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Significazione.07 PDF Stampa E-mail

///Una rubrica per ripensare la relazione tra semiotica e teatro oggi///
a cura di Luca Di Tommaso

 

Sintomatologia dell'attore.
Appunti da un laboratorio sul “teatro a tempo di musica” condotto da Giancarlo Sepe.

di Luca Di Tommaso [PDF]

Giancarlo Sepe inizia giovanissimo la sua attività teatrale formando una sua compagnia ed allestendo testi comici del teatro russo e di narrativa contemporanea italiana e straniera. Sono moltissimi gli allestimenti di autori italiani e stranieri che ha curato nel corso della sua carriera registica, tra i più importanti: Williams, Brecht, Sartre, Vitrac, Gogol, Fonvizin, Jarry, Weiss, Pirandello, Fabbri, Cechov, Ibsen, Arrabal, E. De Filippo, Lorca, Strindberg, Rosso di San Secondo, Euripide. Nel 1972 fonda il Teatro La Comunità e dopo 10 anni di lavoro di ricerca e di laboratori teatrali raggiunge il successo con la Triade In Albis, Zio Vania, Accademia Ackermann. Tra i suoi ultimi spettacoli, Morso di luna nuova vince il premio “Le Maschere” per la miglior regia.


L’uomo che non ha musica dentro di sé
e non si emoziona per l’intreccio di dolci suoni
è portato all’intrigo, all’inganno e al tradimento
Shakespeare, Il mercante di Venezia.


 

Il laboratorio “Il teatro a tempo di musica” che Giancarlo Sepe ha tenuto durante le due settimane a cavallo tra novembre e dicembre 2010 al Teatro Comunale di Caserta è stata per me un’esperienza cruciale, come attore, come intellettuale, come uomo. In tempi bui per la cultura e per il teatro, un momento formativo di questo spessore fa onore a chi l’ha voluto, a chi l’ha sostenuto e a chi l’ha tenuto. (1)
Giancarlo Sepe è stato uno dei protagonisti del teatro di sperimentazione a partire dagli anni ’60 quando, dodicenne, come ci ha raccontato, era talmente piccolo che al di là del bancone la cassiera non vedeva nessuno e si chiedeva di chi fosse quella manina con i soldi del biglietto. Era già di allora la spinta di immergersi nel teatro da capo a piedi, immaginarsi parte di quella scena, oltre e piuttosto che di quella platea.  
Anche se non è possibile riportare gli insegnamenti di un maestro sulla carta, perché il maestro ti insegna innanzi tutto una condotta che non è trascrivibile, che passa dagli sguardi e si trasmette nelle prossimità o nelle lontananze dei corpi, è bello ripensare con la scrittura a quei giorni, per darne ad altri testimonianza e perpetrarne il succo.
Col senno di poi, mi pare di poter presentare quel lavoro come contraddistinto da alcuni principi fondamentali e poi da una precisa metodologia di lavoro. Non prima di aver reso conto, però, del valore politico, in senso lato cioè in senso vero, che Sepe ha voluto attribuire al nostro incontro.

Presupposti. Il teatro come forma di impegno sociale

Il pedagogo Sepe non ha nulla da invidiare al regista. La sua voglia di comunicare e lasciare un segno in chi oggi si trova a raccogliere il testimone della sua generazione, è chiara già dal modo in cui ci dispone nello spazio. Siamo in uno stanzone ampio e luminoso, tutti seduti vicino alle pareti, con dei quaderni in mano. Sepe siede a un banchetto al centro di un lato del quadrato, vicino a lui un tecnico audio che ci accompagnerà per tutto il tempo con le musiche suggerite dal maestro. Sembra di essere tornati a scuola.
Quasi tutta la prima giornata e buona parte delle altre, il lavoro consiste nel prendere appunti, riflettere e discutere. Ascoltare musiche, commentarle, analizzarle, sentirle. Dal posto, innanzi tutto. Vengono poi gradualmente le improvvisazioni, gli esercizi al centro della stanza, che diventa la nostra scena. La pratica ci si presenta strettamente imparentata con la teoria, è anzi questa che introduce quella.
Siamo invitati a vestire abiti quotidiani, scarpe coi tacchi e gonne per le donne, pantaloni che non siano tute e scarpe non da ginnastica per gli uomini. Bisogna abituarsi già dalla prove alle condizioni che vivremo nella scena.

