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“Il dispositivo dell'eterodirezione”
Intervista a Chiara Lagani e Francesca Mazza su West di Fanny & Alexander. (1)
di Luca Di Tommaso [PDF]




LDT: Vorrei cominciare con il chiederti che cosa vuol dire per te lavorare a teatro sui segni, che cosa sono per te i segni teatrali ed in che modo ci lavori.

CL: Io non parlo mai di segni probabilmente perché intuisco per come usi tu la parola, ne intuisco il carattere molto tecnico, quindi non vorrei banalizzarla. Quello che posso dirti è che quando penso al mio lavoro, che è un lavoro drammaturgico, penso che qualunque questione della scena e qualunque sua manifestazione, dalle luci ai costumi alle parole, ovviamente, alla musica, all’impianto visivo ai gesti, tutto questo fa parte del testo. Io ho un’accezione molto allargata del testo, per me il testo non è l’apparato di parole, appunto, l’organizzazione verbale dei discorsi, la parte verbale dello spettacolo, diciamo. Penso che in West questo si tocchi con mano, perché il linguaggio di questo spettacolo è un linguaggio in cui le parole sono solamente uno dei molti ingredienti; è addirittura un linguaggio scomposto in maniera dicotomica, quasi  esemplarmente, in gesti e parole, in questo caso, e quasi i gesti non hanno significato senza le parole e viceversa. Quindi, forse, per me “segno” è qualunque elemento che concorre a costruire il testo drammaturgico di una spettacolo.

LDT: Quindi tu intendi anche la parola “drammaturgia” in senso lato, come composizione delle azioni sceniche, e non soltanto, appunto, come testo verbale?

CL:
Sì, composizione delle azioni sceniche. Anche la parola “azione”, allora, allarghiamola, smagliatura della smagliatura. E' un modo classico per me di intendere “drammaturgia”, quasi etimologico: la tessitura delle azioni. Per me l’azione è proprio qualunque accadimento fenomenico che avvenga sulla scena, anche una luce che si accende.

LDT: Colgo l’occasione per chiederti una cosa, visto che hai parlato di accadimento fenomenico... tu sai che “azione” è una parola che rimanda classicamente ad una coscienza che vuole agire e che decide secondo un libero arbitrio e con una certa lucidità di agire. Ma in West, in effetti, da questo punto di vista, di azione forse non si può parlare, nel senso che l’attrice, cioè colei che dovrebbe agire nel senso che ho detto, invece è mossa da altro...

CL:
Allora direi che forse è una maniera più complicata del solito, del nostro solito modo di concepire questa parola, “azione”, ma non arriverei a dire che non si può usare, e arriverei a dire che come in tutto il lavoro sull’interpretazione, questa parola è implicata in un rapporto molto forte: la ricerca di un equilibrio costante col suo opposto, anzi non col suo opposto, ma con un suo complementare col quale è in relazione: come attivo e passivo  si implicano complementarmente in maniera molto complicata, non esiste attività senza passività in questo spettacolo e i nostri laboratori si basano proprio esattamente su questo, su questa leva costituita dall’equilibrio di due forze concomitanti che concorrono a creare il significato e a dare ragione proprio allo statuto della presenza dell’attore sulla scena. Quindi io parlerei di “azione”, ma allargherei anche in questo caso il suo aspetto.

LDT: E tu credi che la presenza dell’attore in scena sia rafforzata da questo modo di recitare, diciamo di performare, di agire?

CL:
Dunque, non lo so se sia rafforzata rispetto a un’idea di attore o  di presenza attoriale di altro tipo o comunque generale. Sicuramente questo dispositivo, il dispositivo dell’eterodirezione, è un dispositivo molto particolare che mette l'attore in una condizione abbastanza inusuale e inconsueta e, probabilmente, io  me ne sto accorgendo  nei laboratori, questo dispositivo diventa un metodo molto forte per liberare da determinate costrizioni. Paradossalmente, perché è il massimo della costrizione... normalmente ci sono molte tecniche per liberare le persone dalle proprie gabbie, ognuno di noi ha delle gabbie, naturalmente... per massaggiare i nodi, le spigolosità delle persone, questo dispositivo mi facilita il compito immensamente, immediatamente toglie una serie di problematiche che invece magari passerei giorni e giorni a sciogliere. Mi sono chiesta perché questo accade... e anche la reazione dei ragazzi è stranissima, perché i ragazzi entrano in questo universo degli ordini e dell'azione-reazione a questi ordini, come se entrassero in qualche cosa… mi viene sempre in mente quello che dice Caillois della vertigine e il gioco…(2) ed è un gioco, sicuramente, un gioco molto serio che provoca la vertigine: in questo accade qualche cosa, come se scendessero dalla giostra quando finiscono di lavorare con gli auricolari. E mi domando perché... forse perché, ne parlavo con Luigi l'altro giorno (3), questo dispositivo enfatizza e acutizza quello che normalmente l'attore dovrebbe richiedere a se stesso, questa sorta di volontà, appunto. E invece, è accoglienza estrema dell'altro e dell'impulso esterno... è un medium l'attore, no? Quasi sempre, qualunque tecnica e qualunque poetica siano in gioco sulla scena. In questo caso è come se si schematizzasse la funzione di medium e non è vero che non c'è volizione… la volizione qui è tutta contenuta nel millimetrico, che poi è gigantesco, spazio di resistenza creativa che l'attore pone. Importante in questo lavoro è che l'attore inventi e reinventi continuamente il contenuto sentimentale di ogni parola e di ogni azione, quindi alla fine il senso è in mano sua. Altrimenti sarebbe una marionetta automatica, nel senso di una specie di robot; e invece, come puoi vedere, non hai per un attimo la sensazione del meccanismo, ma sempre dell'umano.


