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///Una rubrica per ripensare la relazione tra semiotica e teatro oggi///
a cura di Luca Di Tommaso

“Il problema del teatro è l’enunciazione”.
Intervista a Ugo Volli sulla semiotica teatrale.
(1)
di Luca Di Tommaso [PDF]

Ugo Volli è ordinario di semiotica del testo all'Università di Torino. E' stato critico teatrale di “Repubblica” dal 1976 al 2009 e tra gli anni '80 e '90 ha collaborato con l'ISTA, «International School of Theatre Anthropology», diretta da Eugenio Barba. Tra le sue pubblicazioni sul teatro, si veda in particolare La quercia del duca. Vagabondaggi teatrali, Feltrinelli, Milano 1989. Una serie interessante di altri suoi testi sul teatro difficilmente reperibili è al link http://sites.google.com/site/profugovolli/pubblicazioni-difficilmente-reperibili



LDT: Professore, lei ha sostenuto di recente che l’esperienza acquisisce il suo senso per il tramite della sua narrazione, tanto che sarebbe meglio parlare, piuttosto che di “esperienza e narrazione”, di “esperienza è narrazione” .(2) La semiotica teatrale, nel suo periodo di massimo splendore in Italia, è stata innanzi tutto un’esperienza che ha coinvolto studiosi di estrazioni diverse e credo di indovinare che anche per lei sia stata importante, nel suo percorso di studioso di semiotica e filosofo del linguaggio. Vorrei chiederle di raccontarcela per conferirle un senso che forse sarà diverso da quello che pareva avere vent’anni, trent’anni fa. Che senso ha quella esperienza oggi, alla luce del nuovo quadro storico e culturale, alla luce delle attuali situazioni della semiotica e del teatro?
UV: Non mi pare che la semiotica teatrale, come si è sviluppata negli anni Ottanta in Italia sia stata importante né per la semiotica né per il teatro – certo non per me personalmente. In fondo è la storia di un tema che non è riuscito ad affermarsi. Le ragioni sono diverse. La principale mi sembra questa: la semiotica teatrale si è sviluppata ancora intorno alla nozione di codice, ponendosi problemi come l'esistenza di un medium multicodificato, dell'unità o pluralità del codice teatrale, delle caratteristiche specifiche dei suoi segni ecc. La nozione di codice, come quella di segno, si stava però rivelando poco fruttuosa e sarebbe stata abbandonata presto in favore di concetti come testo, senso ecc. e dell'idea che il processo semiotico determinante fosse quello "profondo" in cui certe valorizzazioni fondamentali venivano narrativizzate e non quello "superficiale" in cui si forma la "manifestazione" testuale. Per quanto riguarda il teatro, le proposte di semiotica teatrale sono emerse nel momento in cui la parte più viva dell'ambiente teatrale lottava contro i codici tradizionali della scena europea e cercava dei nuovi modi di stabilire la "presenza" dell'attore, ispirandosi a modelli orientali o a interpretazioni psicologiche profonde (Stanislavskij) o a meccanismi espressivi "cinici" (Barba, Grotowski); oppure pretendeva di stabilire nuove grammatiche più o meno analogiche (la sperimentazione). Di conseguenza i teatri vivi non erano particolarmente interessati a un'indagine sul "linguaggio teatrale". Per quanto mi riguarda personalmente, facendo il semiologo da un lato e il critico teatrale dall'altro, in questo contesto ho dovuto presto accorgermi che la semiotica non mi forniva strumenti penetranti, e a volte neppure pertinenti per illustrare il senso di uno spettacolo, né tantomeno per stabilirne il valore. Di fatto non credo di avere mai scritto una critica che potessi qualificare come "semiotica".


LDT: Credo che la semiotica teatrale sia stata messa di fronte ad una sfida nel momento in cui si è trovata a dover fare i conti con una inadeguatezza dei propri concetti operativi che in effetti l’hanno inaugurata. E credo che questa sfida sia stata la stessa di tutte le semiotiche (del cinema, della pittura, del linguaggio politico ecc.) e anche della semiotica generale. Ora mentre queste semiotiche la loro sfida l’hanno vinta, o quanto meno affrontata, quella teatrale… non si può dire l’abbia persa: non l’ha nemmeno affrontata. Il mio sospetto è che la semiotica teatrale non fosse per statuto inadeguata all’analisi del teatro nella sua complessità, ma che lo fosse solo storicamente e che avrebbe potuto affrontare la difficoltà del suo oggetto come le altre semiotiche e la semiotica hanno fatto, rinnovando i propri apparati teorici e metodologici. Non crede che una riflessione più fine sulla questione del senso, del testo, dei processi profondi di significazione, del corpo, delle passioni, avrebbe potuto portare anche la semiotica teatrale, se non a vincere la sfida, almeno ad evolversi attraverso? E crede che sia possibile farlo oggi, alla luce delle acquisizioni negli ambiti limitrofi?
