costruire teoricamente un atteggiamento anche etico, documentario, diciamo, di fotografi, operatori cinematografici o televisivi sul teatro. Come se il teatro potesse essere restituito meglio, più fedelmente, quanto più lo si tradisce e lo si trasforma nel proprio linguaggio.
MB: Eh, ma è quello che dicevamo prima della televisione! È un altro modo per dirlo, questo del tradimento è giustissimo! Tradere, trasportare…
LDT: Quindi queste foto per te, in che modo riescono a tradurre-tradire il tuo teatro?
MB: Beh, Enrico è un fotografo che lavora con il banco ottico. Quindi, è un pazzo totale perché si sposta con tutto quel materiale che pesa quintali... E ha lavorato ultimamente sempre molto con i teatri di sperimentazione, Motus, Fanny & Alexander… Mi interessava molto. Quando ha visto Kohlhaas lui ha detto "voglio provare a fotografare la tua voce". Che è impossibile, no? Però, non abbiamo fotografato la voce… non era tanto il problema di far vedere tutti i movimenti di un corpo, perché se no si sarebbe anche potuto fare con una spalmata più lunga, allora aprivi l'obbiettivo lo lasciavi per la durata… e invece, lì, è stato tutto un lavoro lunghissimo. “Stai venti secondi, fermati, io faccio una fotografia con un diaframma aperto, con un diaframma chiuso,riparti…” Cioè, tutto quel lavoro che sembra una sola foto, in realtà sono 18 foto. 18, 19, 20 lastre che poi lui mette insieme. Quindi c'è un lavoro di montaggio, che non corrisponde più a nulla del Kohlhaas, però restituisce l'imprendibilità del corpo. Io volevo che lui facesse non tanto la bella fotografia, me ne hanno fatte 3000, dove  vedi la posa, l'attore che sta interpretando. Ma quella cosa lì, in realtà, al teatro non la vede nessuno. È un trucco, è una truffa. O Dio, è un tradimento anche quello se vogliamo.
LDT: Però, forse disonesto. Perché si spaccia per la restituzione fedele. Ecco.
MB: Non lo è! È uno che ha deciso di tutta la situazione di fissare un frammento, di ingigantirlo, di estrapolarlo, di toglierlo dal contesto della sua fluidità, quindi dal tempo e dalla biologia… e ormai è questa la convenzione della fotografia teatrale.
Poi c'è Buscarino, che lo fa stupendamente, altri fanno meglio. Qui, no, qui siamo dall'altra parte. Qui c'è quell'idea che quell'immagine non si può fermare. Tu non puoi farmi vedere quanto sono bravo nel momento di massima stasi o di massima tensione. Vedi la faccia, allora tutti dicono in quel momento poi quanto è bravo quell'attore. Qui la faccia è mostruosa. Perché l'attore è un mostro. Noi mostriamo continuamente, capito? Allora è un fluire di tempo quello che accade in teatro, non è una successione di fotogrammi. E questo fluire, allora queste foto, in qualche modo, ne restituiscono però una cosa, che è quello che succede nella testa dello spettatore. Le deve mettere insieme lui, poi le immagini per dare un senso alla successione di quello che accade. Però, chiaramente, che succede? che nessun giornale ti pubblicherà mai una di quelle foto. Perchè la definizione di quelle foto sulla pagina giornalistica dove di solito si mettono le foto teatrali…ha un bassissimo grado di definizione, perché c'è bianco e nero, i colori non sono… una cosa del genere è solo mossa. Quindi, entri nell'errore, ma per me no: sono le convenzioni con le quali leggiamo la realtà.