LDT: A proposito della costruzione del senso a teatro, in particolare in questo spettacolo, il senso qui è dato da una serie di rimandi anche intertestuali, no? Evidentemente, visto che voi avete concepito questo spettacolo come parte di un progetto più ampio (4) che ha implicato anche già una serie di messe in scena precedenti da un po’ di tempo. Ecco, vorrei chiederti in che modo il senso di questo spettacolo si lega al senso degli spettacoli precedenti dello stesso progetto e del vostro lavoro in generale?

CL: Ma, allora, questo è l'ultimo dei punti cardinali toccati da questa metafora del viaggio di Dorothy. Dorothy nel nostro progetto è un avatar, tant'è vero che a staffetta le attrici cambiano, e Dorothy rimane un specchio in cui lo spettatore può per un attimo identificarsi. Ogni punto cardinale è elaborato in maniera epidermica e stereotipata su alcune delle caratteristiche in cui la storia ha disegnato i punti, non so, il nord la freddezza, la luce... proprio le questione più emblematiche… gli emblemi dei luoghi. West indaga il discorso della persuasione occulta e della pubblicità; questo sul primo livello crea  un sistema di senso. Appunto per rispondere alla tua domanda della relazione col progetto: appunto perché è come se Dorothy-avatar avesse la possibilità di toccare gli stereotipi di questa specie di rosa dei venti immaginari  e del suo viaggio… ovviamente è un discorso tra mondo reale e mondo fittizio, che fa parte del nostro blocco di riferimento. Rispetto agli altri nostri spettacoli forse potrebbe rispondere facilmente qualcuno da fuori o uno studioso a questa domanda. E' stato detto, ed io sono molto d'accordo, che questo lavoro è stato, nel “Progetto Oz”, uno spartiacque: un lavoro che apre delle nuove questioni che saranno ribattute, ed è vero che saranno ribattute tutte. Quando uscì questo testo, mi colpì molto, perché noi avevamo già come obiettivo quello di esplorare l'eterodirezione nel prossimo lavoro che sarà su Laurence d'Arabia (5) e quindi probabilmente c è qualche cosa di vero... è come se fossero uscite alcune questioni e come se avessimo intravisto la possibilità di una nuova questione, e di lì le domande sono così tante… ancora penso è insoddisfacente la risposta provvisoria che ancora si dà… forse è vero che rappresenta un'uscita e un entrata nello stesso tempo… lo vivo molto così questo spettacolo.

LDT: Quindi una promessa di approfondimento sempre sulla questione dell'eterodirezione.

CL:
Sì, è come se si fosse costituita solamente la punta di un iceberg.

LDT: Quindi nei lavori precedenti non c'è questo aspetto dell'eterodirezione così evidente.

CL:
No, non è stato mai trattato da noi prima di questo spettacolo.

LDT: E come ci siete arrivati?

CL:
Subito, direi. E' la prima cosa che è venuta di questo spettacolo, il dispositivo. Forse incubava in un altro lavoro del “Progetto Oz” che è Him in cui l’attore è attraversato dal testo del film Il mago di Oz, che doppia in maniera onnicomprensiva (rumori, voci, tutto), e quindi è una colonna sonora di un medium che lo attraversa in ogni cosa, che diventa il suo testo. Malgrado se stesso, dico sempre.

LDT: Visto che West nel suo dispositivo fondante implica una variabilità forte perché di sera in sera poi variano i testi, le indicazioni e di conseguenza anche la recitazione dell'attrice, tu credi che si possa parlare di questo spettacolo come qualcosa di coerente nel tempo, oppure che invece vada studiato di replica in replica, ma chiaramente di “replica” non si può più parlare in termini rigorosi...

