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///Una rubrica per ripensare la relazione tra semiotica e teatro oggi///
a cura di Luca Di Tommaso

“Il luogo delle pluralità e delle intersezioni"

Intervista a Marco Palladini su semiotica e critica teatrali.
di Luca Di Tommaso [PDF]

fotografia © Dino Ignani (www.dinoignani.net)

Marco Palladini è scrittore, drammaturgo, regista, performer e critico, attivo in Italia dagli anni '80 nell'ambito del teatro d'autore e di ricerca. Tra i suoi ultimi lavori per la scena Rosso Fuoco (2002), Poesie per un tempo di guerra (2004), Gli angeli ribelli e l'Età oscura (2005), Hudèmata Actàbat - Suite nera (2007), Ho visto le migliori menti – Beat poetry e oltre (2009), Il vangelo secondo Pier Paolo (2010).
Tra le sue più interessanti pubblicazioni teatrali:
Destinazione Sade (2006, riedita come ebook nel 2009 in www.cittaelestelle.it), Serial Killer (Sellerio, 1999). Palladini è direttore della rivista on line del Sns “Le reti di Dedalus” (www.retididedalus.it) ed autore del volume critico Teatronauti del chaos – La scena sperimentale e postmoderna in Italia 1976-2008 (Fermenti, 2009).

LDT: Signor Palladini, nel suo recente libro I Teatronauti del Chaos, lei ha raccolto una serie di sue recensioni e testi riferiti all’ultimo trentennio della scena teatrale italiana: un lungo itinerario che racconta l’assidua frequentazione e traduzione in scrittura del linguaggio teatrale. Questo periodo è stato caratterizzato tra l’altro dalla nascita, dallo sviluppo e poi dal declino di una disciplina, la semiotica teatrale, che oggi pare piuttosto assopita, almeno nel nostro paese. Potrebbe raccontarmi come ha letto e vissuto questa parabola, lei che tra l’altro ricorda, in chiusura del suo libro, un teorico dei linguaggi come Maurizio Grande?

MP: Dal mio libro si dovrebbe capire che la mia scrittura critico-narrativa sul teatro è sempre stata asistematica, idiosincratica, ipersoggettiva, dunque del tutto estranea agli accademismi o agli ‘scientismi’ tassonomici e strutturalistici. Ciò precisato, non posso o voglio escludere che la mia ‘sensibilità’ di scrittore sia stata influenzata anche dalla semiologia, in quanto arte di investigazione e di decifrazione multipla dei segni. Nel mio background c’è sicuramente pure questo, come libera disposizione e attitudine a servirsi di vari input disciplinari per produrre sintesi di scrittura e di intelligenza critica, espressivamente efficaci e oltre l’orizzonte dell’ovvio e delle considerazioni cronachistico-notarili. Ma pure qui una precisazione: diceva Gianfranco Contini “non esiste la critica, esistono i critici”. Del pari, potrei dire non esiste la semiologia, esistono i semiologi. Non a caso, Umberto Eco commemorando giusto trent’anni fa la scomparsa di Roland Barthes, avvisava che egli non lasciava allievi né un ‘metodo’ insegnabile e replicabile, perché il metodo era lui stesso, la sua inimitabile capacità di ‘vedere’ segni (non visibili o incomprensibili ad altri) e di tramutarli in reti conoscitive complesse, in microsistemi gnoseologici che arricchivano, in forme talora impensabili e sorprendenti, la nostra percezione interculturale del mondo. Potrei, allora, supporre che se la semiotica teatrale, come lei sostiene, oggi langue, è perché mancano dei semiotici all’altezza, col talento di autosorprendersi e di sorprenderci.
Lei accenna alle pagine che nei Teatronauti io riservo a Maurizio Grande, ma non le sarà sfuggito che io lo ricordo attraverso un’attività, quella di drammaturgo, che i suoi colleghi universitari reputavano (e tuttora reputano) minore, secondaria, sviante. Mentre per me è proprio attraverso un ‘segno’ apparentemente periferico che riesco a risalire al ‘punctum’ (vedasi Barthes) di un soggetto, al cuore del suo problema intellettuale. Nella fattispecie il conflitto profondo e, per lungo tempo, inconscio tra una giovanile vocazione creativa e un’attività teorica e semiotico-psicanalitica (du côté de Lacan) professional-accademica. Non casualmente individuo nella pratica delle ‘riscritture’ il modo in cui Grande, a mio avviso, cercò di trovare una soluzione al conflitto endogeno tra lo studioso e l’autore. Che ci sia poi riuscito, ciascuno può giudicare da sé.
Per concludere, mi sembra di poter dire in generale che discipline come la semiologia, lo strutturalismo, l’ermeneutica, la linguistica hanno corrisposto ad una fase matura (Deleuze avrebbe detto ‘esausta’) del Moderno (la metà del ’900), ancora di deriva tardo-illuministica e ancora intrisa della pretesa ‘enciclopedica’ di poter dare una ‘regola’ conoscitiva-statutaria al mondo. Oggi, nella ipermodernità del XXI secolo tali pretese totalizzanti si sono rivelate delle mere illusioni, la globalizzazione ‘caosmotica’ e l’intreccio puntiforme delle culture non consentono più di alimentare l’idea di una ‘epistéme’, di una egemonia macroculturale oggettivistica e sistematica.
Ciò non toglie, per rimanere all’ambito che ci preme, quello teatrale, che degli acuti indagatori dei segni (e dei sogni) della scena in Italia continuino brillantemente ad operare (i primi nomi che mi vengono in mente sono di figure amiche quali Antonio Attisani, Valentina Valentini, Franco Ruffini). Mancano, però, i giovani semiotici? È vero, ma è tutto questo paese che invecchia e non si rinnova, non c’è un vero ricambio generazionale. Vedremo, forse basta saper aspettare.