UV: Sono d'accordo. Era inadeguata una semiotica del segno e del codice. Oggi avrebbe certamente più senso tentare di far ripartire una teoria semiotica del teatro sulla base degli ultimi decenni di acquisizioni teoriche su temi come la narratività, l'enunciazione, la semiotica delle passioni e del corpo. Resta il problema di un oggetto straordinariamente complesso, solo in parte formalizzato secondo grammatiche comunque multiple ed estremamente variabili nel tempo e nello spazio, con pertinenze altrettanto multiple, che si riproduce con variazioni a ogni spettacolo e per cui dunque la nozione di testo è assai problematica. Se la semiotica avanzasse la pretesa non solo di discutere in generale dello statuto del teatro ma di analizzare qualche concreto spettacolo teatrale, sarebbe probabilmente incapace di realizzare l'impresa ancora oggi. Del resto bisogna dire che non esiste in nessuna disciplina e con nessuna metodologia un'analisi scientifica di anche solo un singolo spettacolo teatrale. Non abbiamo neanche un modo di trascrivere il testo di uno spettacolo, se non semplicemente traducendolo nel linguaggio dell'audiovisivo grazie alle tecnologie cinematografiche e video. Ma naturalmente si tratta di traduzioni intersemiotiche, nel senso di Jakobson, non di analisi o trascrizioni. (3) La loro utilità per la memoria storica è ovvia, ma è altrettanto ovvio che gli effetti di senso di uno spettacolo non sono affatto chiariti, né tanto meno analizzati da una semplice trasposizione di questo tipo.
LDT: Sono tanti i problemi che lei solleva, vorrei soffermarmi un momento su quello del testo. La semiotica ha tentato di emanciparsi dalla filologia intendendo il testo come un modello costruito dall’analisi su oggetti non solo verbali. Ma ho l’impressione che nella consuetudine metalinguistica le due accezioni, filologica e anti-filologica, convivano; infatti spesso anche in semiotica si sente parlare di un film o di un libro come di testi, mentre se l’analisi si facesse carico della teoria fino in fondo comincerebbe con il chiedersi cosa di quel film o di quel libro può e vuole testualizzare. Mi pare che la semiotica teatrale sia stata vittima privilegiata di questo retaggio, sia perché fin dal suo nascere alcuni hanno insistito per assumere il testo drammatico a oggetto fondamentale d’indagine, sia perché poi gli “spettacolisti”  (4) hanno “vinto” affermando la nozione di testo spettacolare, che però è ancora equivoca: come se non potesse darsi altro testo dallo spettacolo e come se lo spettacolo fosse già dotato in sé dei tratti propri della testualità (chiusura, coerenza, presenza di elementi portanti interdipendenti ecc.), cosa che non mi pare affatto scontata, specie nel caso del teatro contemporaneo. Non crede che sia opportuno partire da un’operazione di ripulitura metalinguistica?