CL: Guarda, è coerente perché, non so, se penso al linguaggio che questo spettacolo inaugura, è qualcosa di  molto simile alla materia del pensiero... quando le persone mi dicono “la poetica del frammento”… naturalmente è vero… è impazzita la creazione del testo in questo spettacolo. Però a me viene sempre da rispondere… “scusa ma tu come pensi? come si pensa se non così?” E' un illusione, un'utopia fantastica, ci aggrappiamo a questa illusione per salvarci dal pensiero... da una voragine. E in questo tipo di voragine pensare significa da un lato modificare e dall'altro lato andare in profondità sulla stessa questione… Posso pensare ad un argomento in maniera infinita, potrei pensarci giorni, ore e, come in questo spettacolo... come in un luogo buio con una pila, scandagliare tutti gli aspetti di una questione, che può essere un brandello di questa narrazione, non so, l'incontro con l'attore più anziano che la seduce, ok è una stanza infinita che con una pila a poco a poco viene scandagliata e quella stanza è un piccolo ambito della psiche...

LDT: ...ogni pensiero è intervallato da altri pensieri con un montaggio completo e complesso…

CL: ...esatto, c'è qualche cosa di profondamente psichico in questo tipo di struttura linguistica, penso, perché il suo modello è il pensiero umano… non è una narrazione... la narrazione normalmente ha degli assi architettonici più solidi, tra virgolette solidi, e ci si può aggrappare ad una sua linearità che poi si complica con dei modelli architettonici che di volta in volta variano a seconda dell'invenzione e dell'autore. Qui si mima il pensiero umano, non è incompiuta come forma. Per cui ti dico, per rispondere a quello che appunto tu mi chiedevi: ogni replica esaurisce il lavoro fatto, così come se tu pensassi, se tu avessi un pensiero chiave per la tua vita: ovviamente ci ripenserai più e più volte. Ogni singola seduta di pensiero esaurisce quella tua questione, salvo poi riproporsi in una maniera che la complica, salvo poi continuare ad ossessionarti e quindi a svilupparsi, a crescere, inanellarsi, rimodellarsi, implicarsi, contraddirsi e, in questo caso, è la bellezza della vita, sicuramente è un luogo vivo. Questo dispositivo enfatizza una cosa che avviene sempre: nessuna replica di nessuno spettacolo come dicevo è mai uguale a se stessa. Allora forse sì, uno studioso di uno spettacolo dovrebbe vedere più volte lo stesso spettacolo, per me il teatro è caratterizzato dalla vita e la vita cambia, muta, quindi cogliere la vita significa darsi più possibilità.

LDT: Ora ti chiedo di affacciarti un attimo all'ambito scientifico dal quale io ti pongo queste domande. Storicamente all'interno della semiotica si è dato il problema di cosa studiare, in virtù di quello che stai dicendo, cioè del carattere effimero del teatro. Quindi ci si è chiesti se studiarlo nella sua ripetizione e quindi nella sua invariabilità oppure nella sua variabilità estrema. Inoltre ci si è chiesti se studiarlo in relazione a quell'altra parte fondamentale del teatro che è il pubblico. Quello che ti chiedo è, secondo te ha senso progettare di fare uno studio scientifico, tendenzialmente scientifico,  su questo spettacolo se le repliche non si ripetono mai uguali a loro stesse e se il pubblico d'altra parte, di fronte ad uno spettacolo così aperto alle interpretazioni, di volta in volta ci mette il suo, in maniera così potente e importante?

CL: Ma direi senz'altro di sì, poi io non sono una scienziata, non ho finalità scientifiche, ma è un'altra forma di finalità la mia che ha nella ripetizione il suo assillo, perché io credo che se un teatrante sceglie di ripetere lo stesso esperimento, tra virgolette – sto usando una metafora, naturalmente – più e più volte decide di fare come tu dici quello che lo scienziato si propone di fare, di usare un corpo vivo come lo spettacolo e le sue relazioni col pubblico di questo tipo, così cangiante e mutevole, forse per la stessa ragione per cui un artista sempre accetta di far sì che questa forma viva si ripeta o non si ripeta. Perché le sue domande sono così grandi e così profonde da richiedere questa ripetizione per poter essere in qualche modo esaurite, depositate. Quindi penso che... in realtà poi le reazioni si ripetano...

LDT: Ecco, tu ad esempio, girando l'Italia con questo spettacolo, non so se sei stata anche all'estero...

CL: ...sì...

LDT: ...hai potuto notare quella coerenza di cui ti parlavo prima? Quindi, una base possibile per uno studio del genere del pubblico c'è  oppure...?

CL: Le reazioni si ripetono perché gli uomini si ripetono, cioè ognuno non è un individuo ripetibile però i tipi umani, gli assilli umani, le passioni umane, si assomigliano tra di loro. Penso, questo in tutte le discipline: uno psicologo che ha miliardi di pazienti, quando gli racconti una storia che assolutamente è tua, lui probabilmente riconosce alcuni aspetti rispetto alla casistica di pazienti che ha incontrato nella sua vita… l'essere umano assomiglia all'essere umano, è così quasi sempre… per fortuna o purtroppo, per cui io noto per esempio che in certe scene le donne hanno determinate reazioni e gli uomini altre, e questo non è una regola ma accade molto spesso.