 

LDT: Da giovane semiologo, la prima considerazione che mi suscita la sua risposta è che la mia disciplina ha da tempo smesso di indagare delle regole generali staticamente intese, dedicandosi piuttosto all’analisi dei singoli testi (non solo verbali), all’interno dei quali indagare, di volta in volta, le regole di generazione del senso e d’orientamento per la sua fruizione. Mi pare che oltre a una buona dose di imprevedibilità e irriducibilità, ogni fenomeno, anche teatrale, implichi sempre una certa serie di “costanze singolari”, per così dire, alla luce della quale diviene più effabile l’ineffabilità apparente del puramente singolare. In questo senso, credo che una semiotica orientata sulle singolarità, alla caccia cioè delle convenzioni dinamiche che ogni testo mette all’opera, sia conciliante con le tensioni di una scrittura soggettiva che dal canto suo costantemente, come lei fa, pratichi l’invenzione (che Eco definiva tempo fa un tratto del testo estetico ed anti-ideologico) e quindi ponga in crisi quelle convenzioni ormai sclerotizzate che si danno come naturali, e cioè immutabili. Il teatro, credo, fa sua quasi naturalmente (a meno che non sia cattivo teatro) questa pratica, le chiedo se secondo lei altrettanto fa la critica teatrale oggi, e se non è così (come le ho sentito dire alla presentazione del suo libro al teatro India), come dovrebbe muoversi per farlo meglio?

 

