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///Una rubrica per ripensare la relazione tra semiotica e teatro oggi///
a cura di Luca Di Tommaso

“Ottiche parziali”.
Intervista a Valentina Valentini su semiotica e teatro oggi.
(1)
di Luca Di Tommaso
[PDF]


Valentina Valentini insegna arti performative e arti elettroniche e digitali presso il dipartimento di Storia dell’Arte e Spettacolo dell'Università "La Sapienza" di Roma. Ha dedicato vari studi storici e teorici al teatro del Novecento, tra cui ricordiamo La teoria della performance (1985), un ampio studio dedicato alla ricostruzione delle prime messe in scena di Gabriele D'Annunzio, Il poema visibile (1993). Le sue più recenti pubblicazioni riguardano uno studio su attore, arti visive e nuovi media in rapporto alla scena teatrale internazionale Mondi, corpi, materie. Teatri del secondo Novecento (2007). Tra i suoi contributi più semiotici un approfondito studio in due volumi alle interferenze fra teatro e nuovi media, dal titolo: Teatro in immagine (1987). I. Eventi performativi e nuovi media & II. Audiovisivi per il teatro. Di recente pubblicazione le due antologie Le pratiche del video e Le storie del video, Bulzoni, Roma 2003.


LDT: Ti chiedo di trarre un bilancio della “stagione” semiotica-teatrale alla luce delle più recenti acquisizioni della semiotica generale e di soffermarti sui limiti principali e sulle prospettive più promettenti.

VV: Il teatro come disciplina dello spettacolo e non del dramma letterario, è venuto alla luce tardivamente, verso la fine degli anni sessanta: prima era subalterno e sotto lo scudo protettivo della storia dell’arte, delle letterature straniere, o era un sottogenere della letteratura italiana. Affermare la specificità del teatro in quanto spettacolo, evento impermanente, effimero, ha significato affermare la sua debolezza.
Come rilevavo in Dopo il teatro moderno,(2) gli studiosi che negli anni ‘80 si sono impegnati per fondare una scienza del teatro – la semiotica –, hanno dovuto affrontare la natura del rapporto fra testo letterario e spettacolo. Il merito degli studi di Ruffini, Serpieri, Jansen, De Marinis (3) è stato quello di aver portato l’attenzione sulla polarità – testo: immutabile, persistente, tramandabile – e spettacolo – evento unico e irrepetibile –, proponendo di includere nella categoria di testo, non più solo il testo letterario, ma anche le altre materie espressive di cui si compone lo spettacolo teatrale. In questi anni si scontravano le tesi di “spettacolisti” e “drammaturgisti” che consideravano fonte primaria dell’evento teatrale, il testo drammatico, “fabula agenda”, nei cui confronti lo spettacolo è la“fabula acta”. (4) In una posizione di equidistanza fra le due tesi, si poneva Pagnini nel 1980 (5) nel rifiutare l’idea che il testo drammatico sia una invariante rispetto allo spettacolo e nel porre come oggetto d’analisi la rappresentazione scenica, “unica e globale manifestazione teatrale”, anche se istituiva una disparità fra testo scritto e spettacolo, l’uno infinito e l’altro finito. La nuova scienza del teatro come spettacolo, che gli studi semiotici contribuirono a rafforzare,  considerando il testo letterario destinato a dissolversi insieme agli altri testi parziali, rivendicava l’autonomia e la primarietà dello spettacolo, nei cui confronti il testo letterario è ridotto al rango di copione, che può anche manifestarsi come didascalia, descrizione condensata, contrassegno metatestuale del genere drammatico. Il destino del testo letterario sarebbe quello di ritestualizzarsi – come riscrittura – nella dinamica delle interferenze dei singoli testi che compongono lo spettacolo. Keir Elam (6) sosteneva invece la reciproca autonomia fra testo drammatico e spettacolo, in quanto appartengono a campi semiotici diversi, la cui relazione è di tipo intertestuale.
In un successivo intervento su «Versus», Testo scena:drammaturgia dello spettacolo e dello spettatore (7) Franco Ruffini propone il concetto di drammaturgia dello spettacolo, differente dalla drammaturgia del testo letterario in quanto tiene legate tutte le componenti: della scena, che è un concetto e un termine che è passato nel vocabolario del teatro.
Conquistare la specificità e l’autonomia dal genere drammatico, affermare la natura evenemenziale dello spettacolo, il suo esistere qui e ora nell’incontro dal vivo in un luogo specifico, di attori e spettatori, il suo darsi come occorrenza pluricodica, per cui il testo letterario contribuiva alla pari con gli altri codici, anzi passava in secondo piano rispetto ai linguaggi non verbali, ha comportato una vera e propria rivoluzione  nelle teorie e nelle pratiche del teatro.