E’ grande l’insistenza di Sepe, non tanto il primo giorno ma soprattutto i giorni centrali, quelli caldi del laboratorio, sulla valenza rivoluzionaria e sovversiva del fare teatro. Il teatro è per Sepe non una forma di impegno sociale, ma la forma più dinamica e più foriera di cambiamenti. Il teatro punta sull’attimo, perciò sono così posticce le sue riproduzioni audiovisive. In quanto effimero, il teatro è la forma d’arte meno controllabile. Bisogna approfittarne, ci dice.
Oggi c’è grande crisi teatrale, quantitativa e qualitativa. Negli anni ’70 l’offerta teatrale romana, ad esempio, era enorme. Il teatro di sperimentazione era davvero prepotente. Tutti facevano teatro. C’erano a Roma 60 o 70 spettacoli al giorno. Oggi nulla di tutto ciò.
Sepe ci invita a non imitare i canoni correnti, a non piegarci ai gusti del pubblico. Il pubblico vuole restare ciò che è. E’ necessario fare, senza scendere a compromessi. Riprendete testi vecchi e reinventateli. Fate gruppo e fate, ci dice Sepe. Annusatevi, sceglietevi, legatevi gli uni agli altri, saldatevi a un territorio. Partite da uno scantinato, come ho fatto io 40 anni fa, invitate amici e parenti per cominciare. E’ troppo costoso lavorare in cinque? Cominciate dai dialoghi, dai monologhi. Cominciate pure dalla strada, dal salotto di casa. E’ così che si inizia. Bisogna avere un’anarchia dello spazio teatrale. Negli spazi convenzionali non si crea nulla di nuovo. Bisogna avere coraggio.

Fate teatro in ogni caso, ad ogni costo. Non evitate le marchette. Fatelo per ricercare il teatro che vi assomiglia di più.

L’attore ha il dovere di acculturarsi. Confrontatevi con la gente, siate onnivori, mangiate tutta la letteratura e la cinematografia possibile. Io compro tutti i manuali che trovo. Una volta ho comprato il manuale del perfetto fantino. Tutto è teatralizzabile. Prendete il tango; comprai un manuale venticinque anni prima di mettere su lo spettacolo Napoletango, chi poteva saperlo?
Sfuggite il cliché – ci dice Sepe, e mi ricorda Stanislavskij – evitate il banale, l’ovvio, lo stereotipato. La cultura è fuga dall’ovvio. La cultura è tutto ciò che si ricorda dopo aver dimenticato tutto.
La ricerca teatrale come percorso difficile e segnato da sconfitte. La ricerca migliore è quella di ciò che in noi non conosciamo. Non dovete specializzarvi, a quest’età. L’attore deve studiare, studiare se stesso. Esplorate, ricercate, mettetevi in gioco nei più diversi ambiti del teatro. Cominciate fin d’ora a sperimentare.
(In un altro momento del laboratorio ci dice: la sperimentazione è un punto d’arrivo, non di partenza. Può farla chi è vecchio, non chi è giovane, chi è consapevole di ciò che può sperimentare. Nell’insegnamento di Sepe c’è stata pratica di quel principio che predica: che non c’è arte, non c’è ricerca, non c’è cultura, non c’è identità, se non c’è contraddizione.)


Principi. Il teatro come arte dell’ascolto

Il laboratorio è il luogo di studio della fenomenologia del sentimento. Sepe ci indica un’opera esemplare in questo senso: Beckett, dice, è un’enciclopedia britannica del sentimento.
I prodotti del laboratorio, ci avverte il primo giorno, saranno nient’altro che passioni. Potremo rappresentare, alludere, incarnare, immaginare… ma il risultato fondamentale di un buon lavoro è la passione. La passione però si svilisce col tempo, è un fuoco di paglia. L’attore deve rinnovarla sempre, e la musica serve anche a questo.
I sentimenti sono come i muscoli dell’attore e bisogna allenarli. La musica è un attrezzo prezioso per la palestra dell’attore. Il mio pensiero va a un autore che Sepe non cita mai, Antonin Artaud: l’attore come l’atleta del cuore.

L’attore deve portare la sua verità e deve farlo con naturalezza. Ma attenzione: di verità e naturalezza a teatro non si può parlare se non nel senso della genuinità e della spontaneità. Ma non si tratta di naturalismo, né di spontaneismo. Il teatro è sempre finzione. Chiedo a Sepe cosa ne pensi degli assunti dell’Antropologia Teatrale, cioè all’idea che la naturalezza dell’attore risieda non in una corrispondenza naturalistica con qualcosa di esterno alla scena da riportare al pubblico, bensì in una coerenza del corpo attoriale, in cui giocano un ruolo importante le estremità (mani, piedi, dita…). Sepe si dichiara abbastanza d’accordo e ce lo conferma la sua attenzione al lavoro delle dita nella musica, o al piede un po’ storto con cui uno di noi conclude la sua improvvisazione.