MP: Sussiste una difficoltà nel nostro colloquio. Lei continua a fare riferimento ad un’idea generale e generica (forse in senso kantiano) di ‘critica teatrale’ che, come ho già detto, io non riconosco. Per me esistono i critici teatrali, come singoli soggetti ed elaboratori di un proprio sguardo critico sul teatro che vedono. E ciascuno di loro svolge tale ‘missione’ (come direbbe Edoardo Sanguineti) secondo le sue capacità individuali di ‘intus-legere’ i segni scenici che ha di fronte e di connetterli (“only connect” è il compito del critico secondo E. M. Forster) secondo il suo personale talento di scrittura. Piuttosto, nella fattispecie storica, per ancorare il discorso ad un terreno concreto e non ad un olimpo astratto, dovremmo parlare degli spazi attuali di espressione e di esternazione dei critici. Che sono, pressoché, in via di sparizione. La stampa giornalistica (quotidiani e settimanali) ha ridotto drasticamente gli interventi critici sul teatro: ‘pezzi o pezzulli’ sempre più brevi, scritti in modo piatto e sciatto, non si intravvede più un punto di vista ‘forte’ sull’oggetto teatrale (unica, mi sembra, rilevante eccezione gli articoli di Franco Cordelli che resiste solitario sulle pagine del “Corriere della Sera”). E in ogni caso, tra quotidiani che hanno abolito la rubrica critica e altri che fanno una selezione ultra-mirata, il risultato è che la grande maggioranza degli spettacoli che vanno in scena nel Belpaese in pratica non vengono più recensiti dai giornali (qualcuno dirà che non è, poi, un male). Le riviste di teatro non ci sono più, se qualcuna sopravvive (io leggevo “Art’o” del mio amico Gianni Manzella, ignoro se continui ad uscire) non è più in grado di influenzare alcunché: l’epoca in cui riviste seminali come “La scrittura scenica” e “Teatroltre” di Beppe Bartolucci, “Sipario” diretto da Franco Quadri e “Scena” diretta da Antonio Attisani facevano ‘tendenza’ e rispecchiavano ed elaboravano in ‘tempo reale’ i fermenti e le esperienze più vive del teatro italiano e internazionale, è tramontata negli anni ’80 dello scorso secolo. L’unico luogo dove, al presente, possono operare i critici è, a mio parere, la Rete (io stesso dirigo attualmente una web-review). I limiti sono quelli che conosciamo: il virtuale è un ‘oceanus magnum’ dove tutto si deposita e rischia di disperdersi, però è possibile (questa la mia personale esperienza) col tempo trovare un pubblico di lettori di riferimento, persino più ampio dei media cartacei. Però, non bisogna sottacere che il lavoro critico online non è, finora, professionalmente remunerato e, dunque, si svolge su base volontaristica, necessariamente precaria e intermittente. Detto questo, per chiarezza e amor di verità, ribadisco che l’unico spazio possibile dove oggi si può riattivare un pensiero critico approfondito e non effimero, ritengo sia la Rete. Ed è uno spazio, anche mentale, aperto, ormai diffido dei ‘modelli’ più o meno unici o dei ‘metodi esemplari’. La Rete è per definizione il luogo delle pluralità e delle intersezioni.
Se debbo parlare per me, credo sia evidente dal mio libro I Teatronauti, che io concepisco la pratica critica come una forma di letteratura. Da scrittore-critico i miei points-de-repère sono si parva licet principalmente scrittori-critici come Alberto Arbasino (vedi Grazie per le magnifiche rose), Ennio Flaiano (vedi Lo spettatore addormentato), Elio Pagliarani (vedi Il fiato dello spettatore) o Angelo Maria Ripellino (vedi Siate buffi). La sensibilità linguistica e l’attitudine espressiva di uno scrittore credo che facciano ‘la differenza’ nella capacità di saper analizzare e raccontare uno spettacolo, anzi meglio la memoria di uno spettacolo, tenendo viva l’attenzione del lettore, sollecitando la sua immaginazione, senza scivolare nelle pastoie del gergo ‘critichese’ accademico e né ridursi a licenziare meri articoli cronachistico-informativi.