LDT: Ad esempio?

CL: Ad esempio la scena che dicevo prima della seduzione, che normalmente è trovata estremamente divertente, quasi comica, dalle donne, non so se l'avete riscontrato...

LDT: L'ho riscontrato questa sera io in particolare (6)

CL: Le donne si divertono molto di più degli uomini... anche alcuni uomini ovviamente si divertono molto, però mi sono resa conto da quello che mi hai riportato che le donne la trovano buffa, gli uomini a volte rimangono interdetti semplicemente. Pensa che l'altro giorno è venuto un medico chirurgo che una delle poche cose che ha detto sul testo è stata che è bellissima la parte della donazione degli organi. Perché? Perché per lui è importantissima, perché uno va a  pescare le questioni in cui si rispecchia e che sono fondamentali per la sua anima e che soprattutto in un lavoro così che si presenta come un labirinto di senso e che ti lascia la possibilità di raggiungere quasi e fare delle scelte, vai a scegliere veramente quello che ti assomiglia e quello che ti è necessario.

LDT: Senti, voi di questo lavoro avete parlato anche all'interno di un libro in cui raccontate tutto il “Progetto Oz”, (7) però anche lì non lo fate in maniera documentaria, come se si dovesse restituire una verità allo spettacolo, ma lo fate ricreandolo in forma di libro. Questo intreccio di linguaggio è una cosa molto interessante che vorrei chiederti di approfondire.

CL: Ma, guarda, noi pensiamo che un libro su un progetto non possa mai, o per lo meno... un libro che fa un artista non è quasi mai descrittivo, allora se deve essere una cosa descrittiva è necessario come dicevo prima che lo faccia un osservatore esterno, un critico...  se io devo concepire un libro sul mio lavoro artistico deve essere un'opera quanto uno spettacolo... per cui devo pormi dei problemi sulla forma. Se io parlo di West devo trovare quella forma che è capace di sollecitare nel lettore quello che lo spettacolo sollecita in uno spettatore. Un libro ha delle dimensioni, un contatto specifico molto diverso da quello di uno spettacolo teatrale e il tentativo in particolare che in West viene fatto è quello di puntare il dito su questa libertà/non libertà di chi legge, ricostruire la sua storia. Nel libro ci sono varie azioni a frammenti e l'attrice la puoi eterodirigere tu, tra virgolette, l'attrice che viene come scansionata in fotogrammi e quei gesti che possono corrispondere a determinate frasi, che sei tu ad attribuirle. In realtà la dirigi in una maniera molto più passiva di come avviene in questo spettacolo… però in realtà sei tu a costruirti la tua storia. Come a dire, qual è la storia vera? La storia vera non esiste, sei tu, puoi rileggere quel libro mille volte. Penso sempre alla combinatoria quando penso a questo tipo  di discorso… il libro che per noi è inarrivabile è quello di Quenau che è Cento mila miliardi di poemi in cui, sai, non basterebbe una vita umana per dare vita a tutti i sensi possibili... Questa idea che il senso sia alla fine una questione irraggiungibile, molto bella e molto profonda... Ho avuto un momento, per esempio, nel lavoro di composizione testuale di questo spettacolo, in cui mi sono detta “forse è necessario che rinfreschi questo testo con altro lavoro” e mi sono accorta che il confine ha delle misure e il contenuto che appunto c'è in questo confine è limitato. I giochi sono infiniti e le combinazioni che puoi fare, le azioni e l'arte appunto di tenerle vive con questo tipo di questione che è spiazzare completamente se stessi ogni volta. Solo in quel modo poi chi è lì può trarne vita e creare un piedistallo per la creazione.

LDT: Un'altra cosa che mi interessa molto di questo lavoro, sempre rimanendo, anzi partendo, da questa idea dell'incrocio dei linguaggi è che nello straripare uno nell'altro si ricreano vicendevolmente. Qui c'è un lavoro di intertestualità e di intersemioticità molto forti perché voi vi richiamate al libro de Il mago di Oz ma anche al film, evidentemente, con alcuni stereotipi visivi che forse solo il film poteva dare. Ecco Il mago di Oz che poi dà il titolo al vostro progetto, che quindi per voi è molto importante, è solo un pretesto oppure in che modo avete lavorato su quest'opera per arrivare a quello che fate? E' un pretesto? Un punto d arrivo? Cercate, tradendolo in questo modo, di restituirlo in qualche modo?