UV: Ho sentito spesso citare l'idea di testo cui lei sembra riferirsi, e ho visto questa epistemologia più o meno attribuita a Greimas; non mi pronuncio sulla correttezza di tale paternità, ma francamente non colgo il senso di questa operazione. Se un semiotico si fabbrica un testo per conto suo e poi lo analizza, al resto del mondo che importa? Sarebbe un gioco tautologico e fine a se stesso. Se si tratta invece di costruire un modello parziale o ideale, come sempre fanno le scienze naturali, si tratta di essere acutamente consapevoli di quel che si tralascia, e di porlo come limite esplicito alla validità delle conclusioni. I fisici che descrivono il moto dei gravi sulla base delle leggi di Newton eliminando l'attrito e immaginandoli puntiformi, sapevano bene che le leggi che ne derivavano erano parziali, provvisorie, approssimate. Lo stesso dovrebbero fare i semiologi nel loro caso. E poi, naturalmente, con questo tipo di taglio si giustificherebbero proprio quelle visioni parziali che si intendono delegittimare, come la semiotica del testo drammatico. Io non credo in questa strada, penso che si debba fare i conti con quegli oggetti sociali che chiamiamo testi, così come sono, limitandoci a ritagliarli onestamente secondo le linee di frattura che sono già designate in essi. Non credo che abbia senso fare la semiotica di un teatro immaginario,  per far sì che sia "chiuso, coerente, fatto di elementi interdipendenti". Si dà il caso che i testi di fatto non siano mai davvero così. Questi requisiti vengono da un'impropria trasposizione delle caratteristiche dei linguaggi formali sulla lingua storico-naturale, proposta da Hjelmslev probabilmente per l'influenza di Carnap, col ridicolo nome di "principio empirico", quando ne è la sua negazione. Il fatto è che i grandi teoremi limitativi di Gödel e Tarski hanno mostrato già da quasi ottant'anni che neppure i linguaggi formali interessanti possono essere intesi in questo modo. Dunque perché trascinarsi dietro questi pregiudizi?  Ancora una parola sulla filologia. Io non credo affatto che la logica debba emanciparsi dalla filologia, nel senso di fare a meno da una conoscenza approfondita del testo e magari anche della sua storia. Semmai la semiotica può limitare le pretese eccessive di certa filologia, la fantasia scatenata di certe ricostruzioni piuttosto romanzesche (mi riferisco per esempio alla maggior parte delle analisi dei testi molto antichi come la Bibbia ebraica), per richiamare i filologi all'umiltà del confronto col testo "così com'è".
LDT: Resta comunque il problema di individuare di volta in volta il testo: se è relativamente facile pensare uno spettacolo come testo “così com’è”, non altrettanto immediato è il caso di certe istallazioni contemporanee, ad esempio, dove le linee di fattura sono confuse perché magari è il pubblico stesso a fare la performance entrando in uno spazio, e magari senza accorgendosene subito. Lei terrebbe ferma, insomma, la nozione di “testo spettacolare”?
UV: Io tengo ferma la nozione di testo, inteso come un segmento di processo che il semiotico sceglie di isolare a ragion veduta perché gli sembra contenere le dimensioni di senso e di comunicazione più interessanti del fenomeno che studia. Per questo il processo dev'essere sufficientemente stabile per poter essere sottoposto allo studio ed eventualmente raggiunto per approssimazioni successive. (Una cosa che i costruzionisti del testo o i decostruzionisti letterari in genere non dicono è che nella pratica concreta di ogni studio semiotico, come per molte delle scienze umane il ricercatore procede spesso per prove ed errori, verificando le sue intuizioni o – nel linguaggio ermeneutico – pre-comprensioni sulla "resistenza" dell'oggetto, per trovare la linea di analisi, la pertinenza, il ritaglio più fruttuoso: ogni  apriorismo che strizza l'occhio all'assiomatica in semiotica non solo è ridicolmente inadeguato sul piano teorico, ma non corrisponde affatto al lavoro vero dei semiotici). Tengo ferma in particolare la nozione di testo come intreccio di elementi diversi che si tengono assieme sulla base di catene isotopiche, rime, ritorni, interazioni fra strati diversi del significante. L'analisi non può che sforzarsi di rendere ragione di questa complessità, che è particolarmente accentuata in un caso così ricco di dimensioni di senso e per sua natura "polifonico" come il teatro. E' chiaro che nei fenomeni teatrali sono sovrapposti diversi testi, caratterizzati da diverso grado di autonomia, dal testo drammatico e da quello musicale, se ci sono, a quello spaziale/visivo delle scene, all'azione degli attori, che in genere si estende almeno per i registri verbale, sonoro e gestuale. Se l'interazione fra testo drammaturgico, musicale, spaziale e azioni fisiche verbali e sonore degli attori sono fissati, com'è il caso il buona parte del teatro del Novecento, allora la nozione di testo spettacolare, come ciò che è stato fissato, il prototipo cui più o meno si adeguano tutte le singole realizzazioni dello spettacolo, ha senso e può essere strumento della ricerca e magari anzi suo oggetto. Quando questo non accade, come negli spettacoli "all'antica", nelle improvvisazioni, nelle performance cui il pubblico partecipa, questo strumento è inadeguato e bisogna pensare ad altri oggetti/strumenti. Se essi possono essere stabiliti come testi, cioè se si individuano come pertinenti piani dell'espressioni e del contenuto ecc. allora è ragionevole darne un'analisi semiotica. In altri casi, il fenomeno sarà da studiare solo in senso psicologico, sociologico, storico ecc. e la semiotica dovrà confessare la propria incompetenza.