Però, non ho difficoltà ad ammettere che negli ultimi tre lustri si è delineata una nuova figura di critico, come fiancheggiatore e delucidatore e compagno di strada degli artisti che esamina, soprattutto incarnata dal critico ed operatore teatrale Paolo Ruffini, che dirige la collana “Spaesamenti” per Editoria&Spettacolo, che è un formidabile osservatorio sulle ultime e ‘ultimissime’ realtà nostrane del teatro di ricerca. La figura critica che promuove Ruffini, ispirandosi al territorio delle arti visive, è in sostanza quella di un curatore artistico, che si smarca dal compito di riferire e giudicare, per assumersi il compito di offrire elementi di conoscenza e di comprensione dettagliata dei processi di lavoro scenico di un gruppo o di un singolo artista, utili ad un inquadramento critico di tali esperienze senza far gravare su di loro dei ‘giudizi di valore’. Questa idea critica di Ruffini è molto diversa, in tal senso, dal patronage critico che caratterizzava la molteplice operatività di Bartolucci, che le sue gerarchie di valore le stabiliva eccome, distinguendo spesso, come dico nel mio libro, tra ‘buoni’ e ‘cattivi’ talora sulla base di antipatie o simpatie molto estemporanee, ben poco meditate. Il critico ruffiniano mi sembra la risposta mobile, sottile e intelligente alla crisi del Moderno che ha complessivamente depotenziato la funzione critica, riducendola ad accessorio, ad attività marginale, laddove il mercato ha bisogno di promoter, di organizzatori del consenso, non di surciliosi dispensatori di dissenso. Ecco, Ruffini con una sorta di ‘mossa del cavallo’ sposta il discorso a latere, lo trasversalizza, perimetra degli ambiti di esplorazione artistica reputati interessanti e lavora su quelli: i benigni diranno “con funzione maieutica”, i maligni “in  atto di collusione critica coi teatranti”.
Per motivi storici e culturali, con questa linea personalmente c’entro nulla, tuttavia mi interessa perché nella surmodernità del XXI secolo non c’è niente di peggio che rimanere fermi in questo “paese per vecchi” che è l’Italia. Dalla mia angolazione un rapporto così adesivo tra critico-curatore e artista rischia di annullare la ‘giusta distanza’ che permette di soppesare l’effettiva importanza, il peso specifico di una proposta teatrale, e dunque di generare l’identikit un critico ‘avalutativo’. D’altro canto, vista l’impasse attuale, anche in termini teorici e concettuali, una figura di critico-noncritico è forse la sola, ossimorica via d’uscita ad uno stallo epocal-culturale, è l’unica possibile strategia per rimettere in movimento le cose, per tenere aperte delle trame feconde di dialettica artistico-culturale in una situazione dove altrimenti avremmo degli standard ufficiali di teatro ‘di prosa’ (quello aborrito da Carmelo Bene) sempre più ripetitivi e appiattiti e autoprotetti dentro mere logiche economico-burocratiche di scambio, e dall’altra un pullulare di esperienze di ricerca abbandonate a se stesse senza riscontri di pensiero e di sistemazione o monitoraggio critico.

 

LDT: Con l’ultima domanda vorrei chiederle di raccontarmi l’esperienza della rivista on-line da lei diretta: Le reti di Dedalus. Da quanto tempo è attiva? Quali sono le sue caratteristiche attuali che la differenziano e la assimilano ai quotidiani da un lato e dall’altro alle riviste da lei sopra citate che sono state in grado, nel passato, di farsi specchio non stereotipato di una scena teatrale in cambiamento? Quali sono le caratteristiche della rete che riuscite a sfruttare meglio? Quali sono i vostri obiettivi in rapporto al teatro e alla conoscenza critica del teatro?