Al laboratorio siamo tutti attori. Se c’è qualcuno che ha praticato o pratica canto e danza, non è incluso nel lavoro in quanto cantante o danzatore. L’interesse di Sepe è lavorare sull’attorialità mediante la musica. Non è lo stesso lavorare il movimento con attori o danzatori. Bisogna arrivare al movimento pregno di espressività e passione. Il corpo è conditio sine qua non, è chiaro, perciò veniamo continuamente ripresi sulla necessità di migliorare il movimento (anche se il laboratorio non è la sede adatta per farlo insieme). Ma il fine non è il movimento in sé, bensì ciò che può attraversarlo. C’è tra di noi chi ha una spiccata vocazione per il coinvolgimento emotivo senza però riuscire a tradurla in movimento, qualcun altro è più ginnico senza sapersi lasciare andare all’emozione della musica. Per Sepe sono due estremi da conciliare.

L’attore deve prendere la musica come una drammaturgia. La musica è una forma di drammaturgia.
La musica può essere usata e letta come protesi del linguaggio verbale, insinuarsi tra le parole dette per suggerire il non detto, più chiaramente nello stesso senso, oppure in senso avverso: con ironia.
La musica è anche e soprattutto evocazione sentimentale. Da attori, quando la ascoltiamo, dobbiamo innanzitutto tentare di leggere dentro di noi le sue risonanze emotive.
La musica va valorizzata mediante accostamenti interculturali irriverenti: un esempio su tutti, tratto dalla miriade di ascolti proposti da Sepe: la musica di Bach interpretata dall’Orchestra del Gabon, un Bach ricco di sonorità terrestri, percussive, di pancia.

Il senso delle cose è un senso immaginario. Niente è aggressivo ma tutto è significativo. Occorre ascoltare le cose quotidiane, e l’aria che le contiene. L’aria vibra, conduce la musica. L’aria è musica.
Anche il senso della musica è immaginario; non risiede nella musica ma nell’ascolto che ne facciamo. Sepe ci fa riportare sotto dettatura queste parole di Bernstein: “La musica non parla di cose, la musica semplicemente è. E’ sbagliato dire cosa significa. La musica all’ascolto non trasmette né pensieri, né parole, né storie, né immagini.”

Sepe ci tiene a farci appuntare anche questa frase, sua stavolta: “il significato della musica deve essere ricercato nelle sue melodie, nei suoi ritmi, nelle sue armonie, nel suo colore orchestrale e soprattutto nel suo sviluppo.” In altri momenti poi ci dice che lo sviluppo della musica equivale alla drammaturgia. Che è più interessante lo sviluppo che il suo compimento.
Anche l’azione è più interessante per ciò che promette che per ciò che mantiene. Ciò non di meno occorre sviluppare sia la qualità della promessa sia la qualità del compimento.

Tutto il lavoro che facciamo con Giancarlo è anche di tipo artigianale. Impariamo a raffinare i segni della scena, i sintomi del nostro sentire. Sentiamo più volte parlare di sintomatologia dell’attore, del fatto che l’attore deve rendere il suo corpo sintomatico di una propria verità personale. Tra gli esempi dell’arte sintomatologica, ci porta quello della Duse che si infilava e sfilava di continuo la sua fede al dito.
Mi chiedo perché Giancarlo parli di sintomi. E’ curioso: sintomo è segno di una patologia, espressione di un malessere. Forse che l’attore deve star male per produrre i suoi segni? In effetti Sepe ci insegna che suo compito è entrare in uno stato di febbre, rendere il proprio ascolto musicale patologico. In quello stato si diviene più sensibili, ricettivi, aperti al brivido e alla pelle d’oca, si sente il proprio corpo e il suo esterno con una maggiore consapevolezza, si sentono delle parti di sé che quasi non credevamo di avere. D’altra parte la sofferenza ha un ruolo nel lavoro dell’attore, che deve portare sul proprio corpo, come in una crocifissione, tutti i segni di ciò che ha vissuto finora.

