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///Una rubrica per ripensare la relazione tra semiotica e teatro oggi/// fotografia © Dino Ignani (www.dinoignani.net) Marco Palladini è scrittore, drammaturgo, regista, performer e critico, attivo in Italia dagli anni '80 nell'ambito del teatro d'autore e di ricerca. Tra i suoi ultimi lavori per la scena Rosso Fuoco (2002), Poesie per un tempo di guerra (2004), Gli angeli ribelli e l'Età oscura (2005), Hudèmata Actàbat - Suite nera (2007), Ho visto le migliori menti – Beat poetry e oltre (2009), Il vangelo secondo Pier Paolo (2010). MP: Dal mio libro si dovrebbe capire che la mia scrittura critico-narrativa sul teatro è sempre stata asistematica, idiosincratica, ipersoggettiva, dunque del tutto estranea agli accademismi o agli ‘scientismi’ tassonomici e strutturalistici. Ciò precisato, non posso o voglio escludere che la mia ‘sensibilità’ di scrittore sia stata influenzata anche dalla semiologia, in quanto arte di investigazione e di decifrazione multipla dei segni. Nel mio background c’è sicuramente pure questo, come libera disposizione e attitudine a servirsi di vari input disciplinari per produrre sintesi di scrittura e di intelligenza critica, espressivamente efficaci e oltre l’orizzonte dell’ovvio e delle considerazioni cronachistico-notarili. Ma pure qui una precisazione: diceva Gianfranco Contini “non esiste la critica, esistono i critici”. Del pari, potrei dire non esiste la semiologia, esistono i semiologi. Non a caso, Umberto Eco commemorando giusto trent’anni fa la scomparsa di Roland Barthes, avvisava che egli non lasciava allievi né un ‘metodo’ insegnabile e replicabile, perché il metodo era lui stesso, la sua inimitabile capacità di ‘vedere’ segni (non visibili o incomprensibili ad altri) e di tramutarli in reti conoscitive complesse, in microsistemi gnoseologici che arricchivano, in forme talora impensabili e sorprendenti, la nostra percezione interculturale del mondo. Potrei, allora, supporre che se la semiotica teatrale, come lei sostiene, oggi langue, è perché mancano dei semiotici all’altezza, col talento di autosorprendersi e di sorprenderci.
LDT: Da giovane semiologo, la prima considerazione che mi suscita la sua risposta è che la mia disciplina ha da tempo smesso di indagare delle regole generali staticamente intese, dedicandosi piuttosto all’analisi dei singoli testi (non solo verbali), all’interno dei quali indagare, di volta in volta, le regole di generazione del senso e d’orientamento per la sua fruizione. Mi pare che oltre a una buona dose di imprevedibilità e irriducibilità, ogni fenomeno, anche teatrale, implichi sempre una certa serie di “costanze singolari”, per così dire, alla luce della quale diviene più effabile l’ineffabilità apparente del puramente singolare. In questo senso, credo che una semiotica orientata sulle singolarità, alla caccia cioè delle convenzioni dinamiche che ogni testo mette all’opera, sia conciliante con le tensioni di una scrittura soggettiva che dal canto suo costantemente, come lei fa, pratichi l’invenzione (che Eco definiva tempo fa un tratto del testo estetico ed anti-ideologico) e quindi ponga in crisi quelle convenzioni ormai sclerotizzate che si danno come naturali, e cioè immutabili. Il teatro, credo, fa sua quasi naturalmente (a meno che non sia cattivo teatro) questa pratica, le chiedo se secondo lei altrettanto fa la critica teatrale oggi, e se non è così (come le ho sentito dire alla presentazione del suo libro al teatro India), come dovrebbe muoversi per farlo meglio?
MP: Sussiste una difficoltà nel nostro colloquio. Lei continua a fare riferimento ad un’idea generale e generica (forse in senso kantiano) di ‘critica teatrale’ che, come ho già detto, io non riconosco. Per me esistono i critici teatrali, come singoli soggetti ed elaboratori di un proprio sguardo critico sul teatro che vedono. E ciascuno di loro svolge tale ‘missione’ (come direbbe Edoardo Sanguineti) secondo le sue capacità individuali di ‘intus-legere’ i segni scenici che ha di fronte e di connetterli (“only connect” è il compito del critico secondo E. M. Forster) secondo il suo personale talento di scrittura. Piuttosto, nella fattispecie storica, per ancorare il discorso ad un terreno concreto e non ad un olimpo astratto, dovremmo parlare degli spazi attuali di espressione e di esternazione dei critici. Che sono, pressoché, in via di sparizione. La stampa giornalistica (quotidiani e settimanali) ha ridotto drasticamente gli interventi critici sul teatro: ‘pezzi o pezzulli’ sempre più brevi, scritti in modo piatto e sciatto, non si intravvede più un punto di vista ‘forte’ sull’oggetto teatrale (unica, mi sembra, rilevante eccezione gli articoli di Franco Cordelli che resiste solitario sulle pagine del “Corriere della Sera”). E in ogni caso, tra quotidiani che hanno abolito la rubrica critica e altri che fanno una selezione ultra-mirata, il risultato è che la grande maggioranza degli spettacoli che vanno in scena nel Belpaese in pratica non vengono più recensiti dai giornali (qualcuno dirà che non è, poi, un male). Le riviste di teatro non ci sono più, se qualcuna sopravvive (io leggevo “Art’o” del mio amico Gianni Manzella, ignoro se continui ad uscire) non è più in grado di influenzare alcunché: l’epoca in cui riviste seminali come “La scrittura scenica” e “Teatroltre” di Beppe Bartolucci, “Sipario” diretto