LDT: Tu hai a lungo studiato il problema della descrizione e della documentazione (specialmente audiovisiva) del teatro; quali riflessioni proporresti oggi per delineare un metodo complessivo della documentazione audiovisiva in vista dell’analisi semiotica?

VV: Il teatro ha incominciato a utilizzare i media audiovisuali nel momento in cui si è trovato nella necessità di elaborare dei metodi rigorosi di analisi. Ho affrontato tali questioni nello studio in due volumi Teatro in immagine (1987), Eventi performativi e nuovi media (I) e Audiovisivi per il teatro (II). (8)
Ci si interrogava sul motivo del ritardo degli studi teatrali: è la sua non persistenza, la causa prima della sua inconsistenza analitica, insieme alla sua eterogeneità, il suo comprendere classi di oggetti diseguali. Alla ricerca di uno statuto scientifico che difendesse la sua differenzialità da altri media, primo fra tutti la letteratura, il teatro in quanto spettacolo pagava con l’inconsistenza come oggetto d’analisi, questa conquistata identità: si guadagnava il soggetto del discorso ma si doveva superare l’ostacolo della sua intrattabilità come testo analizzabile. In questa prospettiva, studi semiotici, fondazione della disciplina e statuto del documento audiovisuale hanno proceduto in parallelo.
Il problema della legittimità di ricostituire, mediante particolari procedure analitiche, l’oggetto spettacolo nella sua completezza, ha costituito una tappa importante nel processo di fondazione scientifica degli statuti teorici del teatro, ricostruzione storica dello spettacolo e ricostituzione testuale. Gli studi semiotici affrontavano questo problema: elaborare le procedure metalinguistiche attraverso cui è possibile rendere disponibile lo spettacolo come oggetto d’analisi, i sistemi di descrizione e trascrizione, capaci di tradurre in linguaggio verbale (descrizioni) o notazionale (trascrizione) lo spettacolo teatrale, o di trasporlo mediante registrazione audiovisiva. Gli spettacoli visuali e gestuali del nuovo teatro (Wilson, Grotowski, Foreman) ponevano con urgenza la necessità agli studiosi di individuare nuovi sistemi di descrizione (esempi in tal senso, Stefan Brecht, le cui analisi degli spettacoli di Wilson sono frutto di un visionamento reiterato e ravvicinato dello spettacolo, che  dimostra però l’inadeguatezza del linguaggio verbale). Era il nuovo teatro con la scrittura di scena/performance text che richiedeva approcci critici e analitici differenti rispetto al passato. La raccolta sistematica di dati mediante rilevamenti e osservazione diretta, diventava l’unica via d’accesso per penetrare l’universo di segni dello spettacolo. Né si poneva un conflitto di supremazia fra prospettiva storica (ricostruzione) e semiotica (ricostituzione testuale), bensì di integrazione. In quest’ottica il documento audiovisivo era chiamato a colmare le quote d’assenza dello spettacolo. Marco De Marinis assegnava alla registrazione audiovisuale il ruolo di documento principe, capace di rendere parzialmente presente lo spettacolo.
La documentazione audiovisuale, si affermava, non sostituisce la descrizione verbale, in quanto conserva una traccia analogica: il corpo e la voce dell’attore, azioni, sguardi, spazio, il repertorio della paralinguistica che l’immagine e il suono conserva  che non rimanda ad altro, ma alla cosa che è stata concretamente e materialmente in quel luogo. Inoltre, l’analogia percettiva del documento audiovisuale con lo spettacolo era giustamente contestata dalla semiotica pragmatica che dava valore al soggetto dell’enunciazione, ai fenomeni intensivi e emozionali.