CL: Ma, io penso che tutto sia tradito sempre, qualunque archetipo... ci sono dei nodi nella vita di una persona che trovano determinati rispecchiamenti che avvengono con delle figure mitiche e queste figure mitiche diventano una maniera per dare un pugno o un calcio, per spaccare in due la stessa identica questione, e  Il mago di Oz è entrato in questo tipo di questione... e in quel momento è diventato semplicemente una cosa attiva per produrre l'avanzamento di questa domanda-risposta che uno si fa nel lavoro.

LDT: Quindi questo dispositivo dell'eterodirezione viene comunque da qualche tema che voi avete tirato fuori da Il mago di Oz oppure è qualcosa di esterno?

CL: Sicuramente, questo sì, sono due cose diverse per me queste, cioè, due domande che attingono a due universi diversi. La prima appunto è questa, quando si sceglie di lavorare su Amleto piuttosto che su Dorothy piuttosto che su Alice lo si fa perché c'è qualche cosa di mitico, di profondo, che agisce in noi e l'unico modo per conservare quella storia che qualcuno ha inventato (ma probabilmente Baum, quando ha inventato Oz, chissà, a sua volta faceva fede a qualche altra figura mitica che, a volte visibile, a volte dichiarata...) l'unica maniera per conservare è tradire, non hai scelta, poi uno dopo può tradire in vari modi, c'è il testo che può essere conservato, può essere più modificato, più... ma non è questo il problema, il tradimento è l unica forma di conservazione.
Sulla seconda cosa che mi chiedi, invece, tutto quello che avviene in questo progetto per noi conserva un tentativo di rilanciare delle domande che vengono poste da quel mito. Nello spettacolo la questione dell'eterodirezione, del potere che qualcuno esercita sull'immaginazione altrui, non solo sulla comunicazione ma proprio sull'immaginazione e il pensiero, è immenso. Pensa alla figura del mago c che inchiavarda gli occhialini al cervello degli uomini. Questo è nel libro una delle immagini più violente  che la letteratura dei primi del Novecento fra l'altro ha creato profeticamente, perché mi sembra una cosa che oggi descrive l'universo in cui siamo immersi. E sicuramente la questione dell'eterodirezione rispecchia...

LDT: La questione dell'eterodirezione è soltanto relativa al discorso della pubblicità di cui c'è una traccia evidente nella dicitura “persuasori occulti” (8) oppure più in generale rispetto proprio al mondo in cui viviamo, alle convenzioni, quelle socio-politiche, ma non solo, culturali, o a un discorso più generico?

CL: Più generico. I nostri due riferimenti sono sicuramente Vance Packard (9) e Tahler e Sunstein (10) e in tutti e due i libri la pubblicità è sicuramente uno dei Leitmotiv dominanti. Però si parla anche del condizionamento sociale, dei gruppi sociali. La teoria del paternalismo libertario sostiene appunto che non esiste una nostra azione libera e dunque tanto vale piegarla a dei giusti fini. Come dire, una discutibilissima teoria, ha i suoi pro e i suoi contro, però è così, se ci  pensi. E' vero che qualunque nostro comportamento è un comportamento mediato da qualcosa che nemmeno possiamo decifrare di primo acchito. E' un tema agghiacciante, questo.

LDT: Nella dissezione dei linguaggi che voi praticate in questo spettacolo, ritrovi un valore critico politico/sociale nei confronti di questi condizionamenti, di questo stato in cui ci troviamo sempre o forse in particolare oggi? In generale, quindi, il vostro lavoro è diretto in questa direzione e secondo te è possibile far passare attraverso una critica del linguaggio una critica socio-politica o no?

CL: Sì, più che critico. Non so se intendi critica nel senso teatrale...

LDT: … no, non critica teatrale, ma critica nel senso di messa in crisi, di spaccatura degli stereotipi.

CL:
In questo lavoro c'è una messa in evidenza, è come se venisse messa in estrema evidenza, ed enfatizzato anche, un qualche cosa, è come se venisse messo in evidenza come con un dispositivo mostruoso che è una lente, e questi micro-condizionamenti li mette sotto osservazione, addirittura creando una stranissima condizione dell'attore sulla scena. Mettere così in evidenza un fenomeno è probabilmente dare le condizioni a chi vi assiste di esserne implicato profondamente, tu avrai sicuramente raccolto tra le testimonianze degli spettatori questa costante….

LDT: Ieri uno spettatore mi parlava del prurito che lo spettacolo gli ha provocato...