E’ ad ascoltare che bisogna imparare se si vuole davvero entrare dentro la musica. L’ascolto vero è empatico: ci si fonde con la musica come con il personaggio, non la si guarda come un oggetto.

Non esiste un ascolto più giusto degli altri, a parità di intensità e coinvolgimento. L’ascolto degli altri è e deve essere diverso dal proprio, le immagini evocate in loro dalla musica non devono prevalere sulle mie né le mie sulle loro.
L’ascolto non dev’essere mai consolatorio. Non devo mai accomodarmi nella musica. Il lavoro di scavo nei miei sentimenti nell’ascolto consiste innanzitutto nello scomodarsi verso altro da sé. Già la musica è quest’altro, prima ancora che le sue immagini e le mie reazioni. La musica è grande solo se mi disattende. E’ breve il passo che di qui conduce l’attore all’idea che l’azione è grande solo, come la musica, se scalza via l’ovvio. Banalizzata, la musica perde il suo enorme potere evocativo ed immaginifico. La stereotipia è indice di una mancanza d’amore per il teatro.

L’ascolto è un atto creativo. Ciascuno nell’ascolto trova se stesso un po’ diverso da prima: si è ricreato ed ha ricreato l’oggetto ascoltato. Le variazioni Goldberg sull’Aria di Bach, che tante volte Giancarlo ci fa ascoltare, sono in questo senso una figura simbolica dell’ascolto espressivo dell’attore: in entrambi i casi si tratta di una reinterpretazione creativa di uno stesso originale.

L’attore deve valorizzare la propria unicità. Abdicare a se stessi vuol dire suicidarsi moralmente. Ai provini, ci dice Giancarlo, non portate la maschera: portate la vostra faccia, il vostro cuore! Anche il difetto va valorizzato, come parte di voi. Poi cita Tolstoj: “Le famiglie felici sono tutte uguali, quelle infelici sono tutte diverse”. Per valorizzare la propria diversità bisogna studiare, studiare se stessi. Nello studio scopriamo noi stessi mentre scopriamo ciò che di noi stessi abbandoniamo. La scoperta dell’io è parallela al processo di decostruzione, infatti scoprire il nuovo vuol dire mettere in crisi il vecchio.

La soggettività è conflittualità. Quando la si scopre si entra in contrasto. Perciò è solitudine profonda. L’attore è l’artista più solo. Parlate, confrontatevi con chiunque, leggete di tutto, siate onnivori, tutto è teatralizzabile, dice Giancarlo. Ma siete soli, e abbiate il coraggio di esserlo fino in fondo.

Questo della contraddizione è un punto su cui discutiamo a lungo al laboratorio. Non c’è ricerca senza rischio, senza contraddizioni, dice Sepe. Invoca anche la contraddizione matematica: A e non A. Goethe è citato come maestro della contraddizione. Ma penso anche a Brecht, ancora una volta, alla sua idea che per entrare fino in fondo alla drammaturgia bisogna guardare dall’esterno, alla sua idea dello straniamento non inteso – come spesso ingenuamente si ritiene – come distanza fredda, bensì come dialettica di dentro e fuori, come tensione profonda tra la profondità dell’immedesimazione senza residui e lo sguardo lucido della sinossi. Penso anche a dei passi di Brecht in cui ho letto dello straniamento come processo dialettico, come superamento di un conflitto altrimenti paralizzante, per l’attore e per l’uomo. Ritrovo queste letture nelle parole di Giancarlo, quando ci dice che l’oggettivazione della contraddizione è condizione del suo superamento. Quando ci dice che la dialettica è uguale alla drammaturgia. Che la drammaturgia nasce dal conflitto, che non c’è virtù senza vizio e non c’è vizio senza virtù. (Ma se la musica è drammaturgia e la dialettica è drammatrgia, allora la musica è dialettica!)
Tutto questo ritorna concretamente nel lavoro sull’azione in alla musica. Il rapporto dell’azione con la musica non deve essere didascalico. Non bisogna far scopa con la musica: 4 di bastoni? Quattro di denari! Se la musica dice quattro, meglio star zitti se non ho altre carte da giocare. Empatizzare non vuol dire fare lo stesso della musica: la scommessa sarebbe persa in partenza, la musica è troppo più potente di noi. Non si può immaginare piuttosto di servire una bella torta su una musica solenne che invece indurrebbe, se facessimo scopa, a marciare solennemente a suo tempo?