LDT: Quale rapporto sussiste tra semiotica teatrale e antropologia culturale? Ti chiedo in particolare di riferirti ai problemi della documentazione, al ruolo di osservatore più o meno partecipante dell’analista, al rapporto tra le tradizioni-convenzioni culturali generali e i linguaggi adottati dalla scena.

VV: Posto il problema di fondare una prospettiva scientifica, ricostruire il contesto culturale dello spettacolo comportava integrare oltre ai campi disciplinari tradizionali come l’architettura, la musica, le arti figurative, anche altri più nuovi come l’etnoantropologia, la psicoanalisi, la cinesica, la prossemica e i media audiovisuali. Per rifondare antropologicamente il teatro bisognava imboccare due direzioni: conoscere dall’interno il contesto produttivo del teatro ( processo di prova, workshop, training) e portare l’attenzione verso l’altrove, ciò che non era teatro dalla prospettiva occidentale (rituali). I mezzi di registrazione audiovisuale sono intervenuti come mediazione indispensabile grazie alla loro capacità di avvicinare il lontano nello spazio, costruire una memoria di ciò che è in via di estinzione, seguire nel tempo lo svilupparsi di un processo senza variazione di attenzione.
L’approccio antropologico, in misura maggiore di quello semiotico, ha dato al teatro un nuovo modo di vedere e di guardare se stesso: la macchina da presa, strumento funzionale alla ricerca sul campo, diventa una mediazione rispetto all’ambiente e, contemporaneamente, un modo per penetrare più profondamente in esso. Scrivevo in Teatro in immagine: «La trasposizione audiovisuale si prestava efficacemente a mediare linguaggi non verbali, sostenendo il riscoperto valore della corporeità. Mediazione fondamentale  in questo processo di addestramento alla ricerca sul campo, sono le immagini e non  i testi scritti, chiamate a mostrare i modi in cui si manifestano i rapporti fra comportamento quotidiano e comportamento performativo, stati normali e stati di possessione e di trance». (9)
Il lavoro del ricercatore sul campo del teatro veniva assimilato a quello dell’antropologo, a quello di un partecipante-osservatore agito e animato da dinamiche interpersonali .
Nel saggio di Richard Schechner, Restoration of Behavior (1983), lo studioso si interrogava sulla natura del documento audio-visuale, rifiutando il ruolo di testimonianza di un rituale scomparso e problematizzando le relazioni fra il documento di un evento che è stato realizzato solo in virtù della sua registrazione e altri declinazioni possibili di rapporti fra documento e evento. Al fondo, la domanda: quale relazione fra evento e media tecnologici?
Scrivevo nell’Introduzione a La Teoria della Performance: «Con Restoration… Schechner […] arriva a risituare il luogo dell’evento nel continuum spettacolare prodotto dai media. Schechner non dichiara la scomparsa dell'evento, sostituito dalla riproducibilità, dai media tecnologici, se mai arriva a collocare sullo stesso territorio, e a far scontrare, testo-scrittura ed evento-corpo, integra nella sua visione della performance (il tempo, la memoria, la storia) e non solo lo spazio dell’antropologia». (10)
La tesi di Peggy Phelan: «nella misura in cui la performance cerca di entrare nell’economia della riproduzione, tradisce e perde la promessa della sua ontologia», (11) è che la memoria soggettiva di un evento effimero come lo spettacolo, sia più significativa del documento audiovisuale, perché la memoria individuale è mutevole, mentre il documento audiovisuale è un nuovo atto performativo e quindi non va considerato come sostituto dell’evento (di questo iconismo ingenuo gli studi teatrali in Italia si erano tenuti lontano fin dall’inizio). L’intervento di Rebecca Schneider del 2008 in cui, sulla scorta di Phelan propone di considerare il rapporto con i materiali che sopravvivono oltre la ‘sparizione’ della performance  come un atto performativo in sé, è omogeneo con l’intervento che lo precede in quanto sottrae al documento la sua natura e gli attribuisce una autonomia. La tesi di Phelan, che tanta ripercussione ha avuto, diventando uno starting point della nuova epistemologia degli studi sulla performance, arriva con almeno trenta anni di ritardo rispetto agli studi teorici in area italiana e ci proietta regressivamente all’atteggiamento diffuso fra gli artisti di teatro fino agli anni '80, nei confronti delle tecnologie riproduttive, convinti che la riproduzione neghi il carattere peculiare del teatro, l’immediatezza della comunicazione, proprio perché il teatro è un’arte dello spreco, senza memoria.
La tendenza, espressa nell’ambito dei performance studies, a cancellare le differenze fra opera e documento, di assimilare alla dimensione performativa fenomeni artistici e extrartistici e quindi di rendere aleatorio una possibilità scientifica di analisi, è in sintonia con l’estetica di flusso, continuum propria delle tecnologie digitali. Paradossalmente, è contro la pervasività della riproduzione, intensificata con l’avvento del digitale, cui si tenta di reagire, appellandosi alla memoria orale, senza considerare però che le tecnologie digitali implicano oralità piuttosto che riproducibilità. Porre sullo stesso piano l’opera e il documento, entrambi eventi, renderli equivalenti, confondendo testo e contesto, è in linea  con la tendenza attuale verso una processualità che mette in crisi l’opera. Se l’opera è inconservabile anche i suoi resti lo sono!

