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///Una rubrica per ripensare la relazione tra semiotica e teatro oggi///
a cura di Luca Di Tommaso


La parola e il suo doppio. Elogio del silenzio
di Luca Di Tommaso [PDF]

 

POZZO […] (Pausa, voce spenta) Ecco come vanno le cose su questa porca terra.
(Lungo silenzio)

Samuel Beckett


Di ciò di cui non si può parlare, si deve tacere.
Ludwig Wittgenstein



In principio era il silenzio.
O comunque un verbo assai taciturno, che sapeva il fatto suo, ma che non lo urlava. Semmai, lo sussurrava.
La parola, come il conscio di Freud, è soltanto la punta dell’iceberg. Già lo insegnava Amleto: tutto il resto è silenzio.

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L’elogio del silenzio è un elogio che nega il suo tema affermandolo.
Devo dunque partire da questo presupposto nella mia scrittura, e suggerirlo al lettore per la sua lettura. Siamo nell’ambito di un piacevole paradosso: parleremo di qualcosa che si dà nel non parlarne.
Comincerei così:
Simile e dissimile all’essere aristotelico, il silenzio si dice e non si dice in molti modi.

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Silenzio è negazione del frastuono. Frastuono è negazione dell’ascolto. Silenzio è affermazione dell’ascolto; precondizione necessaria e sufficiente indizio, per l’orecchio, ad attendersi qualcosa come una vibrazione dal mondo.
Amico del silenzio è il mormorio, unico, grande, puntuale, discreto, potente, suasivo veicolo d’umori e informazioni; principe fra i media, esso è origine e coronamento d’una comunicazione inattuale ma autenticamente umana: porta a porta, Eustachio ad Eustachio, lingua a timpano, fievole ponte di voci, luogo di crescita dell’essere umano, animale d’ascolto, abitante ed ospite del (g)lobo terrestre.
Nemico del silenzio è il rumore, unico grande, diffuso, banale, affastellato, ovvio ma disarticolato, e indistinto, vibrare di onde confuse: di lunghezza incongrua ed incommensurabilità reciproca.
Così nei bar, dove la Tv-sottofondo frammischia le sue protesi sonore a quelle disattente di svariate bocche, che le scavalcano di passaggio, e senza accorgersene. Così nei ristoranti e nelle trattorie, dove la scatola parlante diviene muta a furia di blaterare, dove lo spazio rumoristico che essa disegna diviene portoapprodo di solitudini diffuse, e dove la miscela dei sapori e degli odori si fa complemento d’una vaga sonnolenza acustica.
L’ha suggerito Umberto Eco di recente. La contemporaneità mette in atto una strategia che, parafrasando Wittgenstein, potrebbe descriversi così: di ciò di cui non si può parlare, si deve parlare moltissimo d’altro.

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Ogni vera simbiosi s’avvera come tacita intesa.
Al primo appuntamento raramente ci si guarda negli occhi, senza parlare e raccontare di sé. Al secondo si è forse un po’ meno impacciati e le labbra si chiudono già meno a disagio. Difficilmente, comunque, mi è riuscito di stare con l’altra persona completamente a mio agio, senza passare per il racconto di sé,  per un morbido chiacchierare. E in linea di massima, quando mi è capitato di amare, l’ho capito anche dal fatto che riuscivo, con lei, a condividere il silenzio.

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Si fa silenzioso il linguaggio deprivato di oralità. Disattivato il muscolo linguale, ecco riattivarsi quella lunga catena di gesti-segni che l’intelligenza umana dei sordi ha saputo, nella storia, elevare al rango di codice linguistico. Il linguaggio dei segni è vera e propria lingua, contrariamente a quanto la nostra tradizione fono-centrica ha troppo a lungo sostenuto e continua in parte a sostenere, incapace di vedere voci.
Oggi, il curioso che si reca a visitare o s’impegna a frequentare la “cultura sorda”, ha la fortuna d’incontrare una diversità che, come tutte le altre, cessa di essere un handicap non appena le vengono restituite le sue doti legittime e la sua meravigliosa capacità di esprimere il mondo e l’uomo da una prospettiva insolita.
Ecco le mani riappropriarsi della loro manualità, eccole coadiuvate da avambracci, braccia e spalle. Ecco il movimento linguistico coinvolgere le spalle il collo il capo. Ecco la parola prender corpo nella mimica di un viso restituito a un’espressività quasi eccessiva. Ecco gli occhi dilatarsi e socchiudersi sotto sopracciglia iper-elastiche. Ecco quindi tutto un tronco sostenersi sulla disinvoltura solida delle gambe, che si fanno colonne di un gioco scenico proiettato sul busto dalla percezione altrui.
(Ma c’è silenzio e silenzio, anche nel linguaggio dei segni: se un sordo è già teatrante quasi per ‘natura’ agli occhi degli udenti, e un napoletano udente è già plateale di per sé, il sordo napoletano è infine il non plus ultra della teatralità, con sommo piacere, e riposo, delle orecchie.)
Eccolo, quel corpo, ricomporsi in un segnato visivo-gestuale vicino tanto alla bipedia che ci libera dal quadrupede che è in noi, quanto alla primordiale e tutta umana necessità d’esprimersi in figure simboliche che trascendano l’immediato contesto dell’azione.
Quando cominceremo a non chiamare “disabili” coloro che sono diversamente abili, potremo godere del loro silenzio come si gode, da infanti, cioè senza parole, dei primi abbagli del mondo e dei suoi linguaggi.

 

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C’è tutta una serie di forme comunicative a cui è indifferente la società delle comunicazioni di massa, coi suoi comizi urlati, il monopolio mediatico, la gara delle apparizioni in Tv, la battaglia per le foto su una copertina di una novella 2000, 3000, 4000, 5000 e chi più ne ha più ne mette.
Non c’è necessità di riandare, nostalgicamente, ai tratti caratteristici di quella “fonosfera” medievale di cui ha scritto il Bettini di recente, in un suo studio storico di antropologia sonora: il martellare dei fabbri, il cigolare dei carri, lo strepitare delle macchine dei mugnai, lo schioccare delle fruste per far di conto e, soprattutto, il verseggiare concertato di una Babele di animali, da cortile e non: latrati, ragli, nitriti, belati, grugniti, cinguettii, iubili, garriti, guaiti, miagolii, nitriti e così via. La nostra contemporaneità cittadina è ancora piena di risorse, per quanto bistrattate, o non pubblicizzate.
Dal bisbiglio al passaparola, dal mormorio all’accenno, dal sottovoce al monosillabato: così agiscono nell’ombra, all’oscuro delle nostre orecchie tarate sul fracasso, le forze dell’intellighenzia, le logge, le spie e le sette segrete; e così, forse, al loro stesso livello, potrebbe e dovrebbe situarsi la nostra voce, che perderà magari l’udibilità del primo acchito, ma guadagnerà in efficacia sul lungo periodo.  
(Sempre che ci si trovi d’accordo, naturalmente, sul fatto che bisogna corrodere dall’interno le strutture del sensazionalismo, che sono poi il veicolo ideale per allontanarsi dal contatto con le sensazioni e l’impalcatura più solida per un’adeguata lobotomizzazione.)