L’azione di cui parla Giancarlo è innanzi tutto l’azione fisica. Il corpo è una delle novità da portare al pubblico, ci dice. E’ singolare, penso, che lo si dica ancora oggi. Artaud ha scritto ormai 70 anni fa… Ma il maestro ritorna sul nodo del corpo. Il teatro è ancora invischiato nella stasi da salotto, evidentemente. Anche Eduardo, ci dice, va rifatto così. (Non è un caso che la sua regia Eduardo più unico che raro, che debutta al Comunale proprio qualche giorno dopo la fine del laboratorio, si apra con una danza degli attori sulla scena… è un Eduardo davvero inedito, i suoi testi acquisiscono risvolti nuovissimi grazie all’inserzione di certe musiche e di certe movenze attoriali evidentemente lavorate in musica. Se il teatro è ritmo, il teatro eduardiano rifatto da Sepe è finalmente un teatro non eduardiano.)

Ma l’azione a cui si fa riferimento è anche quella parlata. La parola può trovare albergo nella musica. Quando il corpo è pronto può entrare in gioco la parola. E’ per questo che non ci lavoriamo se non per sprazzi: siamo continuamente ripresi per la nostra poca familiarità musicale con il nostro corpo.


Metodo. Il lavoro a tempo di musica

Ognuno di noi ha amato, ama e probabilmente amerà ancora. Come parliamo con la persona che amiamo? Siamo accoglienti? Siamo esaurienti? Siamo circostanziati nel farle intendere le nostre ragioni e i nostri punti di vista? Dovete fare lo stesso col pubblico. Siate dettagliati nel vostro dire-fare, perché il pubblico riesca ad accedere alla vostra intimità come il vostro amato riesce a fare grazie ai vostri sforzi. Se volete comunicare con il pubblico dovete prendervi cura di lui, dovete amarlo.
Ce n’è quanto basta per innamorarsi del teatro e del maestro (e del teatro del maestro).

Sepe insiste sulla necessità di lavorare sul corpo. In Italia non sono in molti gli insegnanti utili, da questo punto di vista. Si scaglia contro gli insegnanti settari, sia di mimo che di parola. Il teatro attoriale deve avvicinarsi al teatro-danza. Loda Pina Bausch, ci racconta di quando alla fine della sua carriera la maestra del Tanz-Theater decideva di lavorare con gli attori.

Il movimento, nell’ascolto, deve ancorarsi al suono. Il riverbero musicale deve corrispondere ad un estenuazione graduale del movimento nello spazio.

Il laboratorio è stato una costellazione di esercizi di gruppo ma soprattutto di improvvisazioni singole e mai collettive. Qualcuno tra di noi pone al maestro la domanda che ciascuno si è andato formando: come mai non ci faccia mai improvvisare, se non in gruppo, almeno in due. Ci risponde che l’ascolto dell’altro, quando già sono in ascolto della musica, è molto complesso, che è uno stadio più avanzato del lavoro, a cui non si può arrivare in dieci giorni. Per molti di noi si tratta di una particolarità metodologica, abituati come siamo a lavorare nell’ascolto del gruppo. Ma la musica è già un altro da ascoltare, e molti di noi hanno grosse difficoltà a porsi in un ascolto che non sia sommario.

Il lavoro dell’attore è come quello del musicista. Consiste nell’entrare nella musica e far entrare in sé la musica. E’ necessario, da attori, studiare i musicisti.

Una cosa alla quale l’attore deve abituarsi quando ascolta una musica in funzione di una espressività teatrale è quella di mettersi al centro dell’immaginazione. Non deve immaginare scene che lo escludono come il muoversi delle foglie al passare del vento. Deve immaginare sempre delle azioni possibile del proprio corpo inteso in quanto corpo, cioè non in quanto mimante-rappresentante altro da sé. Meglio immaginare le proprie reazioni al vento (quindi anche immaginarsi il vento) che le reazioni delle foglie al vento. Al limite immaginarsi toccati dalle foglie al vento, o alludere alle foglie col ritmo del movimento, con brevi cenni non realistici. Ma è sempre il proprio corpo al centro della scena.
Non mimate. Usate il corpo per quel che è. Semmai alludete, senza realismo, ma con ironia.

La partitura del testo verbale può essere paragonata a quella del testo musicale e perciò può essere trattata come quella musicale. Anche il testo da vocalizzare, anche la voce è musica. Il corpo deve situarsi nella musica della voce e del testo.