LDT: Quali sono secondo te i limiti del progetto semiotico?

VV: La semiotica del teatro, assumendo come modello una categoria di dramma determinata storicamente, quello aristotelico, ha ignorato sia la crisi del dramma moderno della fine Ottocento e dei primi del Novecento che la dimensione postdrammatica della seconda metà del novecento, ragion per cui ha proposto modelli di analisi inapplicabili a spettacoli in cui il testo letterario non è dispositivo dominante. Inoltre ha assimilato i segni della scena a quelli del testo, come se fossero equivalenti. Studiare i teatri nella loro specificità e differenza (secondo le indicazioni di Nando Taviani) (12) comportava rifiutare l’ipotesi di un modello di spettacolo che prendesse il posto delle concrete occorrenze spettacolari.  Il progetto di integrare semiotica e storia è stato espressione di una aspirazione totalizzante: la pretesa scientifica di ricostituire lo spettacolo in tutte le sue dimensioni (reazioni dello spettatore comprese) e nello stesso tempo ricostruire e documentare la totalità delle implicazioni e concomitanze in cui si esprime la cultura del teatro. Da un lato il visibile e manifesto, l’oggetto spettacolo da trattare come testo, opera finita, dall’altro rintracciare gli elementi nascosti, ciò che lo spettacolo non manifesta e che l’analista deve scoprire.
Trattare il corpo intrattabile del teatro non è possibile con una visione dall’alto, tale come proponeva il progetto semiotico, che non ha avuto incidenza sul teatro, che è un terreno praticato e topologico.  Infatti, il processo di scientificizzazione cui il teatro si è sottoposto per darsi un fondamento come disciplina, attraverso la semiotica, non è riuscito a trasformare il tradizionale approccio di tipo letterario che è tornato – esaurita la carica innovativa del nuovo teatro alla svolta degli anni '80 – a dominare insieme all’antropologia. A merito della semiotica teatrale va ascritto l’aver diffuso la consapevolezza della complessità pluricodica dell’evento spettacolo.
La reazione al progetto semiotico è stata alimentata anche dai filosofi post-strutturalisti e ha prodotto, almeno in Italia, una rinuncia alla teoria, oltre a una regressione all’indagine letteraria di tipo tematico.
Messa in crisi l’idea di Storia come grande narrazione e con essa i relativi corollari, quali il concetto di tradizione, di influsso, quello che si è perso, in questo ambito di studi, è la capacità di far interagire un testo in un contesto, stabilendo collegamenti fra opere e individui al di là del tempo.
In area anglosassone, con il dominio dei performance studies, in ambito accademico si è verificato un utilizzo ideologico e manipolatorio delle idee di Barthes, Focault, Derrida, Lacan che nel campo delle performing arts ha significato una dilatazione degli oggetti d’analisi che ha fatto smarrire l’oggetto – le performing arts – metafora, pretesto attraverso cui spaziare verso indagini che  privilegiano l’analisi del contesto  a discapito del testo, del performativo anziché del teatro e dello spettacolo, dello spettatore anziché dell’opera e dell’autore. Inoltre i performance studies hanno contribuito a rimuovere la storicità delle pratiche e la connessione fra contemporaneità e storia del Novecento, fra avanguardie e neoavanguardie. Sostenere con Foucault il paradigma della discontinuità come metodo di indagine, se ha permesso di superare l’idea della dialettica, secondo cui una opinione ne esclude un’altra all’interno dello stesso sistema, ha prodotto la coesistenza di enunciati contraddittori, senza la problematizzazione a fini euristici  di tale atteggiamento.