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Silenzioso è il tappeto su cui poggiano i suoni assumibili dalla musica per farne melodia o armonia; silenzioso è il tessuto di pause in cui risuonano le note trascorse o quelle che stanno per venire.
La pausa è un intervallo fatto di silenzio, ed è appunto nel silenzio di questo tra che le piene potenzialità del risuonato possono attualizzarsi nell’eco, quando il prima e il dopo della musica paiono slegarsi per un attimo, senza però interrompere la continuità magica di un piacere imbottito di memoria.
Come si potrebbe battere il ritmo, se non ci fosse il levare? Il silenzio è senza dubbio arte del levare, e forse non è un caso che “levare” suoni un po’ come “lavare”; infatti la precisione, che distingue l’arte dall’impostura, è anche quella che si dice essere la sua pulizia.
Il silenzio è infondo il limite a cui ogni musicista tende, come lo scrittore alla pagina bianca o il mimo, l’attore e il danzatore all’immobilità. Perché come sulla carta non segnata dalla penna si fa più netto il tratteggio superstite (si pensi a Mallarmé), e come sulla scena la stasi è lo sfondo su cui potentissimo s’accenna il gesto (si pensi alle immobilità dinamiche di un Decroux, anzi alle maschere della commedia dell’arte, le quali vibrano di una vita tanto più intensa in quanto fanno leva su una stasi che sa di morte), così the sound of silence (S & G) è il sottofondo su cui tanto più efficace spiccano una nota o la sua quasi assenza.

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Ma il silenzio non è una categoria esclusivamente acustica. Esiste un silenzio per l’orecchio e un silenzio per l’occhio, come quando il buio placa il frastuono dei colori e le pupille non riescono a sottrargli la luce. E poiché il buio è il luogo in cui la vista si riposa, e si stempera la tensione palpebrale, si capisce come il silenzio delle luci e dei colori sia fonte di nuova forza per l’organo che è preposto a percepirli.
Nel silenzio visivo delle montagne e dei boschi notturni, quello in cui la vista riesce a privare di sé le nebbioline sovraurbane che rifrangono i lampioni, si apre uno scenario fatto di piccoli punti gialli su fondale nero, quello che i bambini riempiono di blu scuro nei loro disegni, e a cui gli osservatori astronomici alludono, al buio, discretamente proiettando dei raggetti su una volta artefatta.
Esiste un inquinamento acustico come un inquinamento ottico (ma anche olfattivo, gustativo e tattile… sul silenzio dell’olfatto, ad esempio, ci sarebbe molto da scrivere, se si pensa Grenuille, protagonista inodore de Il profumo di Süskind); entrambi si avverano in un sovrappiù di vibrazioni, qui sonore lì visive, che non s’accordano, che non smettono di far mischiafrancesca.
Il rumore, al contrario del silenzio che potrebbe dirsi condizione igienica della percezione, è infatti condizione e risultato dell’inquinamento. Ne è la condizione, in quanto è nel crescere del rumore che, inquinati, smettiamo di percepire le sfumature dell’ambiente che s(’)offre ai nostri sensi. Ne è il risultato, perché è nell’inquinamento indifferente dell’intorno che all’orecchio s’invischia il rumore.
E’ un disturbo duraturo, ma a furia di disturbare smette infine di farlo. Diviene abitudine, linea di condotta del costume sensorio, standardizzazione delle varietà, annichilimento delle novità del mondo, appiattimento degli acumi ricettivi, ammaestramento delle singolarità residuali. In una parola: orecchiabilità.
S’attiva, ad esempio, il frigorifero, e con lui quella sottile linea sonora, uniforme e rauca, che emana. Se continuo a scrivere sul foglio, se la penna mi prende la mano ed il pensiero le va dietro incantandosi sui suoi tracciati, eccomi magicamente assuefatto a quel brusio: l’ho dimenticato. Ma se, a un certo punto, quel brusio si spegne, allora ricomincio a sentire il frigorifero, e mi ricordo che esiste. Nella consuetudine dell’assodato, del mille volte già sentito, si dà un nulla d’essere, che s’annulla soltanto nello scarto d’un passaggio brusco, dal risentito all’inaudito.
E’ ogni volta, per la percezione, un salto che avviene da un silenzio verso un suono, o da un suono verso un silenzio, o da un suono verso un suono a cavallo d’un silenzio, o nello spazio sonoro tra due silenzi che avevo scordato (nel senso strumentale in cui si scorda una chitarra).

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C’è una sorta di vergogna della parola, in una parte della drammaturgia contemporanea, che ne ha segnato irrimediabilmente la presenza/assenza del silenzio, sulla pagina e sulla scena occidentali. Lo ha fatto in due sensi, apparentemente contraddittori.
Da un lato c’è stata una rimozione del silenzio, come se l’uomo non potesse rendersi presente a se stesso se non attraverso un auto-ascolto quasi ossessivo, uno sproloquio autoreferenziale o, alla meglio, sconclusionato.
Dall’altro, questa prepotenza del discorso, che si è tradotta in numerosi testi drammatici e nella loro re-citazione (citazione reiterata), ha fatto della verbalità uno spauracchio, uno spaventapasseri, che sapesse scongiurare gli attacchi del silenzio, finendo per richiamare la nostra attenzione proprio su di esso.
L’apparenza di questa contraddizione è esemplificata dal teatro dell’assurdo, che attraverso un ossessivamente replicato, faceva emergere il silenzioso brusio della vita. Come in questo brano:

SIGNOR SMITH   Hum.
Silenzio.
SIGNORA SMITH   Hum, hum.
Silenzio.
SIGNORA MARTIN   Hum, Hum, hum.
Silenzio.
SIGNOR MARTIN   Hum, hum, hum, hum.
Silenzio.
SIGNORA MARTIN   Oh, certamente.
Silenzio.
SIGNOR MARTIN   Siamo tutti raffreddati.
Silenzio.
SIGNOR SMITH   Eppure non fa freddo.
Silenzio.
SIGNORA SMITH   Non ci sono correnti d'aria.
Silenzio.
SIGNOR MARTIN   Oh no, per fortuna!
Silenzio.
SIGNOR SMITH   Mah!...
Silenzio.
SIGNOR MARTIN   Ha delle preoccupazioni?
Silenzio.
SIGNORA SMITH   No. Gli girano...
Silenzio.
SIGNORA  MARTIN   Oh, alla sua età non dovrebbe più, signore.
Silenzio.
SIGNOR SMITH   Il cuore non ha età.
Silenzio.
SIGNOR MARTIN   Questo è vero.
Silenzio.
SIGNORA SMITH   Così si dice.
Silenzio.
SIGNORA MARTIN   Si dice anche il contrario.
Silenzio.
SIGNOR SMITH   La verità sta nel mezzo.
Silenzio.
SIGNOR MARTIN   Parole sante.
Silenzio.
(Eugène Jonesco, La cantatrice calva)

La didascalia opera qui come una forza preposta a richiamare il rimosso. Il verbale, pur modesto, è smascherato già come verboso. Il poco è già troppo. L’imbarazzo è raggelante e anche se “non ci sono correnti d’aria”, fa venire il raffreddore.
Se si contano i “silenzio” e i “lungo silenzio” disseminati attraverso le didascalie di un Aspettando Godot (da notare, tra l’altro: l’aspettare predispone al tacere), ma soprattutto se se ne osserva la posizione nella vita dei personaggi, il rapporto con le azioni, con i gesti e con le immobilità, ci si accorge che tutto parte dal silenzio e vi ritorna. Il grande atteso, che non arriva mai, non dà segni sensibili di sé: se ne sta chissà dove, forse indifferente. In questo stallo, per sante che siano, le parole abortiscono, infine, in silenzio.

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Il silenzio degno di elogio dovrebbe fondarsi su una cultura e su un consenso diffusi. Non c’è nulla di peggio del silenzio forzato, imposto. Della riduzione al silenzio, che conosce tanto bene la nostra storia.
Privazione di parola è imposizione di forza e coercizione, atto politico tra i più gravi, dalle sue prime e più acerbe manifestazioni (rompere il dialogo, fare orecchie da marcante, parlare più forte degli altri, interromperli, richiamarli al silenzio…) alle ultime e più mature (censurare con veline – genitori e nonni ricordano che le veline, prima di strisciare scoperte su Canale 5, sono state strumento violento di copertura fascista –, imbavagliare, sopprimere fisicamente l’altro, farlo desaparecido…).
Il silenzio scelto, invece, deciso, è l’ambiente naturale di ogni autentico dialogo, perché lo è di ogni autentico ascolto. Nel silenzio che volontariamente e consapevolmente assumo – a patto che non sia omertoso – mi dispongo ad accogliere le enunciazioni altrui, a coglierne la grana della voce, come ebbe a dire Barthes; e viceversa, nell’ascolto ho l’energia e la concentrazione adatte per mettere a tacere me stesso, che troppo spesso parlo troppo, e con voce sgranata. Nell’ascolto valorizzo le doti dell’altro, le sue virtù ma anche i suoi vizi, perché è quando si sente autenticamente ascoltato che l’altro mi si dà (nel suo aspetto migliore e peggiore). Ma l’ascolto è pure la dimensione in cui si sente più nudo, più fragile, trasparente e vulnerabile.
Nell’ascolto sono obbligato a mettere l’altro a suo agio, perché la ritrazione è alle porte, vicinissima è l’inibizione e, nell’aria, la rottura del contatto. L’ascolto m’impegna e impegna l’altro a salvaguardare la comunicazione (che, letteralmente, è messa in comune). La comunicazione che non frutta dall’impegno reciproco è turistica, di facciata.
Ascolto l’altro veramente se veramente mi taccio a me stesso, se cioè riesco ad eclissarmi per un po’ dietro un buio silenzioso dove per me non esiste che l’altro. Perciò l’ascolto ed il silenzio, che dovrebbero essere frutti maturi di una matura cultura democratica, sono nello stesso tempo gli unici semi che possono farla germogliare; paradossale circolo in cui la causa e l’effetto si scambiano i ruoli a seconda della prospettiva. Ciò che occorre fare è impegnarsi non tanto a risolvere una petitio principii logicamente illecita, quanto ad accogliere lo stato paradossale dei suoi termini per trasformare il circolo, da apparentemente vizioso, in sostanzialmente virtuoso.
Contribuisco col mio ascolto silenzioso, a costruire una cultura dell’ascolto silenzioso in cui ogni voce è polifonica, e ricca di armonici. Una cultura che mette a tacere, per un attimo o per di più, quel sovreccitante, tracotante ed accecante protagonista di ogni solipsistico, finto dialogo: il mio ego.
L’ascolto la fa finita con le frasi che cominciano in Io, pronome-collo-ritto (Gadda). E’ un tacere che omaggia il Tu, un inchinarsi alla seconda, regal persona.
Il silenzio dell’ascolto, d’altra parte, mi conviene, perché nella sua più aperta espressione di sé, l’altro mi permette di rubargli ciò che di meglio ha da offrirmi, oltre che di scartare il suo peggio, senza che mi sia già appartenuto. Nell’ascolto ho la concentrazione sufficientemente slegata da me per scremare l’altro e carpirgli i suoi segreti.
Per quanto poi l’udito sia stato posto al centro dalla tradizione ebraico-cristiana, non occorre per forza porsi dal punto di vista di un altruismo di Calcutta (ma in fondo ogni altruismo è un egoismo mascherato) per fare del bene all’altro, più o meno prossimo che sia. Infatti, quel bene mi torna immediatamente utile, mi consente di arricchirmi mentre sto lì a non far niente (semplicemente ascolto), e me lo potrò rispendere altrove.
Ma questo arricchimento di sé non avviene a spese dell’altro, quindi non si tratta di un silenzioso consumismo: l’altro infatti può ascoltarmi mentre s’esprime, se sarà in grado, in un certo senso, di tacere mentre mi parla. Il mio dialogo con lui e il suo dialogo con me, se avverranno nel silenzio reciproco, saranno i luoghi dove arricchirci entrambi insieme e nello stesso tempo, io rubando silenziosamente a lui senza sottrargli nulla, e lui a me.