CL: Esserne implicato a questo livello, che è un livello non solo intellettuale ma anche fisico, vuol dire sperimentare quella condizione, dunque per forza scatta una questione critica in ognuno. Però la cosa che mi preme dire non è tanto lo spettacolo, che si pone come promotore di questa funzione critica, ma lo spettacolo mette, proprio perché è un dispositivo, nelle condizioni chi guarda di muoverla in se stesso. Lo spettacolo non dà risposte, fa una domanda. In questo senso non critica la società contemporanea, ma mette nelle condizioni chi è difronte, chi osserva, di darsi delle risposte a questa sua domanda, di sperimentare così profondamente una condizione così da essere costretto a chiedersi qualcosa. Questo io credo sia poi il ruolo dell'arte: non credo minimamente che l'arte possa dare in qualche modo delle risposte, ma fare delle domande sempre più precise.

LDT: L'ultima cosa che ti chiedo riguarda un dettaglio dello spettacolo che mi ha interessato, che mi ha incuriosito molto, cioè il telecomando che voi date all'ingresso. Quel telecomando ha a che fare con quello che stavi dicendo tu probabilmente, perché pone lo spettatore in una condizione strana, quella del comandare, del telecomandare, però nello stesso tempo tramite il meccanismo di identificazione, quello di trovarsi telecomandato. Sei d accordo?

CL: Il telecomando è un'opera di un artista. (11) E' una ennesima metafora naturalmente. Il telecomando delle emozioni, qualunque cosa viene accesa e spenta, c'è un tastino che accende e spegne nello spettacolo ci sono degli input o degli ordini molto più precisi a cui qualcuno risponde e appunto come ti dicevo la cosa più interessante che avviene è che si dilata questo minimo spazio che diventa immenso proprio perché quello che viene esercitato dall'attrice è immenso, ed è un gesto di creatività continua che riesce ad inventare il senso in una maniera che noi stessi, che diamo gli ordini, non possiamo immaginare e ogni volta spiazzante anche per noi. Come Francesca riesce a riproporti il senso di quello che tu credi di essere… è nello spiazzamento reciproco quello che avviene…

LDT: Quindi c'è una reciprocità che tu senti? Forse di primo acchito non l'avevo sentito... Avevo sentito piuttosto una sensazione di violenza che fanno le voci nei confronti dell'attrice... però quello che mi dici è interessante perché si ripropone una reciprocità in questo... è come se ci fosse un riscatto della libertà...

CL: E' la stessa cosa che accade allo spettatore, cioè provare un prurito perché qualcuno prova un prurito, non si è esenti da questo tipo di meccanismo. Anche chi tiene il ritmo compulsivo di questa questione, che è soggetto alla somministrazione dell'istruzione, viene profondamente condizionato dal rimbalzo… appunto perché c'è questa questione… la reattività estrema dell'attore che è lì ma non esegue, in realtà, ma continuamente rilancia, è come in un gioco: io una palla posso lanciarla e poi l'altro decide se schiacciarla o ripalleggiarla e, a seconda della forza impressa a questa palla, la mia seconda mossa sarà condizionata… ed è un gioco creativo… continuamente di squadra, non solo ci condizioniamo, è un condizionamento plurimo, nel senso che io sono condizionata sicuramente dal lavoro di Marco, dalla musica, dal lavoro di Francesca, e lei è condizionata da noi. Questo pone una domanda, e Vance Packard la poneva nel suo libro, su chi sia la mente che tiene le fila di questo principio che è l'eterodirezione: il persuasore occulto non è forse in feedback continuo con la reazione che riceve? Perché io disegno per esempio le mie strategie pubblicitarie raffinate sulla base di un feedback, e il feedback è il feedback che un uomo mi propone o che mi offre ed io in base a questo riesco ad inventare il modo per condizionarlo; lui condiziona il mio modo di condizionarlo ed è un cerchio che si chiude. E' una partita molto aperta.

LDT: Va bene grazie.
Ora vorrei chiedere a te, Francesca, qualcosa. Vorrei entrare subito nel vivo dello spettacolo, nel senso del sentire che questo spettacolo ti comporta, mi ha comportato e quindi comporta al pubblico. A partire anche da quello che dicevamo con Chiara, lei sente come positivo questa reciprocità fra la tua razione e la sua reazione, che per te è un'altra volta azione, ecc. Io soprattutto le prime volte che ho visto lo spettacolo avevo sentito moltissimo su di me, evidentemente contagiato dalla tua presenza, una sensazione di violenza. E' questa la sensazione che tu provi, fondamentalmente, quando sei dentro questo dispositivo oppure invece è una sensazione di libertà, o tutte e due?