LDT: Secondo te quali sono i teorici del teatro e delle arti ai quali è più opportuno riandare oggi per trarre indicazioni sui percorsi da imboccare nella ricerca.

VV: Scrivevo nella premessa a Mondi, corpi, materie: «La difficoltà della teoria nei confronti del teatro come disciplina e come pratica da storicizzare in rapporto al contesto culturale e artistico in cui vive – nel Novecento – è motivata ampiamente dalla teoria stessa che, a partire, dalla critica poststrutturalista al segno, al linguaggio, alla rappresentazione, ha considerato autoritaria l’operazione di connettere significante e significato, imprimere una direzionalità alla rappresentazione, ha bandito i concetti di organicità, compiutezza, progetto, accogliendo al loro posto i concetti di evento, processo, corporeità, energia come elementi deterritorializzanti il senso». (13) Da qui ne traevo una direzione di metodo: uno spazio non omogeneo, accidentato, come quello del teatro contemporaneo non può essere guardato dall’alto, ma con ottiche parziali, per cui bisogna attestarsi su posizioni mobili di appassionato distacco, prendere responsabilmente posizione, ossia interrogarsi da quale prospettiva si guarda e adoperare più punti di vista, in accordo con Donna Haraway del Manifesto cyborg.

LDT: Che rapporto può esserci tra semiotica teatrale e pratica teatrale? Te lo chiedo con riferimento particolare alle pratiche odierne...

VV: Una attitudine anti-progetto, antirazionale è diffusa in chi fa teatro, sia per un’innegabile facoltà da parte degli artisti a concettualizzare e teorizzare autonomamente il proprio lavoro, sia per la dimensione autoriflessiva e concettuale, parodica, decostruzionista delle pratiche stesse, per cui produrre uno spettacolo significa riflettere sulla natura dello spettacolo che si sta componendo; sia per una forma di avversione nei confronti del pensiero storico e critico, diffusa fra gli artisti. In termini culturali significa un’elisione dei rapporti con la storia delle arti e del pensiero, con la tradizione del nuovo, in quanto, se pure si ammette una discendenza, la si colloca in una lontananza mitica, ineffettuale sull’operatività presente.
La difficoltà che le teorie incontrano – come la semiologia – a trattare con la scena contemporanea (e non solo il teatro), si comprendono sia con il non voler cedere alla deriva decostruzionista (impossibile fissare un senso), sia con il bisogno di prendere in carico il territorio del corporeo, del sensibile. Allora non si tratta di definire il teatro preso in carico, “antisemiologico”, quanto di attrezzare strumenti semiologici che siano in grado di trattare con la dimensione di un teatro  in cui non ci sono criteri ordinatori gerarchicamente stabiliti. Assumere cioè quanto le pratiche ci propongono, una dimensione in cui il limite fra intenzionale e casuale, senso, concetto e sensorialità, va di volta in volta negoziato, perché non si è in grado di «percepire le linee di forza della messa in scena». (14)
In tutti i campi si vive la difficoltà delle teorie a proporre strategie per superare il decostruzionismo, senza rinunciare alle conquiste della critica del segno, reintegrando ermeneutica e storicità delle pratiche.

LDT: E’ utile fornire una definizione di “teatro”?  Indagare un rapporto eventuale di una semiotica con una fenomenologia storica del genere teatro?
Ti chiedo in questo senso di definire la “teatralità”. Nozione forse utile anche all’analisi degli altri linguaggi, non solo quello teatrale... perché nell’ambito dell’analisi del discorso politico si è diffusa tanto la metafora della spettacolarità? Cosa potrebbe dare a quest’analisi l’approfondimento semiotico-teatrale della nozione di teatralità?