LDT: Senti, volevo ancora soffermarmi su questo rapporto tra il teatro e gli altri linguaggi, per mettere in crisi l'idea che il teatro abbia il suo linguaggio separato dagli altri. Cioè, tu fai continuamente riferimento agli altri e alle fonti di ispirazione che vengono per te da altri domini, dell'arte, ad esempio la pittura, la scultura... In questo ambito di discorso, mi pare doveroso richiamare La Pelle con le citazioni da Caravaggio. (5) Che cosa queste hanno significato per te, soprattutto che cosa credi, con quelle situazioni e con quelle immagini, di aver costruito nel tuo spettacolo. In che modo quelle immagini hanno arricchito e rivalutato, nel senso più radicale, cioè trans-valutato il senso del tuo spettacolo. Tanto spesso da essere riconosciute come citazioni pittoriche, voglio dire.
MB: Io tutte le volte che ho fatto spettacoli corali, dove c'è un bel gruppo di attori dai 9 ai 50, ai 100, mi sono sempre appoggiato a questo patrimonio. il teatro ha un andamento tra il puttanesco  e il ladro. Il teatro è ladro e puttana. Perché prende da tutti e ruba dove può. Perché il teatro è il luogo dove tutti i linguaggi sono possibili. Cioè, è uno dei pochi luoghi… io posso mettere tutto lì dentro: cinema, televisione, radio, scultura, pittura, architettura. Voglio dire che è fatto con queste cose qua: musica, suono, voce. E poi c'è il corpo dell'attore che è l'insieme di tutte queste cose mescolate. Quindi, sono rimasto sempre molto influenzato dalla civiltà a cui appartengo. Non potrei mettere in scena le mie cose, come dire, l’immaginario africano che non conosco, che c'è, c'è come c'è il nostro, come il cinese e l’orientale, c'è come c'è il nostro. Noi abbiamo una tradizione millenaria di immagini prodotte. E allora, quando lavoro con gli attori, mi piace molto usare alcune, alcuni frammenti di quell'immaginario per condensare un senso ancora più alto rispetto a quello che sta accadendo. Allora, non si può usare sempre, non è che tutto lo spettacolo deve avere un andamento di questo tipo, se no l'estetizzazione diventa prevalente. Si sono visti spettacoli di questo tipo.

LDT: Quindi è una questione di equilibri.
MB: Peter Greenaway, Bob Wilson, usano questa cosa qua. Proprio ultimamente ci ho lavorato molto per lo spettacolo La Repubblica di un solo giorno (6) che si ispirava a Gerolamo Induno, Hayez, Fattori, Segantini, pittori del Novecento che hanno dipinto il Risorgimento, i colori, i costumi... È un immaginario. È chiaro che in qualche modo anche il più sprovveduto degli spettatori, che non è mai andato a vedere una mostra d'arte, ce l'ha dentro. Io credo che tutta la nostra pittura, tutta la nostra scultura, ce le abbiamo nel dna, antropologicamente, anche se non hai mai visto Canova da vicino, o non hai mai toccato una sua statua. E quindi hai tutto quel materiale da poter saccheggiare. Perché non saccheggiarlo, quando saccheggiamo da tutte le parti?

LDT: Ultime due domande: una relativa al rapporto fra due concetti, due fatti  molto importanti al teatro e cioè empatia e straniamento; ed un'ultima domanda su come studiare dal punto di vista semiotico l'atto teatrale. Allora, per quanto riguarda la prima domanda, tu hai scritto nel tuo libro che i tuoi spettacoli empatia e straniamento vanno di pari passo.
MB: Mi piacerebbe che andassero di pari passo. Non sempre succede.

LDT: In che modo tu lavori sulle azioni, sui gesti, sui segni del tuo corpo, del corpo degli altri o del corpo scenico in generale per creare l'uno, l'altro o l'altalena?
MB: Mah… ci sono due modi nel procedere nel lavoro. Che sono poi le grandi scuole del teatro occidentale. Stanislavskij da una parte, la commedia dell'arte dall'altra. Non ci siamo inventati altro che queste due. Cioè, il terzo teatro di Barba è la commedia dell'arte applicata al corpo di Stanislavskij. Cioè, queste due sono state le due grandi scuole. Chiaramente Stanislavskij viene molto dopo, con la rivoluzione, dopo l'industrializzazione, prima non si sarebbe pensato che il corpo poteva essere oggetto di un'analisi così approfondita. Solo con il fordismo il corpo diventa produttivo. Quindi per secoli siamo andati avanti con queste due, non credo ce ne siano altre. Queste due generano una ramificazione infinita di possibilità combinatorie. Brecht si inserisce qui con lo straniamento, Brook con l'idea del risveglio. Quindi, è un modo di procedere durante il percorso delle prove. Io faccio in modo che i miei attori non siano né completamente alla ricerca della verità stanislavskijana, cioè del personaggio che quando parla è lui, ci credi, perché ha una storia, una sua memoria, perché è capace di entrare dentro la pelle di quel personaggio. Come accade quando vedi i russi: resti impressionato dalla loro adesione fisico-sensoriale al personaggio. È una cosa buona, però a me non basta, perché se per tutto lo spettacolo resti così, a me come spettatore lasci poco spazio per immaginare altro da quello che sto vedendo. Se è così onnivoro, onnicomprensivo questa tuo pormiti davanti, che ti leggo il sudore, piango con te, respiro con te, sudo con te, poi dò vado io? E considera, qua ci sarebbe da aprire tutto il capitolo Actor's studio, cioè Stratsberg, che è allievo di Stanislavskij. Stratsberg inventa l'Actor's studio sul metodo stanislavskijano per gli attori americani e quindi riduce tutto il lavoro enorme che Stanislavskij aveva fatto sull'intimità e l'interiorità del personaggio legato alla memoria, alle domande di Stanislavskij sull'infanzia del personaggio. Lo riduce ad uso e consumo di una prestazione segmentata e frammentata come quella del cinema. Fa una cosa geniale, Stratsberg. Quindi, insegna come tenere una tazzina in mano e come sentire il caffè che stai prendendo mentre parli di tutt'altro, il sapore del caffè tu lo devi sentire anche se il caffè non c'era e la tazzina non ce l'hai in mano. Quindi, un altro sviluppo di quella scuola lì, molto funzionale e pragmatico, perché poi serve per fare una cosa che non ha linearità, dove tu inizi l'ultima scena che già alla fine del film, cioè le devi saper fare quelle cose lì. No, perché ho detto questo? Mi sono perso…