da Franco Quadri e “Scena” diretta da Antonio Attisani facevano ‘tendenza’ e rispecchiavano ed elaboravano in ‘tempo reale’ i fermenti e le esperienze più vive del teatro italiano e internazionale, è tramontata negli anni ’80 dello scorso secolo. L’unico luogo dove, al presente, possono operare i critici è, a mio parere, la Rete (io stesso dirigo attualmente una web-review). I limiti sono quelli che conosciamo: il virtuale è un ‘oceanus magnum’ dove tutto si deposita e rischia di disperdersi, però è possibile (questa la mia personale esperienza) col tempo trovare un pubblico di lettori di riferimento, persino più ampio dei media cartacei. Però, non bisogna sottacere che il lavoro critico online non è, finora, professionalmente remunerato e, dunque, si svolge su base volontaristica, necessariamente precaria e intermittente. Detto questo, per chiarezza e amor di verità, ribadisco che l’unico spazio possibile dove oggi si può riattivare un pensiero critico approfondito e non effimero, ritengo sia la Rete. Ed è uno spazio, anche mentale, aperto, ormai diffido dei ‘modelli’ più o meno unici o dei ‘metodi esemplari’. La Rete è per definizione il luogo delle pluralità e delle intersezioni. Però, non ho difficoltà ad ammettere che negli ultimi tre lustri si è delineata una nuova figura di critico, come fiancheggiatore e delucidatore e compagno di strada degli artisti che esamina, soprattutto incarnata dal critico ed operatore teatrale Paolo Ruffini, che dirige la collana “Spaesamenti” per Editoria&Spettacolo, che è un formidabile osservatorio sulle ultime e ‘ultimissime’ realtà nostrane del teatro di ricerca. La figura critica che promuove Ruffini, ispirandosi al territorio delle arti visive, è in sostanza quella di un curatore artistico, che si smarca dal compito di riferire e giudicare, per assumersi il compito di offrire elementi di conoscenza e di comprensione dettagliata dei processi di lavoro scenico di un gruppo o di un singolo artista, utili ad un inquadramento critico di tali esperienze senza far gravare su di loro dei ‘giudizi di valore’. Questa idea critica di Ruffini è molto diversa, in tal senso, dal patronage critico che caratterizzava la molteplice operatività di Bartolucci, che le sue gerarchie di valore le stabiliva eccome, distinguendo spesso, come dico nel mio libro, tra ‘buoni’ e ‘cattivi’ talora sulla base di antipatie o simpatie molto estemporanee, ben poco meditate. Il critico ruffiniano mi sembra la risposta mobile, sottile e intelligente alla crisi del Moderno che ha complessivamente depotenziato la funzione critica, riducendola ad accessorio, ad attività marginale, laddove il mercato ha bisogno di promoter, di organizzatori del consenso, non di surciliosi dispensatori di dissenso. Ecco, Ruffini con una sorta di ‘mossa del cavallo’ sposta il discorso a latere, lo trasversalizza, perimetra degli ambiti di esplorazione artistica reputati interessanti e lavora su quelli: i benigni diranno “con funzione maieutica”, i maligni “in atto di collusione critica coi teatranti”.
LDT: Con l’ultima domanda vorrei chiederle di raccontarmi l’esperienza della rivista on-line da lei diretta: Le reti di Dedalus. Da quanto tempo è attiva? Quali sono le sue caratteristiche attuali che la differenziano e la assimilano ai quotidiani da un lato e dall’altro alle riviste da lei sopra citate che sono state in grado, nel passato, di farsi specchio non stereotipato di una scena teatrale in cambiamento? Quali sono le caratteristiche della rete che riuscite a sfruttare meglio? Quali sono i vostri obiettivi in rapporto al teatro e alla conoscenza critica del teatro? MP: Le reti di Dedalus (www.retididedalus.it) è attiva in rete dall’aprile del 2006, ma non si occupa specificamente di teatro. È la web-review ufficiale del Sindacato Nazionale Scrittori legato alla Cgil, e il suo campo tematico principale è la letteratura italiana e internazionale, oltre ad avere una sezione rivolta ai problemi e alle problematiche dei traduttori che sono una componente molto importante e professionalizzata del Sns. Essendone io il direttore ho previsto anche una sezione chiamata “Teatrica” che ha ospitato riflessioni critiche su spettacoli, festival, rassegne e incontri di teatro e di danza, profili o ricordi di figure significative della scena nostrana ed estera, recensioni di libri sul teatro, ma anche discussioni e polemiche e, in alcuni casi, veri e propri saggi teorici sulla prassi teatrale contemporanea; pubblichiamo inoltre anche numerosi testi, sia di lavori già andati in scena, sia drammaturgie inedite in attesa (o pure no) di una verifica sul palcoscenico. Nella sezione “Interviste” di Dedalus, da qualche numero stiamo poi anche pubblicando delle conversazioni con alcuni dei principali protagonisti della nostra scena di ricerca. Complessivamente, direi che abbiamo sempre offerto un materiale sia critico che creativo di ottimo livello, ma un po’ ad intermittenza, senza una organicità e una sistematicità che si potrebbe porre in essere in una rivista dedicata soltanto alla scena. Insomma, sono il primo a comprendere che si potrebbe fare senz’altro di più, ma Dedalus, ripeto, ha un carattere e una ‘mission’ (come si ama dire oggi) eminentemente letterario-culturale e, inoltre, fra i redattori e nella cerchia dei collaboratori più assidui non ci sono persone con specifiche competenze sul teatro. |