VV: Teatro, dramma, spettacolo, arti performative, performance sono categorie culturalmente e teoricamente distinte in rapporto alle diverse aree geografiche, tant’è che non esiste un lessico teatrale comune fra Usa e Europa, fra Russia e Germania, Italia, etc. Nella seconda metà del Novecento, le fenomenologie teatrali, sia in relazione alla produzione drammatica (da Beckett a Müller, da Kane a Garcia) che a quella spettacolare (gli spettacoli di Heiner Goebbels senza attori, quelli del Big Art Group in cui l’evento è una proiezione audiovisuale realizzata dal vivo, di Rimini Protokol che conduce lo spettatore in un percorso per le strade di Berlino, guidato da una voce via radio, in Oh Call Cutta…), ci pongono di fronte a una produzione in cui si fa fatica a riconoscere i tratti del genere teatrale... Nello stesso tempo la forma teatro perde tratti distintivi ma espande il suo paradigma e potere di attrazione sulla base della sua natura di essere dal vivo e di convocare qui e ora artisti e spettatori.
È la qualità di liveness che attira nel circuito degli eventi teatrali, piuttosto che l’adesione alle sue convenzioni di genere. Il teatro in quanto liveness è un frame in cui si inscrive altro dal teatro. Anche l’interesse attuale di alcuni filosofi verso il teatro si focalizza sulla sua dimensione evenemenziale, sul suo carattere di comunità, organismo vivente, comunicazione diretta, non imbrigliata in schemi formali.
Una studiosa come Erika Fischer Lichte ha indagato questo fenomeno di uno slittamento dal teatrale al performativo, (15) in ambito internazionale, tenendo in conto i contributi dei performance studies.

LDT: Quali orizzonti della teoria e dell’analisi si profilano oggi? Il problema delle passioni, il problema del corpo, il problema dell’enunciazione a teatro...?

VV: Ho voracemente cercato nei due testi di Greimas e Fontanille, Semiotica delle passioni e Figure del corpo, il primo apparso in Italia nel 1996 e il secondo da Meltemi nel 2004, un sostegno per l’indagine che stavo portando avanti sullo spettacolo teatrale contemporaneo, dove non si ha più a che fare con personaggi, né con performer, né con posture, ma con corpi, pezzi smontabili, trasparenze incorporee…  A parte la delusione di non vedere esplorato il teatro come terreno da cui prelevare esempi e riflessioni, da assumere come campo di indagine di uno studio sulle figure del corpo, lasciato da parte a favore del cinema e della letteratura, la nomenclatura tassonomica elaborata, anziché aiutare a comprendere più profondamente i propri oggetti, vi sovrimpone una impalcatura autoreferenziale. Cionondimeno, l’aver assunto come oggetto d’analisi passioni e affezioni, la distinzione fra carne e corpo, fra corpo comunicativo e corpo comunicante, fra energia e materia, fenomenologico e semiotico, costituisce una trasformazione notevole dell’approccio semiotico verso l’intrattabile...

LDT: Che mi dici invece del rapporto semiotica teatrale – critica teatrale?

VV: Negli anni '60 non c’era divaricazione profonda fra critica accademica e militante e questo aveva un effetto positivo perché insieme studiosi e critici hanno sostenuto la battaglia per un nuovo teatro. Intercorreva una reciprocità fra teorie estetiche e pratiche spettacolari.
Negli studi attuali delle più giovani generazioni riscontro una divaricazione fra una attitudine descrittiva, che produce un indebolimento sia del lavoro di ricostruzione storica che interpretativo, e una  attitudine teorica che perde di vista l’oggetto, dandosi piuttosto come una wikipedia delle teorie di moda, un allineare un vasto repertorio bibliografico senza utilizzarlo a fini ermeneutici.
L’elusione del principio di non contraddizione, l’autoriflessività, ossia il privilegiare i modi in cui si parla dell’oggetto, mescolando sensazioni, ricordi, memorie, vissuti, aneddoti, con l’obbiettivo di restituire ciò che le storie ufficiali rimuovono, non  discriminare le fonti utilizzate, sono alcuni dei tratti che connotano gli studi delle generazioni più giovani.