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Nel silenzio mi riesce di ascoltare la fiamma del ceppo nel camino, il crepitio dei carboni nascosti sotto il manto di cenere. Al movimento osservato nel fuoco, o all’intensificarsi del suo rossobrace, posso coordinare la vibrazione sonora come d’un vento lieve, o lo scalpiccio simile a un gocciolare asciutto.
Nel silenzio ticchettìano gli ingranaggi secchi dell’orologio da cui tento di svincolare il mio respiro; e m’accorgo pur io di crepitare e fremere, mentre il sangue mi lambisce le pareti interne delle vene. Ogni pulsazione del cuore, nel silenzio che avallo socchiudendo le palpebre, s’ingigantisce a vista d’occhio, anzi: a udito d’orecchio.
Se muovo un dito del piede o della mano, e se attorno a me c’è sufficiente silenzio, riesco ad ascoltare il movimento con una specie di orecchio interno, che fa piazza pulita del rumore residuo del mondo. Così, in un semplice atto di concentrazione, riacquisto quella insolita intimità con me stesso che mi fa sentire di appartenergli, al mondo, come al ventre di mia madre.

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“Punto. Punto e virgola. Punto esclamativo! Abondandis ad bondandum!” (Totò)

Sulla punteggiatura non si spenderanno mai sufficienti parole di lode; ogni lettura, ogni scrittura, ogni scrittura-lettura (perché le parole appena scritte sono le ultime a venir lette: lo scrittore è sempre il primo lettore), e ogni lettura-scrittura (perché le parole altrui che leggo sono quelle che avrei potuto scrivere: il lettore è sempre uno scrittore al rovescio), vivono ap-punto grazie a quelle pause, e a quelle pause devono rendere grazie.
Va bene che “prima della e congiunzione la virgola non ci va”; ma perché non preferire alle ragioni della grammatica dura e pura le svirgolature di un dire sospeso? Il sospetto, infatti, è che se non si sospende, il dire, nel suo procedere, va a finire che va a finire.
Bisogna elogiare innanzitutto le licenze poetiche del livello interpuntivo, poiché con esse i polmoni costringono a nuovi training un pensiero tendente alla fossilizzazione precoce. Della quale è segno evidente l’inflazione dei puntini sospensivi negli sms pseudo-romantici proiettati in sovrimpressione nelle trasmissionacce della TV-stereotipo.
Che si tratti d’una mano pennata tendenzialmente inattuale, o di una tastiera sempre più polpastrellata, è precisamente l’interpunzione la loro oasi ristoratrice. Dalle soste del movimento manuale, verranno poi suggeriti, alla voce e al respiro, anticipi e ritardi.
Senza voler mancare di rispetto allo straflusso joyciano in cui tutto c’è tranne le virgole, c’è un’intera logica dell’indugio silenzioso da riconquistare. Quella che non conoscono i corsi di lettura veloce, di cui si vedono manifesti attaccati ai pali della luce e alle cabine telefoniche. Tutto d’un fiato non solo si legge male(,) e si capisce poco, ma si diventa asmatici.
Senza nemmeno che sia necessario, poi, considerare quella significativa omonimia che fa coesistere sotto lo stesso “letto” il participio passato del verbo leggere e il giaciglio in cui, silenziosamente e comodamente, mi riconcilio col sonno.
(Dopotutto anche quella di Joyce non può essere una lettura veloce, pena il capirci ancor meno di coloro che non l’hanno letto.)
Di tutti i silenzi punteggiati, nei quali è dolce il naufragare alle intonazioni, il più estremo e degno di lode è l’accapo. Estremo più degli altri, doppiamente anzi, perché sta all’estremità destra di un rigo e alla sinistra del successivo; perché impone una pausa al pensiero, all’occhio e/o alla mano, laddove il filo del discorso pare per un attimo raggomitolarsi, ma poi nuovamente, daccapo, si dipana in uno scivoloso inchiostrare.
Specificazione necessaria dell’elogio al silenzio, di conseguenza, è l’elogio dell’enjambement. Tropo eccessivamente elegante per non passarlo in sordina, discretamente posto nello spazio di quel ritorno che impone allo sguardo, è lui il responsabile delle rotture di tanti discorsi sedicenti (e perciò seducenti) indisturbati, dileguandoli in un finito
intrattenimento.
(Il silenzio, infatti, non è solo, hollywoodianamente, degli innocenti: talvolta è esso stesso colpevole e crudele, un silenzio assenzio, come sanno i bambini che vi sono costretti a metà lezione, dietro la lavagna, perché hanno parlato troppo, o quando non dovevano.)
Iniettore del principio-moviola nel bel mezzo dei sintagmi più svelti e coesi, l’enjambement è come una curva a U o una temporanea inversione di marcia, che induce l’indugio al guidatore spericolato, incoraggiandolo misuratamente, subito dopo, a riprendere la corsa attraverso i più o meno sillogistici percorsi dell’elocutio ciarlona.
D’altronde anche la retorica classica ha sempre riconosciuto un posto di rilievo al silenzio, riconoscendolo come figura o come tratto caratteristico di più figure, in ogni caso come componente significativa e strategica dell’eloquio, in molte delle sue forme.
Ne va infondo dell’attenzione stessa dell’ascoltante. In continua assenza di silenzio non si capirebbe nulla e non si farebbe attenzione più a nulla (ma il condizionale di questi verbi, se ci trasferiamo dalla ricognizione retorica alla prospettiva sociologica sul mondo attuale, può a buon diritto trasformarsi in indicativo).
Non si potrebbe scivolare bene a oltranza, d’altronde: se ne perderebbe il gusto. Così, l’indugiare forzato dall’enjambement, che pare quasi un frenare brusco al primo sussulto, infondo è solo il presupposto necessario all’adrenalina d’ogni ripresa. (Andare a cento all’ora di moto rettilineo uniforme, è infatti meno emozionante che accelerare dai cinque ai trenta in un breve tempo.) In quel fra che è fra-goroso e fra-stornante nella sua pausità eccessiva, ne va precisamente d’un inasprirsi dell’attesa, d’un infervorarsi della curiosità e d’un rincarare la rincorsa, che ricordano molto da vicino il movimento del rifiuto (otkaz) eretto da alcuni grandi maestri del Novecento teatrale (Mejerchol’d, Ejzenštejn, Barba) a principio del movimento espressivo. Per andare su, il su si “rifiuta”: si comincia da giù. Così è anche per l’enjambement: si prosegue in avanti periodicamente, e silenziosamente, tornando indietro.
Quando poi, come in Majakovskij, il tropo è troppo (senza tuttavia stroppiare), prolungandosi a dismisura nei silenzi bianchi del verso, inibendo le fonazioni eventualmente preconcette, il lettore non prende più la rincorsa, ma salta direttamente da un punto all’altro della pagina con un’agilità da triplo salto olimpionico.
Punteggiare è dunque puntellare il letto-scritto di tutte le occasioni necessarie ad un buon allenamento psicofisico.