Nell’ascolto bisogna già immaginare il gesto. L’attore che da seduto si ferma alla ricezione della musica è povero. La sua creatività consiste nell’immaginare il proprio movimento, nei possibili legami di esso con la musica che lo origina. Bisogna fare attenzione alla carenza di immaginazione, anche per questo occorre nutrirsi continuamente di film e di opere d’arte. Bisogna supplire alle nostre mancanze (d’esperienza, di immaginazione) con i suggerimenti drammaturgici dei grandi del passato e del presente.

Il principio fondamentale della metodologia di Sepe è questo: usare la musica come foriera di esperienza attoriale. Secondo la tradizione che va da Stanislavskij all’Actor Studio, che Giancarlo richiama spessissimo, l’attore deve fare riferimento a un proprio bagaglio d’esperienza per dar vita alla scena. Bisogna convocare nel lavoro la propria esperienza, sia quella passata che quella presente. Ma se questa esperienza manca – e così è spesso per gli attori giovani – la musica è capace di supplire o comunque di rinforzare e integrare il bagaglio.
La citazione che ascoltiamo un giorno è di Oscar Wilde: “La musica ci fa provare dolori che non sono i nostri”.

Non ogni ascolto è legittimo di uno stesso brano, per quanto si tratti di un atto creativo. Il brano è come un testo che pone delle condizioni, delle costrizioni che ci rendono più liberi di esprimerci.

La strategia di Sepe è spesso quella di stancarci, farci muovere sulla musica fino allo sfinimento, perché è nel rilascio delle resistenze corporee, cioè delle abitudini, che si accede allo stato più creativo. Un metodo che riallaccia il lavoro Sepe a tanti altri sperimentatori del teatro contemporaneo.

Ogni improvvisazione, che ciascuno esegue o tenta al centro del perimetro dei 40 occhi, si conclude con un commento a più voci. La maggior parte delle volte Giancarlo chiede all’attore di parlare di ciò che ha provato e ha creduto di aver trasmesso; poi gira la questione agli altri, per dare riscontro, negativo o positivo, al lavoro del compagno. Tenta quanto può di trattenersi dall’intervenire, ma anche lui come tutti è preso dalle irritazioni di fronte alle falsità così come dalle esaltazioni di fronte alle verità, perciò spesso interviene con la sua parola carismatica a sancire un successo o un fallimento. Poi rivolge all’improvvisatore mille domande, per cavargli fuori quei mille perché di cui l’attore deve essere consapevole, secondo l’insegnamento di Pina Bausch, per essere un grande attore.

Un giorno qualcuno pone agli altri e a Giancarlo, tra varie peripezie argomentative, una domanda che qualcun altro sa riassumere così: azione o reazione? E’ necessario agire propositivamente nella musica, oppure reagire alla musica senza proporre? Lasciarsi andare? Quasi tutti concordano sul fatto che si tratta di un problema piuttosto illusorio, che l’azione giusta nella musica è una reazione alla musica e che viceversa la reazione alla musica è sempre propositiva di qualcosa d’altro dalla musica, perché sono io che reagisco e io sono altro dalla musica. Naturalmente tra il dire e il fare c’è di mezzo la stessa distanza che c’è tra l’attore approssimativo e l’attore vero (che forse, a questo punto, sarebbe meglio chiamare re-attore).

Un principio fondamentale della metodologia sepiana è quello della temporalizzazione. Occorre temporalizzare l’immaginazione: che arco di tempo descrive una musica? In quanto tempo accade il gesto o il movimento che le associamo? Un giorno? Un mese? Un anno?

L’ascolto deve essere lenticolare, puntuale, non riassuntivo. Se mi muovo sull’idea di una musica, sulla sensazione sommaria di quella sezione musicale, di quel gruppo di battute, sto sbagliando, e subito si vede. Ciò che si sente si vede e ciò che si vede si sente, dice Sepe con Muti. Non devo pensare, devo stare nell’ascolto, ancorarmi al qui ed ora dello scorrere musicale (penso: come al qui ed ora dello scorrere del tempo nella vita, secondo gli insegnamenti zen...)

Si può scegliere un brano per i propri testi e poi conservarne solo la memoria in scena, come un sottotesto, come il nutrimento emotivo del testo, se lo spettacolo non include l’uso di quel brano.