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(1) L'intervista risale agli inizi del 2011.
(2) Cfr. Valentina Valentini, Dopo il teatro moderno, Politi editore, Milano, 1989
(3) Cfr. Franco Ruffini, Semiotica del testo: l’esempio teatro, Bulzoni, Roma 1978, Alessandro Serpieri, Ipotesi teorica di segmentazione del testo teatrale, in «Strumenti critici», nn. 32-33, 1977, Steen Jansen, Problemi dell’analisi di testi drammatici, in «Biblioteca Teatrale» n. 20, 1978 e Marco De Marinis, Semiotica del teatro, l’analisi testuale dello spettacolo, Bompiani, Milano 1982
(4) Alessandro Serpieri, Ipotesi teorica..., cit.
(5) Marcello Pagnini, Letteratura drammatica e teatro, in Pragmatica della letteratura, Sellerio, Palermo 1980
(6) Keir Elam, The Semiotics of theatre and drama, Methuen, London 1980
(7) Franco Ruffini, Drammaturgia dello spettacolo e dello spettatore, in «Versus», 1985
(8) Valentina Valentini, Teatro in immagine, Eventi performativi e nuovi media, vol I, Documenti audiovisivi, vol. II, Bulzoni, Roma, 1987
(9) Valentina Valentini, Teatro in immagine..., cit., p. 43
(10) Valentina Valentini, Introduzione a Richard Schechner, Restoration of Behaviour, in La Teoria della Performance, a cura di Valentina Valentini, Bulzoni, Roma 1984, p. 21
(11) Peggy Phelan, Ontology of Performance, representation without reproduction, in Unmarked, Routledge, London and New York, 1996, p. 146
(12) Ferdinando Taviani, Ecologia del teatro, in Scena, Mestieri e sentimenti. XI Festival Internazionale del teatro in piazza, S. Arcangelo di Romagna, luglio 1976, p. 36
(13) Valentina Valentini, Mondi corpi materie. I teatri del secondo Novecento, Bruno Mondadori, Milano 2007, p. XI
(14) Patrice Pavis,  L’analisi degli spettacoli, Lindau, Torino 2004, p. 383
(15) Erika Fischer Lichte, Estetica del performativo, Carocci, Roma 2011


Bibliografia
Marco De Marinis, Semiotica del teatro, l’analisi testuale dello spettacolo, Bompiani, Milano 1982
Keir Elam, The Semiotics of theatre and drama, Methuen, London 1980
Erika Fischer Lichte, Estetica del performativo, Carocci, Roma 2011
Jacques Fontanille, Figure del corpo. Per una semiotica dell’impronta, Meltemi, Roma 2004
Al  Greimas, Semiotica delle passioni, Bompiani, Milano 1996
Donna Haraway,  Manifesto cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, Feltrinelli, Milano 1995
Steen Jansen, Problemi dell’analisi di testi drammatici, in «Biblioteca Teatrale» n. 20, 1978
Marcello Pagnini, Letteratura drammatica e teatro, in Pragmatica della letteratura, Sellerio, Palermo 1980
Patrice Pavis, L’analisi degli spettacoli, Lindau, Torino 2004
Peggy Phelan, Ontology of Performance, representation without reproduction, in Unmarked, Routledge, London and New York, 1996
Jacques Rancière, Le spectateur émancipé, La Fabrique, Paris 2008
Franco Ruffini, Semiotica del teatro: ricognizione degli studi, in «Biblioteca Teatrale», n. 9, 1974
Franco Ruffini, Semiotica del testo: l’esempio teatro, Bulzoni, Roma 1978
Franco Ruffini, Drammaturgia dello spettacolo e dello spettatore, in «Versus», 1985
Alessandro Serpieri, Ipotesi teorica di segmentazione del testo teatrale, in «Strumenti critici», nn. 32-33, 1977
Richard Schechner, Restoration of Behaviour, in La Teoria della Performance, (a cura di) Valentina Valentini, Bulzoni, Roma 1984
Rebecca Schneider, Resti performativi in B. Motion. Spazio di riflessione fuori e dentro le arti performative, (a cura di) V. Gravano, E. Pitozzi, A. Sacchi, Costa&Nolan, Milano 2008
Ferdinando Taviani, Ecologia del teatro, in Scena, Mestieri e sentimenti. XI Festival Internazionale del teatro in piazza, S. Arcangelo di Romagna, luglio 1976
Valentina Valentini, Teatro in immagine, Eventi performativi e nuovi media, vol I, Documenti audiovisivi, vol. II, Bulzoni, Roma, 1987
Valentina Valentini, Dopo il teatro moderno, Politi editore, Milano, 1989
Valentina Valentini, Mondi corpi materie. I teatri del secondo Novecento, Bruno Mondadori, Milano 2007



 
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