LDT: Stavi parlando delle due grandi direzioni di lavoro…
MB: Allora, quella cosa lì, bisogna conoscerla, praticarla, è quella con cui tutto il teatro borghese ha convissuto. Poi da noi non è mai stata molto presente perché ha prevalso l'attore Trombone o l'attore mattatore, perché arrivava dalla tradizione dell'opera lirica e quindi il melodramma. Quindi, Stanislavskij non ha avuto un grande seguito da noi. Pirandello l'hanno fatto meglio all'estero che da noi, l'hanno fatto sicuramente meglio i tedeschi, i russi, gli anglosassoni. Però, quel mondo lì è un mondo, come dire, veramente dove tutto è dato. Allora, ed è il mondo del dramma tradizionale, dove tutto è dialogo e dramma. Allora, io voglio che all'interno, voglio, cerco nei miei lavori di fare in modo che quel mondo non si perda perché è la nostra tradizione del passato prossimo e perché ha un potere enorme di empatia, però non può essere che in tutto lo spettacolo sia così. Allora il problema è come entrare ed uscire da spezzoni di dramma. La repubblica di un solo giorno più de La Pelle, perché La Pelle non ce l'aveva proprio queste cose. È una serie di quadri staccati tra di loro come il libro. Invece in quest'ultimo lavoro è proprio molto evidente. C'è un coro di attori che fa movimenti, azioni, immagini pittoriche, barricate, musiche, danze, e poi improvvisamente tac: in tre diventano personaggi, quello è il ragazzino che scappa, io lo riprendo per i capelli, diventa quasi una specie di teatro naturalistico. Allora questi spezzoni, entrare e uscire dall'immedesimazione del personaggio, per riallargarlo improvvisamente e fare qualcosa  che non c'entra niente con quello e vai in un altro mondo, magari quello della danza, è generico straniamento.

LDT: Vorrei, però, mettere in discussione quest'idea che l'empatia sia legata ad un canone, cioè quello del teatro borghese, del tetro classico, ecc. Evidentemente l'empatia, cioè la direzione di lavoro dell'immedesimazione è stata creata per, in funzione di una resa teatrale in questo senso qua. Però, io immagino che in un teatro, ammettiamo, del tutto antiborghese, una piccola scena buttata lì di teatro classicamente borghese, è uno straniamento molto più grande di quello che si otterrebbe perpetrando quel canone antiborhghese.
MB: Sono d'accordo.
LDT: …quindi empatia e straniamento sono sempre in relazione dialettica tra di loro...
MB: Sì, però le stai leggendo con una coscienza… cioè non ce l'hanno tutti chiara questa cosa.

LDT: Si, va bene. Io chiedo a te se sei d'accordo…
MB: Sì, sì, io sono molto d'accordo.
LDT: Soprattutto per dire che l'empatia è anche ottenibile  con la narrazione antiborghese.
MB: Non solo. Io sono ancora di più alla ricerca, a me piacerebbe che nel momento in cui gli attori si mettonessero a danzare, ma non una danza coreografica che se no diventa canone, non ti accorgessi neanche che stanno ripetendo una gestualità… io vorrei che scattasse pure lì l'empatia. Allora se ci riesci, crei dei corto circuiti continui. Lo spettatore è continuamente messo in una condizione che deve aderire o no, aderire o no, aderire o no. E questo lo tiene sveglio. Io credo che sia il risveglio di cui parlava Peter Brook, mentre lo straniamento di Brecht era ancora di ordine drammaturgico, era ancora di ordine testuale, era sui contenuti dello spettacolo, non era sulla forma. Un po' sulla forma, i cartelloni, lo stacco, quello che viene in avanti e dice il titolo della scena successiva, il pezzetto di canzone che viene messa in mezzo… c'erano già anche delle cose formali, ma la canzone serviva per spiegare i contenuti della scena prima. Cioè, era l'educazione del popolo, era molto ideologico… però geniale, se pensi a quando l'ha fatto, siamo tutti figli di quella idea.