Nel lavoro occorre esercitarsi a costruire e decostruire l’ascolto. Variarlo, modificarlo nell’esercizio. Moltiplicando il movimento rispetto al ritmo, ad esempio. O dividendolo. Marcando tutte le note o una su due, o una su quattro…

All’ascolto bisogna porsi quattro domande molto concrete:
-    Quale stato d’animo mi evoca questa musica?
-    Quale aggettivo mi viene da attribuire a questo brano?
-    Cosa mi conduce immediatamente a fare?
-    Quale immagine, riferimento culturale, film… mi fa venire in mente?
Lo stesso esercizio si può fare con i testi e con i personaggi.

Un obiettivo fondamentale dell’espressione teatrale in musica è che bisogna battere la musica: non fare scopa (allora è meglio star zitti), ma imporsi su di essa, farla scomparire.

Ci sono diversi usi drammaturgici della musica. Un conto, ad esempio, è la musica diegetica, che nasce dalla storia rappresentata, un altro conto è quella extradiegetica, che proviene alla storia dal suo esterno. Nel lavoro l’attore deve sempre chiedersi: e se la musica che utilizzo fosse diegetica? E se fosse extradiegetica? E se fosse messa da qualcun altro nella scena? E se stessi lavando i piatti su questa musica da guerra? E se…? E se…? …

Nella postura è importante la dialettica equilibrio-disequilibrio.
Dovete esplorare il disequilibrio, nel corpo, nell’anima, nella vita. Fatevi disequilibrare dalla musica. Questo è l’ascolto pericoloso. Come l’ascolto sentimentale, che in quanto tale è sempre pericoloso. Cercate il disagio nel rapporto con il movimento. Non c’è dialettica nella comodità.

Sepe ci invita a esplorare innanzi tutto le nostre reazioni emotive alla musica. Ma ci avverte che si tratta di una strada difficile. Molti di noi infatti faticano, e si rifugiano (a volte senza accorgersene) in quello che fu già il nemico giurato di Stanislavskij: il cliché. Ci propone quindi un’alternativa metodologica: quando non riuscite a leggervi dentro con chiarezza, nell’improvvisazione, lavorate seguendo il ritmo. Muoversi a ritmo è già qualcosa. Empatia ritmica, la chiama: onomatopea, la via cinetica al lavoro emotivo.

E’ necessaria la costruzione di un ascolto per tasselli. Parlare delle sensazioni, innanzi tutto verbalizzarle; poi aggettivare la musica, definirla. Parlare di una cosa per entrarci dentro. Analizzarla per empatizzarla. Bisogna rendere il proprio ascolto passionale e lucido al contempo. Da un lato renderlo patologico, perché nella febbre si è più sensibili e disponibili ai brividi, dall’altro cosciente, perché solo se è padrone del proprio sentire l’attore riesce ad evitare il rischio della trance che si chiama autosuggestione e mancanza di comunicazione.
Bisogna assumere la musica matematicamente, magari osservando e riosservando le colonnine al led che si muovono sul monitor dello stereo.
Bisogna tenere gli occhi aperti durante l’ascolto, per assumere l’ascolto degli altri dentro la propria esperienza presente. Analizzare, schematizzare è importante per affrontare la musica attorialmente. (Ancora una volta: l’epicizzazione, Brecht.)

Alcuni esercizi che svolgiamo durante il laboratorio:
-    scegliere un brano musicale che sia rappresentativo del proprio percorso fatto durante il laboratorio.
-    scegliere una musica per ogni sentimento provato.
-     scegliere una musica (o più musiche) per un testo o per un personaggio.
-    descrivere una musica con le mani, associandole una forma geometrica disegnarla nell’aria.
-    da seduti, muovere a tempo di musica solo le spalle. Poi solo la testa. Poi solo le mani. Parcellizzare l’ascolto, fare economia del movimento.
-    marcare quante più note è possibile muovendo tutte le parti del corpo.

Ogni improvvisazione deve avere un’evoluzione: inizio, sviluppo e fine (mi viene in mente l’estremo maestro del teatro No, Zeami: jo, ha, kyu).

Quando la musica è subito riconducibile a un genere o ricorda in maniera inequivocabile un film o un episodio dell'immaginario collettivo, bisogna tenere presenti questi rimandi, senza però esserne schiacciati. Bisogna partire da lì per poi distaccarsene e muovere alla scoperta di cose di sé che si ha paura di scoprire.