LDT: Uno dei limiti che ho sentito più volte rimproverare alla semiotica teatrale è che il testo, a teatro,  non c’è; perché ogni volta lo spettacolo cambia radicalmente, e così il suo senso. Mi sono sempre chiesto se questa idea non fosse debitrice di un’idea sbagliata di testo spettacolare, come se non si potesse considerare testuale una singola replica e non lo spettacolo “in generale”. In fondo, se il teatro sembra definirsi sulla base del suo essere effimero, perché non potrebbe darsi – anche con tutte le difficoltà metodologiche del caso – una semiotica dell’evento-spettacolo, piuttosto che del prodotto-spettacolo inteso come ripetibile?
UV: In generale non si dà scienza se non di ciò che è – se non ripetibile –  almeno pubblicamente disponibile, documentabile. E’ possibile pensare di prendere come oggetto di analisi un singolo spettacolo che sia stato in qualche modo registrato (elettronicamente, ma anche in fotografie, filmati, disegni, descrizioni verbali), ma in questo caso la registrazione deve essere presa in considerazione come filtro, tanto più significativo quanto più unilaterale. O si può pensare di estrarre da una serie di spettacoli il loro modello, come da una serie di locuzioni si deduce un certo sistema fonologico. Bisognerebbe che ci fosse un metodo per far questo, in considerazione della grande complessità dell’oggetto. Quanto allo spettacolo “in generale”, confesso di non capire cosa voglia dire quest’espressione, se non quell’autorizzazione a lavorare sulle ipotesi che talvolta sembra entrare nell’autocomprensione che gli storici hanno del loro lavoro.
LDT: Cruciale, evidentemente, è la questione della documentazione-registrazione. Come ha detto, ogni trasferimento audiovisivo dello spettacolo è una traduzione intersemiotica che comporta una trasmutazione. Ma ci sono traduzioni e traduzioni, più o meno fedeli. Credo che la fedeltà di una traduzione audiovisiva dipenda, se non da un’analisi previa dello spettacolo, analisi che a quanto pare non può darsi prima di disporre delle registrazioni, almeno da un’ipotesi analitica circa le sue caratteristiche fondamentali. Come si offre allo sguardo la performance? Dove induce lo spettatore a posizionarsi? Come si compone temporalmente? La mia idea è che la traduzione audiovisiva debba partire da domande come queste e da alcune risposte date come ipotesi, per sviluppare alla meglio all’interno del linguaggio audiovisivo che le è proprio – ed estremizzandole laddove sia il caso –, le caratteristiche del linguaggio teatrale ipotizzate prima, e da verificare poi. Così, spettacoli costruiti per i teatri all’italiana esigerebbero delle riprese più statiche e frontali rispetto a spettacoli caratterizzati da spazialità e temporalità più dinamiche e complesse, ad esempio, che richiederebbero un gioco audiovisivo più articolato, sia in sede di ripresa che di montaggio. Che ne pensa?
UV: Non mi sono mai occupato praticamente del problema di registrare spettacoli. Sul piano teorico è chiaro che ogni traduzione, ancor più se intersemiotica, non può pretendere di essere una resa integrale del suo testo di partenza, ma deve decidere quale sia il suo obiettivo. La resa dettagliata delle virtualità semantica di una scrittura in una lingua assai lontana sarà nel migliore dei casi "ruvida", come nella traduzioni della Bibbia di Erri di Luca, e nel peggiore dei casi perderà la forza poetica dell'originale; una resa che si voglia scorrevole e esteticamente adeguata dovrà tralasciare dettagli tutte le volte che l'originale non trova corrispondenze facili nella lingua di traduzione. Lo stesso, ovviamente, per l'audiovisivo. Una registrazione di studio sarà diversa da quella che punti a una spettacolarità cinematografica. La "fedeltà", se significa qualcosa, è un prerequisito etico della trascrizione, non una guida tecnica o metodologica.