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Il silenzio è l’ospite indiscreto che la conversazione convenzionale non invita ai suoi simposi. Codificata dalla buona società quasi alla maniera di una seconda pelle per i suoi componenti, un loro naturale abito sonoro, il contegno acustico da galateo fa sì che ciascuno intervenga a suo turno, cioè quando gli altri glielo concedono, anzi meglio quando gli altri non glielo concedono, ed è costretto ad accaparrarselo a colpi di voce.
Ciò che la conversazione ignora è che il senso di alcune cose (se non di tutte), nonché quello di alcune parole (se non di tutte), si coglie meglio a furia di non parlarne. Prima di aprir bocca o far rumore, bisognerebbe sondare attentamente le ragioni e le necessità del proferimento-rumoreggiamento.
Non è anomalo il caso del parlarsi sopra, quel parlare contemporaneamente che è proprio negazione dello stare insieme: un monologarsi addosso e addosso all’altro. Uno stare insieme insulare. Un irriducibile parallelismo anti-lobačevskijano, per cui le rette procedono la loro corsa all’infinito senza mai tangersi.
Il silenzio, in questo quadro puro della società dabbene, in questo spazio astratto alla euclidea, è un serissimo motivo di imbarazzo; perché il canone ininterrotto e indisturbato della conversazione fluida che pacifica le coscienze (si dice non a caso che una coscienza è retta) nel silenzio viene infranto, ingolfato. E se la conversazione (di cui Bergson notava la curiosa assonanza con conservazione) è una schermaglia di battute, il silenzio è un rivoluzionario che sottrae lo schermo alle lingue coinvolte, le disarma. Per questo, ai silenziosi intervalli, beffardi come i ghigni di chi deride quanto ha scrutato dietro la maschera, occorre far guerra. Come? Sforzandosi, in ogni modo e sempre, di colmarli. Parole, parole, parole, Fiumi di parole, come recitavano alcune famose canzoni.
Ecco un motivo del parlarsi sopra, dell’accavallarsi pavido delle voci: il silenzio è il nemico che occorre abbattere, sotterrare sotto metri di rumori fonati, pena il sentirsi irrimediabilmente, ridicolmente, animalmente, neonatamente nudi. Nudi di parole, come quei selvaggi spogli di cui i primi missionari occidentali portavano notizia, esseri quasi privi di libertà, volontà e ragione.
Il silenzio è un avversario astuto che sa come raggiungere i suoi obiettivi. Suo gustoso intendimento è smascherare, sua ambita preda è far sudare freddo gelido, sua ultima mira è forzare i conversanti al contatto ruvido.
Quando il silenzio trionfa inaccolto e malvoluto, ecco verificarsi scene come quella tipica dell’ascensore: chiuso con l’altro nella scatola angusta, proprio non riesco, nonostante l’impegno, a guardarlo negli occhi; lo sguardo s’è fatto troppo pesante, cado in un’immobilità da freezer in cui mi pare che il sangue si sia raggelato; immobilizzati nello stanzino trainato dalle funi, quello che i tedeschi chiamano Fahrstuhl (sedia-che-viaggia), per finta o sul serio lanciamo i nostri pensieri verso territori lontani e misteriosi, forse addirittura interessanti. Nei palazzi più moderni, quelli di vetro, che si vede da dentro a fuori ma non viceversa, che stavolta l’ascensore gratta il cielo, se riesco spedisco lo sguardo là fuori, sui panni stesi della signora di fronte. (Lei però non sospetta: è l’amaro destino dello sguardo, mi dico. Per non ferire di qua, colpisce di là.) In ogni caso trionfa, nella scatola silente, il desiderio del piano fatidico, dove uno dei due, peccato, sarà arrivato.

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C’è un’estetica del silenzio così come c’è un’estetica del rumore. La bellezza del rumore, ascoltando ancora l’Eco (Umberto), è che più fa rumore meno si fa caso a quello che dice. Il gran calderone del rumore è bello perché inclusivo di tutto. Non ha bisogno di selezionare messaggi interessanti perché tutti fanno rumore. Talvolta rumore è ridondanza eccessiva: la pubblicità, ad esempio,  internet, per certi versi, o anche giornali di 66 pagine; è un fascino sedante, come sappiamo noi giovani, figli dell’i-pod.
Dall’altra parte, c’è la bellezza del silenzio, che consiste in una più raffinata ed impegnativa cernita di ciò che ci può e che non ci può stare, non nel calderone indistinto del qualsivoglia, ma nell’accordo sondato del qualcosina (categoria che aspira al rango dell’alta riflessione filosofica).
Da questo punto di vista, il bello del rumore è un bello più qualsiasi (se del qualsiasi si dà gradienza) rispetto a quello del silenzio, che invece ha la puzza sotto il naso. Ma bisogna pur dare a Cesare quel che è suo, ed proclamare silenziosamente che questo snobismo tacito ha poco a che fare con un aristocraticismo del soldo o del titolo, perché invece riguarda da vicino un certo gusto d’elezione, inaccessibile ai più non per statuto, bensì per stato di cose. In altre parole, è perché la nostra società baccana e grida, che il silenzio oggi è per pochi, mentre potrebbe essere per molti, bello, già domani.
Basta pensare alla magia di una sala cinematografica che si svuota dopo un film e lascia piano piano sedimentare nell’anonimato tutti gli umori che ciascuno ha prodotto durante la visione, come una polvere invisibile sulle poltrone vuote. O a quel momento di attesa silenziosa prima che entri l’orchestra in teatro per accordare i suoi strumenti, in quell’apparente confusione di note che invece è già musica. O allo sprofondare con lo sguardo in un paesaggio dove si sente solo volare una mosca.
L’impegno che esige la bellezza sorda solo apparentemente è maggiore di quello esatto dalla bellezza ciarlona, poiché per fare molto rumore (per nulla) ci vuole non per nulla molta energia, e se oggi non ce ne accorgiamo è perché abbiamo automatizzato il dispendio. Così, perdiamo di vista l’enorme profusione energetica che comporta un pomeriggio passato ad inebriarsi dell’Italia sul due o a passeggiare nel roboare del traffico.
Non ci solletica il sospetto che accendere appena svegli la Tv o addormentarci senza spegnerla, non sia solo un tenersi compagnia che ha dell’ossessivo, ma anche un sottrarsi da soli le forze, uno scandire il proprio bios al  ritmo mediatico che già è parte di un sistema altamente produttivo, in cui chi si ferma è dannato e l’unica pausa concessa (opportuna anzi) è quella dedicata allo shopping, anche meglio se abbinato col gossip.
In definitiva, l’estetica del silenzio già richiama la sua etica (e mi accorgo volentieri che la seconda parola è contenuta nella prima).