FM: Sì in realtà… potrei dirti che ci sono entrambe, rispetto alla sensazione che tu percepisci come violenza… posso dirti che è stata una sensazione con cui ho dovuto fare i conti durante le prove. Ci sono stati proprio diciamo dei passaggi progressivi e c'è stata la necessità di accettare o di trovare il modo di stare dentro questo dispositivo. Per esempio, per quanto riguarda i comandi della parte fisica, la rapidità con cui mi vengono cambiati, a volte io la percepivo veramente come una tortura, dicevo: “mi stai facendo fare queste cose... per favore! Per favore, dammi un attimo” e invece no, veniva subito cambiato e per esempio questa è stata una delle cose che ho percepito con maggior violenza… anche perché banalmente è faticoso fisicamente e quindi cerchi di proteggerti. Sempre parlando delle prove, c'è stato un momento in cui invece per quanto riguarda la parte testuale ho avuto bisogno di proteggermi, e quindi ho in qualche modo messo in atto delle resistenze, ed era sul fatto che la parte testuale è ampiamente autobiografica. Ci sono stati dei momenti in cui non mi andava di parlare pubblicamente di cose mie, ma ti dirò, non soltanto parlare pubblicamente di cose mie, ma c'era anche una sorta di pudore rispetto a quella che è l'esperienza vera personale di una vita, nella sua poi banalità se vuoi, però è come la necessità di tener separate le cose, proprio un pudore, dico, perché della mia vita personale devo fare materiale scenico?… Quindi in questo senso io ho dovuto superare degli scogli perché erano cose che percepivo come violenze, ma le ho superate. Superate perché probabilmente tecnicamente ho trovato un flusso, è diventato più facile stare in scena nonostante la rapidità con cui mi vengono cambiati gli ordini ecc. Evidentemente ad un certo punto ho trovato come quando impari la parte in qualche modo. Quindi c'era un allenamento, ecco, c'è stato un allenamento. E a quel punto diventava anche divertente, diventava una sfida, dalla percezione della violenza era diventato quasi un gioco, un gioco di sfida, riguardo la parte testuale, viene comunque frammentata, perde del personale, non completamente, ma un po’ sì, anche quello è uno scoglio che ho superato, in certi momenti in scena. Quando soprattutto ci sono un paio di capitoli che sono molto faticosi per me, e lì ogni tanto sento questa violenza, questa sensazione violenta su questo corpo, la percepisco anche io come violenza, però non sbagli a dire che c'è anche un margine di libertà, “libertà” forse non è la parola più esatta, ma c'è qualcosa di pericolosamente leggero nell'avere qualcuno che ti dice cosa dire e cosa fare. Dico “pericolosamente” perché ha a che vedere con la responsabilità individuale di ogni nostra azione. “Non si avrebbe una vita migliore se ci fosse... se ci fosse qualcuno che sceglie per noi?” (12) Mi abbandono a quello che loro mi chiedono... e questo è qualcosa che mi alleggerisce nonostante la fatica, che c'è ed è reale, però da un certo punto di vista, sei lì, c'è chi decide per te.

LDT: Per molti degli spettatori il tema centrale di questo spettacolo è stato quello della scelta, tu lo condividi?

FM:
Sì lo è: quanto siamo liberi di scegliere? Quanto la nostra libertà di scelta è un illusione o no? Quanto siamo condizionati?

LDT: In che cosa tu ricerchi in questo tuo lavoro, in questo tuo spettacolo, il tuo spazio di libertà di scelta? Nella qualità del compiere gesti o di produrre la voce o dell'interpretare…

FM: Ho troppo poco tempo… ho qualche frazione di secondo per decidere, come dire, le cose, ma in realtà se dovessi fare una proporzione all'interno dell'arco dello spettacolo direi che siamo forse… nel 30% riesco a decidere come dire quello che voglio dire... nel resto no. Quello che sto per dire e dico è più guidato dall'energia del gesto che dal senso di quello che dico perché il gesto è sempre più potente della parola. L'azione è qualcosa che ti condiziona molto… se mi si chiede di fare un gesto con una qualità di un certo tipo è molto facile che questa qualità influenzi quello che io dico, la battuta.

LDT: Ma tu lavori contro questo meccanismo o no?

FM: No, no no!

LDT: Però io ho percepito che la tua voce spesso conserva una qualità narrativa... io ci ho provato a fare questo esercizio dell'eterodirezione, non è facile. Mi sono detto, dovrà lavorare un po’ per tenere la voce in un certo modo...

FM: beh... forse quello che tu dici con la narrativa, forse sono le primissime parti di ogni capitolo, io so che cambia perché mi viene detto… “vai a neutro” quindi io so che sta cambiando la musica e che stiamo andando... ci stiamo inoltrando nel capitolo successivo, chiamiamolo così, e allora è come se io cercassi di riprendere in mano un po’ la situazione, ho la necessità di ancorarmi a qualche cosa, e probabilmente la forma narrativa è quella che mi dà quest'ancora… dopo di che, ripeto, in un lavoro così non puoi andare contro niente perché altrimenti non ci stai… è un'esperienza, io lo dico a tutti i miei colleghi, straordinaria per l'attore, provare a uscire da quello che è il controllo... da quello a cui ci abituano... questo è uno straordinario esercizio perché non ci consente di avere controllo… si esce anche da certi vizi di forma, sei in esposizione totale, mi sembra anche una metafora molto interessante dell'essere attore...