LDT: Volevo ora chiederle qualcosa circa il rapporto tra la semiotica teatrale e le altre discipline teatrologiche. Lei sa che alcune delle proposte più recenti, di De Marinis e Pavis ad esempio, (5) hanno sottolineato l’esigenza di una stretta interdisciplinarietà. In che modo secondo lei si deve porre il semiologo rispetto allo studio sociologico dello spettacolo, o a quello storico, o ancora a quello antropologico-teatrale?
UV: La risposta è in un certo senso contenuta nelle mie affermazioni precedenti. La semiotica deve cercare di lavorare intorno al fatto teatrale in quanto tale, così com'è, non con una sua costruzione più o meno lambiccata o invece giustificata metodologicamente; ma non ha i mezzi per coglierlo che in parte, per i limiti intrinseci al suo stesso orientamento metodologico. Dunque non può che considerarsi, in questo e in altri campi come una disciplina parziale, che può fornire un utile contributo accanto ad altre discipline, metodologie, progetti di ricerca. Io non credo che ci sia una disciplina regina nello studio del teatro, perché la "teatrologia" è un progetto che non si è mai realizzato e la storia del teatro è soprattutto una cornice per interessi e metodi analitici assai diversi. Ritengo che a seconda di quale fenomeno teatrale si intenda studiare si debbano delineare progetti interdisciplinari diversi. E credo anche che, come accade per molti campi in cui è in gioco la presenza umana, l'etica e l'estetica, un punto centrale di riferimento non può che essere quel lavoro di autocoscienza rigorosa, anche se non scientifica, che la nostra cultura definisce filosofia.  
LDT: A questo proposito vorrei richiamare la sua attenzione su un problema posto di rado negli studi di semiotica teatrale. Riguarda la definizione di teatro e di teatralità. La tradizione del Novecento ci ha insegnato a pensare al teatro come la relazione in copresenza di almeno un attore e uno spettatore, ma alcune pratiche più recenti, che eliminano l’attore dalla scena, fanno pensare alla relatività e, appunto, alla storicità di quella concezione. Lei crede che sia utile tentare di dare una definizione generale di cosa sia il teatro? In questo senso crede che una filosofia del linguaggio teatrale, sostenuta da uno sguardo storico, sia di aiuto? O propende piuttosto per un approccio sociologico per cui, piuttosto che chiedersi cosa sia, sarebbe meglio chiedersi quando sia, teatro?
UV: Non credo che una definizione generale ed essenzialista sia utile. Il teatro è un certo fenomeno storico, che nella cultura europea viene definito nell'Atene fra il V e il IV secolo e ha un certo svolgimento, con pause, riprese, trasformazioni dell'apparato fisico e della convenzioni linguistiche che lo reggono, ma sempre con una sostanziale continuità. Chiamiamo teatro anche degli altri fenomeni che troviamo in culture diverse, certe volti derivanti storicamente dalla nostra tradizione culturale, com'è probabilmente il caso di diverse forme asiatiche, certe volte indipendenti da esso, ma apparse a un certo momento simili o assimilabili. Questo complesso è certamente contingente. Non c'è nessuna ragione perché "teatro" e "danza" debbano essere classificati come "essenze" diverse, e infatti in certi momenti essi si sovrappongano; come non c'è nessuna ragione perché si contrappongano sostanzialmente teatro e narrazione orale, teatro e clownerie, teatro e arte dei saltimbanchi, teatro e mimo, teatro e musica, teatro e performance artistica, eccetera eccetera. Io non cercherei definizioni generali, piuttosto noterei pertinenze, che via via sono diventate essenziali o sono state rifiutate: la compresenza di attori e spettatori, il carattere narrativo della performance, la mimesi (in quanto contrapposta alla diegesi) e così via. Insomma mi porrei il problema del perché certi fenomeni siano stati considerati teatro da certe popolazioni in certi momenti, o magari non lo siano stai da esse ma da altre sì. Una filosofia del teatro non può che partire, naturalmente, come sapeva benissimo già Aristotele, dalla specifiche convenzioni in uso.