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Per il discorso, il silenzio è come l’ombra per il corpo.
Non è che non brilli di luce propria, semmai è che brilla proprio d’un buio che al corpo del discorso manca di per sé.
I teorici dell’ombra – Jean Paul, Nietzsche, Pirandello… – hanno già ampiamente illuminato le virtù di questo corpo buio che è dotato d’una piena autonomia dialettica. L’ombra non è soltanto la proiezione della materia su un’altra materia nascosta alla luce; è invece (in)fido compagno di viaggio per il viandante che decide di dialogarci e che, da quel confronto, viene illuminato/rabbuiato.
Altrettanto fa il suono del discorso che col suo silenzio decide di viandare (cioè, in un certo senso, di andare via), di volta in volta negandolo e affermandolo, conoscendolo o misconoscendolo, parlandone o tacendolo, parlandogli o tacendogli.
Il silenzio è esattamente rifugio per quel discorso, tana mortuaria, consolazione dal chiasso assordante in cui tanto spesso e volentieri la vita lo invischia, perché se ne infischia.

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“Perché vedi, o Fedro, la scrittura è una strana condizione, simile veramente a quella della pittura. I prodotti cioè della scrittura ci stanno davanti come la pittura. Ma se li interroghi stanno in un maestoso silenzio”.
Per il Socrate che Platone dipinge nel Fedro, lo scritto e il dipinto sono muti. Così è anche per gran parte della nostra tradizione filosofica e culturale: la coscienza si fa presente a se stessa nella propria voce viva, la scrittura ne è solo una traccia morta, una nota poco degna di nota.
Il Novecento filosofico ha rovesciato questo rapporto tra voce-vita (da cui la ben nota viva voce), da un lato, e morte-scrittura dall’altro. Dopo Merleau-Ponty, che aveva scritto della pittura come arte muta e caso esemplare di quelle voci del silenzio (non dal ma del silenzio, come nei film omonimi di Pabst e Lessac, o nella canzone di Mogol-Limiti-Isola) che in verità riguardano la struttura stessa di ogni linguaggio; dopo Merleau-Ponty, dunque, è venuto Derrida (filosofo dal nome paradossale se si pensa che a pronunciarlo in romanesco assomiglia a de grida’).
Derrida ha ripensato la scrittura materiale come condizione di possibilità di qualsiasi immateriale coscienza, allineandosi tra l’altro a chi svolgesse la seguente banale considerazione: la voce, quella che si sarebbe voluta espressione pura dello spirito e nota distintiva per l’uomo rispetto all’animale, è fatta di vibrazioni acustiche studiabili dalla fisica, esattamente come quel corpo che all’obitorio ne sarà poi privo.
La scrittura è, per me che scrivo, non tanto un terreno d’applicazione di un mio Io temporaneamente muto che ci trasferisce delle idee ben confezionate, quanto una dimensione in cui il mio Io si dissolve in rapporto alle idee della scrittura stessa e ai suoi lettori, che immagino attraverso di essa. E’ un po’ la pagina a scrivere me, mentre provo a governarla scrivendoci su, nel senso banale che le idee mi vengono scrivendo, cioè mi vengono dalla scrittura, nella scrittura.
La scrittura è silenziosa non perché le manchi momentaneamente la voce, ma perché è tutt’altro dalla voce stessa. La scrittura alfabetica, che si limita a trascrivere la voce, è un esempio malvagio in questo senso; ma basterà pensare all’ideogramma cinese, o a quelli cosparsi sulla tastiera del computer, per capire che la scrittura fa cose che la voce talvolta non può proprio fare.
Questo foglio è per me lo specchio che mi mostra come non mi conoscevo, nonché la vetrina dalla quale gli altri mi vedranno diverso e dalla quale, diversi, vedrò gli altri da me. E’ una vetrina sul tipo di quelle che lasciano intravedere un tentativo di parola e che però la ovattano, come a volume spento.
La scrittura è una specie di comunione laica che il mio corpo vive con il foglio, un (ir)religioso silenzio. Una sorta di amplesso, in altre parole; di quelli intimi, leggeri e lievemente carezzevoli, in cui si respira nell’orecchio dell’altro e il suo respiro nel tuo ti pare un vento che ti tiene in balìa, ma infondo è solo un sussurro.

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S’è detto del silenzio della pausa musicale, di quello temuto dalla conversazione, ma non del silenzio assoluto (o pseudo tale), quello in cui nulla si sente (o così pare), nel senso che si sente il nulla (o così sembra).
Capita a volte nelle casette o nei rifugi di montagna, dove troppo lontani sono i lupi che ululano forte, e troppo deboli i tarli che raschiano lì vicino, per poterne avvertire la presenza consolatoria. In quei rari e brevi momenti avvertiamo l’angoscia del silenzio, che non è paura, perché in verità non sappiamo cosa temere, dunque non temiamo nulla, nel senso che temiamo il nulla.
Pare che il tempo non scorra, perché il tempo è misura o intuizione di un movimento non solo visibile, ma anche udibile. Capita allora di sentirsi perduti, precipitati in un vuoto. Il silenzio è questo vuoto che si spalanca davanti e di sotto, di fianco e di dietro, di fuori e di dentro, questo vuoto feroce (come il buio di Pippo Delbono) che ci scava nelle ossa e ci appassisce: come d’autunno, sugli alberi, le foglie.
Ci accade perché siamo posti di fronte a noi stessi, in stretto contatto con quello che non sapevamo di essere perché non l’avevamo ancora sentito, o poche altre volte, comunque dimenticate. E così, se si sente il peso di quel silenzio (paradossalmente, sotto vuoto si pesa di più) in verità è il peso del contatto con noi stessi che ci riesce difficile sostenere.
Ci indaffariamo a conversare, ci industriamo a distrarci, ci occupiamo a produrre, nella nostra quotidianità, al punto che ci pare gravissimo, talvolta, il peso di ciò che sentiamo esserci. Ma se nel silenzio ci disoccupiamo, assumendoci volentieri la responsabilità di essere lì in quel momento, qui ed ora, anche in totale solitudine, potremo forse cominciare a sentire più leve la gravità di prima. Se ci riuscissimo, potremmo anche rileggere questo elogio del silenzio come un malcelato elogio della disoccupazione.
Certo, il pensiero di una solitudine senz’altro è abissale è forse insostenibile, come la kunderiana leggerezza dell’essere; un pensiero che pensato fino in fondo risulterebbe impietoso come se ci inchiodasse alla croce dell’eternità. Eppure c’è una gioia possibile dell’assenza, così come ci sono un gusto dell’abbandono e una fascinazione del vuoto, simili ai silenzi interiori di cui (non) parlano i maestri spirituali dell’Oriente, che potrebbero forse restituirci a noi stessi.