LDT: L’ultima domanda è sul modo in cui, secondo te, bisogna approcciare il teatro in tutta la sua generalità, complessità e quindi non soltanto eventualmente lo spettacolo, per studiarlo per bene da un punto di vista semiotico. Perché, come sai negli anni '70 e '80, si è molto soffermati sullo spettacolo che si è inserito all'interno del paradigma del testo, per cui si è arrivato a parlar del testo spettacolare come oggetto scientifico da poter studiare, quello più o meno ripetibile, quindi quello più o meno strutturato, più analogo al film, più analogo al testo scritto, ecc, ecc. Ora, però noi sappiamo che lo spettacolo è qualcosa che si rinnova a seconda del pubblico, dei contesti, ecc. Quindi, la domanda è: da un punto di vista semiotico, quindi ambiziosamente scientifico, e tu sai che non vi è scienza se gli oggetti che si studiano non sono in qualche modo ripetibili, è lo spettacolo che bisogna studiare oppure, non so, altro, bisogna prendere in carico le prove, la progettualità artistica, quale indicazione ti sentiresti di dare ad un proggetto scientifico di questo tipo?
MB: Se la scienza, come tu dici, è la possibilità di riverificare i contenuti del proprio procedere, delle proprie analisi attraverso la ripetizione, vuol dire che non ci siamo. Il teatro non è quello, non è ripetibile. Lo so che tutte le sere cerchiamo di ripetere quella cosa lì, perché si chiamano repliche, ma lo sappiamo che non è così. Un giorno ho la febbre, un giorno quello ha litigato con l'altro attore, oppure un giorno lo spazio acusticamente è sbagliato, si alzano in 15 per pisciare… cioè, non è mai uguale. Allora, se tu lo vuoi scomporre, io penso che c'è un problema a monte. Siccome, la semiotica, per come la conosco io (non è che sono un esperto di semiotica), vuolescomporre per frammenti... Io penso questo: serve una visione leonardesca. E serve, è un modo di procedere come quando Bloch studia il narrare, Bloch o Benjamin studiano la narrazione. Cioè, non si fissano sull'elemento testuale, non si fissano sulla costruzione della parola. Mettono in gioco tutto, compreso il loro essere osservatori di quella cosa lì. "Cosa ti sta succedendo a te?", è più utile spiegare e tentare di analizzare un fatto teatrale anche con le ricadute che tu hai avuto del fatto, che non pretendono un'oggettività scientifica. Quindi, secondo me non è scomponibile in testo, attore ecc. Non posso andare ad analizzare questi elementi, come se ciascuno di essi fosse un significante. Non lo è, perché preso da solo no lo è. È l'insieme e l'allaccio di queste cose nella totale sporcizia, nel totale errare. Lo so che tutto questo sembra l'enfasi allora dell'improvvisazione, del teatro come cosa biologica, quindi imprendibile, e non lo puoi analizzare. Io penso che sarebbe bello analizzarlo, però avendo una visione che rimanda anche a tutti gli agganci che in quel momento quella cosa di quell’attore rimanda a te, perché tu in quel momento hai visto un film, che hai visto solo tu, magari manco il regista che ha fatto quella cosa o quell’attore, però lo puoi leggere grazie ad Al Pacino quello che si sta facendo in quel momento. Allora perché non mettercelo? Dice: non è scientifico. Perché? Cioè, io penso così. Cioè, se io dovessi andare a vedere uno spettacolo per analizzarlo nella sua struttura, per tentare di destrutturarlo… Io, adesso faccio una cosa, in questo ultimo anno sono arrivato alla novecentottantesima replica di Kohlhaas in certi posti lo destrutturo. Cioè, io faccio delle lezioni in cui smonto Kohlhaas, e lo faccio proprio vedere a pezzi, facendo capire che lavoro c'è dietro… l'incipit, per esempio. Io parlando dell'incipit, lo faccio vedere, vedo come è costruito, allora vedo: come è costruito il testo, il linguaggio, il corpo cosa fa, cosa vedo, cosa fanno gli occhi, cosa fa la testa. Quindi, come fai. Lo puoi smontare, ma non lo puoi…, come dire, quello che ho detto prima. Non puoi isolare un significante. Secondo me, se lo fai… lo puoi fare, però...