MP: Le reti di Dedalus (www.retididedalus.it) è attiva in rete dall’aprile del 2006, ma non si occupa specificamente di teatro. È la web-review ufficiale del Sindacato Nazionale Scrittori legato alla Cgil, e il suo campo tematico principale è la letteratura italiana e internazionale, oltre ad avere una sezione rivolta ai problemi e alle problematiche dei traduttori che sono una componente molto importante e professionalizzata del Sns. Essendone io il direttore ho previsto anche una sezione chiamata “Teatrica” che ha ospitato riflessioni critiche su spettacoli, festival, rassegne e incontri di teatro e di danza, profili o ricordi di figure significative della scena nostrana ed estera, recensioni di libri sul teatro, ma anche discussioni e polemiche e, in alcuni casi, veri e propri saggi teorici sulla prassi teatrale contemporanea; pubblichiamo inoltre anche numerosi testi, sia di lavori già andati in scena, sia drammaturgie inedite in attesa (o pure no) di una verifica sul palcoscenico. Nella sezione “Interviste” di Dedalus, da qualche numero stiamo poi anche pubblicando delle conversazioni con alcuni dei principali protagonisti della nostra scena di ricerca. Complessivamente, direi che abbiamo sempre offerto un materiale sia critico che creativo di ottimo livello, ma un po’ ad intermittenza, senza una organicità e una sistematicità che si potrebbe porre in essere in una rivista dedicata soltanto alla scena. Insomma, sono il primo a comprendere che si potrebbe fare senz’altro di più, ma Dedalus, ripeto, ha un carattere e una ‘mission’ (come si ama dire oggi) eminentemente letterario-culturale e, inoltre, fra i redattori e nella cerchia dei collaboratori più assidui non ci sono persone con specifiche competenze sul teatro.
Dedalus, poi, per iniziale scelta editoriale si è sottratta alla forma-blog, onnivalente in rete, perché molto spesso quella ci sembra una latrina sotto o anticulturale in cui protetti dal nickname decine o centinaia di ‘minus habentes’ (lo dico in modo colto) si esercitano ad insultare, a bersagliare o dileggiare chicchessia, nei modi più stupidi e degradati. Concepiamo la polemica anche aspra, ma condotta a viso aperto e con argomentazioni di spessore, questo è per noi il ‘lavoro culturale’ (per riprendere una bella espressione di Luciano Bianciardi). Vellicare, invece, la rete come ‘refugium’ o tribuna aperta per tutti i frustrati e i nevropatici incanagliti della società, ci sembra una scelta politicamente e culturalmente disdicevole e qualunquista.
Aver tenuto fermo questo carattere di rigore e impegno e altezza di scrittura ci viene, del resto, riconosciuto come un merito e un segno di distinzione dai cibernauti, le ultime rilevazioni ci dicono che abbiamo un numero di 7-8mila regolari contatti mensili, che per una rivista ‘difficile’ (e antidemagogica) come Dedalus è un risultato importante, inizialmente insperato. La qualità, dunque, ritengo che paghi contro l’approssimazione, la superficialità, la rozzezza e la tanta spazzatura che viene riversata nel mondo digitale e, pur nella dispersività della rete, ho verificato che è possibile trovare un proprio pubblico di lettori ‘forti’.
Per limiti intrinseci di organizzazione del lavoro, finora, abbiamo semmai sfruttato poco la multimedialità della rete, ovvero la messa online di audio e videofile teatrali, mi auguro che prossimamente si riesca ad implementare questa grande risorsa del web. Tra gli obiettivi futuri, ne posso indicare un paio: quello di aprire Dedalus principalmente a giovani osservatori di teatro, sono convinto che serva un ricambio generazionale, sono necessari nuovi occhi, nuovi intelletti, nuove antennine per captare in tempo reale i movimenti carsici e in divenire della scena italica che, nonostante tutto, nonostante i progressivi tagli alle sovvenzioni pubbliche, rimane a mio parere ricca di fermenti e di talenti. E poi vorrei invitare teatranti di varie generazioni e di differenti orientamenti estetici a raccontarsi in prima persona, facendo comprendere meglio ‘da dentro’ quali sono i loro percorsi creativi ed esistenziali e le difficoltà attuali a portare avanti una propria idea, un proprio progetto di teatro. Già con gli scrittori da un anno stiamo portando avanti un “Diario d’autore” come libero e personalissimo zibaldone, che è uno dei file più cliccati. Ecco, mi piacerebbe varare pure un ‘diario di bordo’ dei più sensibili e autoriflessivi artisti teatrali italiani. Conto di riuscirci.

 
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