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Di ciò di cui non si può parlare si deve tacere, abbiamo detto con Wittgenstein.
D’altronde conviene: nella bocca chiusa, come scrisse Cervantes, entrano meno mosche. Ancorché troppa acqua in bocca rischi di affogarci, da non sottovalutare è anche il pericolo di inciampare su una lingua troppo lunga, che è poi quello di muoversi e ciarlare per paura del silenzio; al limite, semplicemente per coprirne il rimbombo, si finisce per dare ricevimenti e festini, come la signora Dalloway di Virginia Woolf.
C’è invece da scoprire tutto un senso del silenzio, un senso nel silenzio, perché quella che si potrebbe chiamare una semiotica del senso tacito ha profondamente a che fare con il senso della nostra vita (se ce n’è uno).
Questa dimensione significativa sta in tutti gli interstizi del parlato e del rumoreggiato, quelli in cui le parole s’arrestano momentaneamente per dar spazio a uno sguardo, ad esempio, o nello scarto cruciale tra detto e non detto, che può costituire fonte di minaccia, di ordine, di rimprovero, di approvazione, di ironia…  
Quella del silenzio, è un’eloquenza che appare particolarmente chiara in alcune circostanze d’eccezione. Vedi le volte in cui, per parlare di qualcuno che la morte sembra aver ridotto al silenzio, le parole sono sempre troppe o troppo poche, ma in ogni caso troppo rumorose, come ha scritto un amico, di un amico prematuramente scomparso.
Vedi lo sconcerto e la mortificazione che segue, tra gli allievi, a un rimprovero della maestra, laddove la lingua è la prima ad intorpidirsi per una bacchettata sulle mani.
Vedi poi lo sgomento in cui termina un trauma, dove all’urlo seguono lunghi periodi di astinenza orale (o lo sgomento del famoso urlo muto di Madre Courage nella regia di Brecht, dove la tensione e il senso erano assai più prorompenti che non in un normale abbinamento del corpo col grido; non diversamente dal cavallo straziato dalle bombe nella Guernica di Picasso, di cui vediamo la voce tra le fauci spalancate).
Vedi il “minuto di silenzio”, che accomuna le labbra in cadenzata serratura, quando non è il caso di riaprirle, quando non ci sono parole.
Vedi le sequenze di certi film contemporanei, che dei loro bui o dei loro mutismi, lunghi a volte anche decine di secondi, fanno la fonte del loro senso.
Vedi ancora il “silenzio stampa” scelto, deliberato, come quello dei politici o degli allenatori, più eloquente talvolta di tante apparizioni.
Vedi il silenzio-assenso, in cui la famosa facoltà di non rispondere viene valorizzata come affermazione tacita di ciò che s’è chiesto.
Vedi poi i silenziosi raduni, i festivals e le feste (i “silentparites”) che in tutto il mondo hanno costituito, negli ultimi tempi, il rimedio al disturbo della quiete pubblica e insieme l’occasione, per tanti più o meno giovani, di riappropriarsi di una dimensione d’ecologia sonora perduta dalla comunità, e possibile quasi sempre solo nel privato di una stanza o di un’avventura into the wild.
Vedi infine quella magia prodotta da John Cage, la sua famosa opera 4’33”, eseguibile da qualsiasi strumentista perché consistente nel non suonare lo strumento: un’esperienza intensissima per gli interpreti e per il pubblico, composta dal loro stesso silenzio che in quel momento è tutto: l’oggetto dell’ascolto, la materia sonora, lo zero assoluto del frastuono.

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Avviandoci alla fine, dopo esser stato il grembo materno delle sonorità possibili, il silenzio è anche giaciglio di quelle in via di estinzione. Sul nascere e sul morire del suono udibile, è il suono non udibile a sopravanzare, tanto forte, talvolta, da farsi assordante.
Il silenzio stesso, infatti, è musica; tacita melodia sotto la luce solare, come ha scritto Saramago: i suoi movimenti i suoi ritmi i suoi spazi sono l’occasione preziosa per raffinarne l’ascolto.
Il silenzio che viene dopo Mozart, è ancora Mozart.

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Dopo il principio e lo sviluppo, in questo testuccio come nel mondo, perché ogni testo è un micro-mondo, deve venire la fine.
Nel mio caso si tratta di mettere il punto a un paradosso: non si può cogliere il silenzio parlandone, perché quando lo nomini già non c’è più, come dice il proverbio citato da Benigni ne La vita è bella.
In ogni caso, anche qui come altrove, pur dopo pagine paradossali per necessità, questo matrimonio di scritto e non scritto s’ha da fare. Concludo al principio, e non potrei fare altrimenti dal momento che ogni parola, detta o scritta, nasce si sviluppa e muore in un unico, anche se variegatissimo, orizzonte di possibilità: quello che la lega, sulla sponda apparentemente contraria, al suo silenzio.