LDT: Non è detto che bisogna farlo. Le indicazioni che stai dando possono essere riconciliate con uno studio strutturale, diciamo così. Si utilizza una struttura più ampia…
MB: Ecco, strutturale onnicomprensivo, capito? Come se c'avessi… non lo dovessi riportare in una sola cosa, come se a tua volta dovessi riportare quello che stai vedendo su uno schermo panoramico gigante, non so come dire, no? Forse allora avrebbe più senso tentare… Perché la critica fallisce sempre? Perché o si appunta sulla letterarietà del testo che è stato costruito o, quando il testo non c'è, si appunta sui rimandi estetici di quello che ha visto. Raramente riesce a mettere insieme due o tre linguaggi di quello che è lo spettacolo: i corpi degli attori non ci sono quasi mai. Cioè, sono visti come quadri, come immagini. Quindi, la biologia dei corpi, la fatica, il come quel corpo è arrivato a fare quella cosa, mai. Come mai? No, voglio dire…. vuol dire che non c'ho lo spazio per scrivere tutto. E’ anche un problema mentale. È anche un problema di approccio, no?

LDT: Potresti darmi un esempio o due esempi positivi di critica o di critici da seguire, in questo senso?
MB: Ti dovresti andar a rileggere le recensioni di Flaiano, quando andava a teatro. Erano geniali. Perché c'era lui. Va bene, aveva il triplo di pagine, aveva il triplo di spazi, di battute di quello che ha Franco Quadri. Però, portava tutto se stesso dentro ciò che stava vedendo, quindi non si limitava…. A dire il vero anche il '900, cioè quando riuscivano ad andare a sentire Mahler… Schnitzel che  legge Mahler non sta parlando né di musica né di composizione, sta parlando di  politica, cioè, eppure allo stesso tempo ti sta dicendo cosa ha visto, cosa ha sentito. Però, perché appartenevano ad un mondo in cui la complessità era un dato. Cioè, la complessità era dentro il modo di procedere dell'indagine. Noi, oggi, la complessità ce l'abbiamo solo come referente, no? Il mondo è complesso, però procediamo per finestrine, per accostamenti schematici di finestre. Non c'abbiamo un pensiero complesso, noi. Cioè, è complessa la realtà, ma noi non siamo complessi. Noi siamo assolutamente superficiali. Per questo, io non sono assolutamente d'accordo con I Barbari di Baricco. Sì, è vero, ma quella cosa lì sono i nuovi barbari, vuol dire che sono i figli di questo mondo che c'abbiamo fuori e serve quindi un pensiero complesso per analizzare il teatro. Perché il teatro è ancora un residuo arcaico di qualcosa che non ha nulla a che fare con questa complessità apparente, no? Non è che è apparente. Il mondo è complesso, è vero, e per decifrarlo e tentarci di stare dentro, gli strumenti che abbiamo sono come gli strumenti di un primitivo che scrive solo una cosa rispetto ad un mondo che ha, è gigantesco. È paradossale. Noi crediamo – internet, no? – di essere riusciti a comprenderlo. È l'esatto contrario, stiamo lavorando, stiamo facendo i graffiti sulla caverna rispetto a quello che sta succedendo. E sono pochissimi quelli che riescono ad avere una visione che mette insieme quello che sta succedendo in Cambogia rispetto a… cioè, quelli che riescono ad avere un pensiero complesso loro. Allora, secondo me, essendo il teatro un luogo arcaico, dove la complessità è ancora vivente nel modo di costruire quel dire, di cui parlavamo, dei tanti linguaggi che vi confluiscono dentro, per analizzarlo o c'hai una testa complessa e quindi sei capace di far vivere la complessità come relazioni continue tra i diversi linguaggi, senza che nessuno prevalga sull'altro, se no sei spacciato.  Cioè, non lo puoi catturare.

(1) Intervista dell’inverno 2011
(2) Marco Baliani, Ho cavalcato in groppa ad una sedia, Titivillus, Pisa 2010
(3) Marco Baliani, Pensieri di un raccontatore di storie, Comune, Genova 1991
(4) La presentazione di Ho cavalcato in groppa ad una sedia, cit., si è tenuta al Teatro India di Roma nel febbraio del 2011
(5) Di La Pelle, spettacolo del 2008 tratto dal celebre romanzo di Curzio Malaparte, Baliani è stato regista e attore
(6) Di La repubblica di un giorno solo, Baliani è stato coautore con Ugo Ricciardelli e regista. Per il NapoliTeatroFestivalItalia lo spettacolo è andato in scena al Real Albergo dei Poveri nel giugno 2010

 
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