LDT: Ecco questo ti volevo chiedere… per te che ruolo ha all'interno del tuo percorso questo lavoro con i Fanny & Alexander?

FM: Proprio ieri sera è venuto un amico napoletano che mi ha visto spesso in scena in passato ed ha cercato di dirmi “in questo tuo lavoro c'è una storia lunghissima”, e non parlava degli episodi autobiografici raccontati, mi parlava dell'essere attore, attrice, ed è una cosa che mi onora, lo faccio da quasi 30 anni questo lavoro. Il lavoro di attore è un lavoro di accumulo di esperienze di vita, forse il nostro è l'unico mestiere in cui più si diventa vecchi più si migliora. Non è vero per tutti, anzi, spesso c'è chi si fossilizza e allora diventa proprio un burattino, che ripete sempre certe cose. Chi ha la possibilità, anche per le esperienze, per gli incontri, per i compagni di strada... chi ha la possibilità va nell'altra direzione. Io sono infinitamente grata a Fanny & Alexander intanto per l'incontro con loro, perché è dal 2003 che collaboro con loro in alcuni spettacoli, e questo è proprio un regalo che loro mi hanno fatto…

LDT: E perché dici che questa condizione è una metafora dell'idea di attore in generale?

FM:
Guarda, su questo voglio essere precisa perché proprio oggi ho avuto una discussione con una mia collega... Per esempio, Leo che è stato mio maestro per tanto tempo (13), diceva che gli attori si dividono in due categorie: chi va in scena con un senso della responsabilità di quello che va a dire e va a fare e chi se ne frega, i sicari, gente pagata per fare e per dire qualche cosa. Io ho sempre cercato di non essere sicario, ho sempre cercato di fare delle scelte e di condividere il progetto che sposavo. Naturalmente non sempre va bene, a volte ti penti, o comunque hai delle resistenze, ovviamente hai il tuo spirito critico che si esercita, però io cerco di essere sempre molto ligia, perché non devi andare contro, perché non funziona così il teatro, funziona in altro modo, poi il risultato può non corrispondere alle tue aspettative, ma questa è un'altra cosa. Ma io mi do, per quella che è la mia voce, il mio modo di muovermi, quella che è la mia storia, tutto questo per me è un darsi... per questo dico che è una metafora: per me l'attore deve essere un grande gesto di generosità, un grande, grandissimo gesto di amore verso il teatro.

LDT: Grazie.


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(1) Intervista svolta nel marzo 2011 in occasione delle repliche di West al Teatro Galleria Toledo di Napoli, contestualmente a uno studio analitico dello stesso spettacolo, condotto dagli studenti del “Laboratorio di analisi del teatro contemporaneo” coordinato da Luca Di Tommaso nel Corso di Laurea in “Scienze del Turismo a Indirizzo Manageriale” dell'Università degli Studi di Napoli “Federico II”.
(2) Cfr. Roger Caillois, I giochi e gli uomini. La maschera e la vertigine, Bompiani, Milano 2000.
(3) Il riferimento è a Luigi De Angelis, cofondatore della compagnia con Chiara Lagani.
(4)  Si tratta, naturalmente, del “Progetto Oz”.
(5) Si tratta del “Progetto Laurence”,  dedicato appunto alla figura di Thomas Edward Laurence, meglio conosciuto come Laurence d’Arabia. Progetto che si svilupperà tra il 2011 e il 2013 e sarà articolato in tre opere: lo spettacolo T.E.L. (2011), il radiodramma 338171 T.E.L. (2011) e lo spettacolo Rivolta nel deserto (2013).
(6) Ci si riferisce a una delle repliche serali di West al teatro Galleria Toledo di Napoli, più ricca di pubblico femminile e con effetti di ilarità tra gli spettatori maggiori che nelle altre serate.
(7) Cfr. Fanny & Alexander, O/Z. Atlante di un viaggio teatrale, Ubulibri, Milano 2010.
(8) Le locandine dello spettacolo recano la dicitura “persuasori occulti Marco Cavalcoli e Chiara Lagani”, che nello spettacolo appunto eterodirigono l'attrice da dietro le quinte, mediante il sistema degli auricolari, impartendole istruzioni sul testo verbale e gestuale da recitare.
(9) Cfr. Vance Packard, I persuasori occulti, Einaudi, Torino 2005.
(10) Cfr. Richerd H. Tahler e Cass R. Sunstein, Nudge. La spinta gentile. La nuova strategia per migliorare le nostre decisioni su denaro, salute, felicità, Feltrinelli, Milano 2009.
(11) Cfr. i credits alla voce “persuasione” nel libro O/Z citato.
(12) E' un'autocitazione dallo spettacolo.
(13) Leo De Berardinis.

 
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