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Piccola nota bibliografica e sitografica



Il silenzio, che negli ultimi anni è stato riscoperto non da pochi, è stato tematizzato all’interno di differenti campi di studio.
Per un approccio generico al problema cfr. F. Biamonti, Il silenzio, Einaudi, Torino 2003; M. Fumaroli, La scuola del silenzio, Adelphi, Milano 1995.
Per una ricca e interdisciplinare introduzione, cfr. N. Polla-Mattiot (a cura di), Riscoprire il silenzio. Arte, musica, poesia, natura fra ascolto e comunicazione, Baldini Castoldi Dalai editore, Milano 2004, che contiene un’ampia bibliografia divisa per approcci. Per una panoramica storico-filosofica cfr. M. Baldini, Elogio del silenzio e della parola. I filosofi, i mistici e i poeti, Rubbettino, Cosenza 2005.
Un approccio rettamente filosofico (fenomenologico) è quello di P. A. Rovatti, L’esercizio del silenzio, Cortina, Milano 1992. L’esergo di Wittgenstein di questo scritto è tratto dal Trattato logico-filosofico, Einaudi, Torino 1968.
La relazione del silenzio con l’ascolto è centrale in  P. Valesio, Ascoltare il silenzio, Il Mulino, Bologna 1986.
Il silenzio come dimensione percettiva centrale nella Lingua dei segni è tematizzato da Oliver Sacks, Vedere Voci, Adelphi, Milano, 1992. Per un approccio linguistico a questa lingua, cfr. V. Volterra (a cura di), La lingua dei segni italiana. La comunicazione visivo-gestuale dei sordi, Bologna, Il Mulino, 2004, che contiene anche una ricca bibliografia con alcuni titoli dedicati al silenzio.
Il contributo indiretto di M. Bettini ad una storia del silenzio è Id., Voci. Antropologia sonora del mondo antico, Einaudi, Torino, 2008.
Per un approccio psicologico e psicanalitico, cfr. AA. VV., Le ragioni del silenzio, Bloom, Padova 1983 e il numero 43 del «Giornale storico di psicologia dinamica», 1998, che tra i vari interventi contiene anche il saggio di R. Biserni, Il silenzio a teatro; G. Fiorentino, Il valore del silenzio, Meltemi, Roma 2003.
Per il silenzio a teatro, appunto, e in particolare nel teatro dell’assurdo, i passi citati nel testo sono tratti da S. Beckett, Aspettando Godot, Einaudi, Torino e E. Ionesco, La cantatrice calva, Einaudi, Torino 1971. Per approfondimenti sulle immobilità dinamiche di E. Decroux cfr. Id. Parole sul mimo, Dino Audino, Roma 2003; sull’urlo muto di Madre Courage di Brecht cfr. E. Barba e Nicola Savarese, L’arte segreta dell’attore, un dizionario di antropologia teatrale, Milano, Ubulibri, 2005. Altri studi su teatri silenziosi sono N. Polla-Mattiot, Teatro del silenzio: metafora e realtà in Harold Pinter, in Sentieri della mente, (a cura di) M. Mancia e L. Longhin, Bollati Boringhieri, Torino 2001 e A. Rynker, L’envers du théatre. Drammaturgie du silence de l’age classique à Maeterlink, J. Corti, Paris 1996.
Per approfondimenti sul silenzio in musica cfr. T. Clifton, The Poetics of musical silence, in «The Musical Quarterly», LXII/2, 1976 e C. Migliaccio, Quasi niente. Piùchepiùchepianissimo, in N. Polla-Mattiot, Riscoprire il silenzio…, cit. Cfr. anche  J. Cage, Il silenzio, (a cura di) R. Pedrio, Feltrinelli, Milano 1971 e E. Dimas de Melo Pimenta, John Cage. Il silenzio della musica, Silvana editoriale, Cinisello Balsamo 2003.
Un approccio estetologico generale al silenzio è abbozzato da M. Merleau-Ponty, Il linguaggio indiretto e le voci del silenzio, in Id., Segni, Il Saggiatore, Milano 1967S. Sontag, L’estetica del silenzio, in Id., Interpretazioni tendenziose, Einaudi, Torino 1975. Spunti interessanti sul ruolo del silenzio nella poesia sono anche nelle opere di G. Bachelard sugli elementi, ad es. Psicanalisi dell’aria, edizioni Red!, Milano 2007.
Un approccio comunicativo, nel contesto del quale si pongono quelle che ho chiamato semiotica e retorica del silenzio, è invece sviluppato da AA. VV., La retorica del silenzio, Milella, Lecce 1991; M. Mizzau, Il silenzio come mezzo di comunicazione, in «Psicologia contemporanea», LXVII, 1981; M. Picard, Il mondo del silenzio, edizioni di comunità, Milano, 1951; D. Tannen e M. Saville Troike (a cura di), Perspectives on silence, Ablex Publishing Co. Norwood, 1985; U. Volli, Apologia del silenzio imperfetto, Feltrinelli, Milano 1991.
In questo quadro si inserisce il richiamo a Umberto Eco reiterato nel testo; più precisamente mi sono riferito ad alcuni accenni e ad una proposta di studio semiotico che il filosofo ha prodotto durante il convegno “Politica 2.0” dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici tenutosi a Bologna nell’Ottobre del 2009.
Per il ruolo del silenzio nella scrittura cfr. invece E. Banfi (a cura di), Pause, interruzioni, silenzi. Un percorso interdisciplinare, Editrice università degli studi di Trento, Trento 1999 e F. Rella, Il silenzio e le parole, Feltrinelli, Milano 1984. Ma vedi anche i paragrafi dedicati da Roland Barthes a “La scrittura e il silenzio” e “Il silenzio” rispettivamente in Il grado zero della scrittura, Torino, Einaudi, 1982 e in Sade, Fourier, Loyola, Torino, Einaudi, 1981. Per una filosofia della scrittura i riferimenti fondamentali sono il Fedro di Platone ed il pensiero di Jaques Derrida, di cui cfr. almeno La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino 1971.
Un approccio religioso al silenzio è quello di M. Baldini e S. Zucal (a cura di), Le forme del silenzio e della parola, Morcelliana, Brescia 1989; Idd., Il silenzio e la parola da Eckart a Jabès, Morcelliana, Brescia 1989; A. Neher, L’esilio e la parola. Dal silenzio biblico al silenzio di Auschwitz, Marietti, Casale Monferrato 1983. In questo contesto si inquadra un Elogio del silenzio precedente il qui presente, quello di M. Smedt, Paoline, Roma 1992.
Fonti e riferimenti interessanti sul web si rintracciano innanzi tutto a partire dalla pagina di wikipedia dedicata al silenzio: http://it.wikipedia.org/wiki/Silenzio.
Un sito utile è http://engrammi.blogspot.com/2009/10/storia-del-silenzio-in-arte.html che linka tra l’altro su un video di un concerto in cui si esegue 4’ 33’’ di Cage.
Un breve Elogio del silenzio, di impostazione un po’ olistica, si legge in http://dweb.repubblica.it/dettaglio/elogio-del-silenzio/20703.
Infine, il sito www.quietparty.com offre una panoramica e un programma sempre aggiornato sui “silent parties”, cui il lettore potrebbe voler partecipare.

 
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