All’inizio del laboratorio, in quell’atmosfera un po’ scolastica in cui ci vediamo catapultati dall’organizzazione spaziale e dall’impostazione sedentaria del lavoro, Giancarlo ci dice di dargli del tu, e qui subito misuriamo la qualità del suo carisma che, come quello dei veri maestri, scopriremo imporsi a noi non in una formalità del linguaggio, ma nel rispetto che nasce in seguito al riconoscimento di una superiorità artigianale.
Ci dice anche subito che dobbiamo arricchire  il nostro bagaglio di esperienza, non solo diretta, ma indiretta, quella che possiamo rubare e succhiare ai grandi attori, ai grandi personaggi, ai grandi testi, alle grandi musiche, ai grandi film. Ci raccomanda di annotare in un angolo dei nostri appunti, o in una paginetta apposita, i nomi degli artisti – autori, compositori, registi, attori… – che di volta in volta, nei dieci giorni, verranno a comporre una cornice immaginaria per tutti i partecipanti.
Alla fine, se rileggo di filato gli angolini di quei fogli, ne traggo questa lista di i nomi:
Chopin,
Schumann,
Ibsen (in particolare i drammi femminili: chi vuole studiare i personaggi femminili a teatro deve leggere Ibsen),
Proust,
Čechov,
Bergman (molto sul senso della memoria ne Il posto delle fragole, film ampiamente discusso nel seminario, il numero uno per Sepe di tutti i tempi),
Ashkenazy e Pollini come interpreti dei notturni di Chopin,
Kubrick (continuamente richiamato come fondamentale riferimento musicale-cinematografico),
Morricone,
Pippo Barzizza,
Giuni Russo,
Battiato,
Pina Bausch (in particolare il lavoro con gli attori negli ultimi anni),
Beckett (l’enciclopedia britannica del sentimento, per Sepe),
Vivaldi (il prete rosso da cui Bach si recava per imparare, senza riuscire mai fino in fondo. Il compositore supremo, Vivaldi, per Sepe),
Oblomov (libro fondamentale per chi voglia approfondire l’accidia),
Trainspotting,
Bizet,
Bernstein,
Muti (di cui Sepe ci invita a comprare le lezioni in DVD),
Abbado (elogiato per l’impresa dell’Orchestra Bolivar),
Tolstoj,
Webern,
Schönberg,
Satie,
Horowitz,
le sorelle Brontë,
John Ford,
Sentieri selvaggi,
Turandot (Puccini)
Dadaismo,
Vitrac,
Jarry,
Terence Davies (Il lungo giorno finisce)
Čaikovskij,
Thomas Mann (La montagna incantata)
Vargas Llosa (in particolare La guerra della fine del mondo e La zia Julia e lo scribacchino)
Fellini,
Kremer (il Vivaldi di Kremer è radicalmente diverso dagli altri),
Piazzolla,
Prokof’ev,
H. Heine,
J. Campion,
Buñuel,
Von Trier,
Shakespeare,
Lessing,
O. Wilde,
Loussier (Playbach come modello di reinterpretazione e contaminazione),
Romeo e Giulietta con G. Giannini diciottenne,
Cronos quartet,
Dvořák (Sinfonia del nuovo mondo),
Won Kar Wai (In the mood for love e Eros),
Kurt Weill,
Sartre,
Moravia,
Nabokov,
Céline,
Flaubert (che Vargas Llosa riconosce come proprio maestro),
Aernheim (Arte e percezione visiva: un viaggio affascinante nel nostro modo di percepire il mondo),
Tarantino
Rolling Stones,
Pink Floyd,
Beatles,
Massive Attack,
Bob Dilan,
Comelade,
J. Horner,
Penguin Cafè Orchestra,
Brahms,
Radetzkij,
Billy Holiday,
Philip Glass,
Mishima,
Marin Marais,
J. Babtiste Lulli,
Hitchcock,
Bernard Herman.
Nel nominare questi riferimenti Sepe non faceva un’operazione qualunquistica perché includere quelli che potevano sembrare scontati voleva dire, infondo, escluderne altri altrettanto probabili, ma che evidentemente non erano ritenuti da lui altrettanto urgenti. Si disegnava così, piano piano, un immaginario che diveniva una comune atmosfera culturale che gradualmente scalzava quella della quotidianità e definiva i contorni di una temperatura emotiva che aveva in sé tutte le gradazioni necessarie e sufficienti per il nostro lavoro interpretativo.
In dieci giorni un’intera tradizione veniva riassunta, passata al setaccio, filtrata, onorata e tradita.

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NOTE:
(1) Il laboratorio è stato promosso da “Gli ipocriti” e sostenuto dal Teatro Pubblico Campano.

 
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