LDT: Un’altra definizione non essenzialista ma diciamo fenomenologica mi sembra utile: quella che riguarda non tanto il teatro, quanto la teatralità. In quanto caratteristica propria non solo del linguaggio teatrale, potrebbe essere un concetto utile all’analisi semiotica più in generale, tanto più oggi che le metafore attinenti al campo semantico della spettacolarità vengono insistentemente proposte in vari ambiti, ad esempio lo studio del discorso politico. Lei sa che Barthes aveva definito la teatralità, in uno scritto su Baudelaire del ’54, come lo spettacolo meno il testo, come uno spessore di segni artificiali ecc., una definizione probabilmente dirompente all’epoca. (6) Lei crede che questa definizione sia superata? E nel caso qual è la direzione che bisognerebbe intraprendere per fornirne una più precisa, attuale e utile alla semiotica, alle semiotiche?
UV: Mi sembra che "teatralità" sia uno di quei termini impressionistici come "sentimento" o "spettacolarità" che fungono da ombrello un po' vago e convogliano soprattutto giudizi di valore. Francamente non ne sento il bisogno. Come non credo che il teatro si possa ridurre alla letteratura drammatica, così non trovo sensato togliere il testo dal teatro che lo usa (in realtà quasi tutto, abbiamo capito da tempo che l'idea che la sperimentazione fosse rifiuto del testo era un equivoco piuttosto grossolano, non solo nel caso di Grotowski e Barba, ma anche di Bob Wilson e perfino di Kantor e di molto "teatrodanza". Mi chiedo in generale il senso di un simile streaptease: se io togliessi le scene, lasciando il resto, che otterrei. E cosa vuol dire togliere il testo in uno spettacolo, che so, basato su Shakespeare? Devo immaginare gli attori silenziosi che gesticolano ugualmente, come fossero tutti afoni? Molte idee di Barthes sono provocazioni brillanti e intelligenti, ma non resistono a un'applicazione intellettualmente rigorosa. Questo mi sembra il caso qui.
LDT: Le proponevo l’idea di Barthes un po’ come una provocazione, soprattutto per sollecitarla a definire di nuovo il concetto, che mi sembra conservi un cero interesse: ridefinito più rigorosamente potrebbe contribuire all’approfondimento dell’analisi dei discorsi in genere (penso in particolare a quello politico, ma anche quotidiano: cfr. Goffman…). Le sottopongo una definizione di André Helbo tratta dal recente Le Théatre: texte au spectacle vivant?: “La théâtralité résulterait d’un discours installant le cadre de référence (permettant la construction d’une fiction) spectaculaire. Ce cadre fictionnel pourrait être conçu comme mise en œuvre de signaux déclenchant la construction de compétences (j’énonce un discours qui signale une situation de pratique à percevoir comme spectaculaire)”. (7) Che ne pensa?
UV:
Sarei tentato di rispondere con la vecchia battuta antiplatonica di Antistene: vedo i cavalli ma non vedo la cavallinità, vedo il teatro ma non vedo la teatralità. Se capisco la prosa piuttosto faticosa di Helbo, la teatralità si ridurrebbe a un segnale di genere. Come quando io leggo un libro con l'indicazione di "romanzo" mi aspetto il rispetto di certe convenzioni di genere (prosa e non poesia, vicende personali di esseri umani e non eroi o semidei, un certo grado di psicologia ecc.) e queste convinzioni si fanno più stringenti per certi sottogeneri (il poliziesco, il romanzo storico), segnalati da fatti espressivi più precisi (il colore giallo della copertina, il richiamo a un'epoca nel titolo o nell'illustrazione), così accadrebbe col teatro.
Quando entro in una sala a vedere una "commedia" devo aspettarmi certi personaggi; nel "musical" so che gli attori danzeranno e canteranno, contro ogni verisimiglianza; ho anche dei segnali per aspettarmi un certo trattamento delle immagini nell' "avanguardia" e un certo modo di usare il corpo nel "Terzo Teatro", eccetera eccetera. Un po' come so che se entro in un ristorante cinese, identificabile per insegna, lanternine rosse, nome poetico ecc., mi daranno le bacchette e non coltello e forchetta, potrò ordinare involtini primavera ma non un'amatriciana.
Interessante, senza dubbio. Da attribuire all'Enciclopedia piuttosto che al Dizionario, nei termini di Eco. (8) E molto variabile, dipendente dall'uso. Certamente, se entro in un teatro (edificio identificato da una facciata vagamente greca, o dal nome teatro sul frontone, o da altri segni ancora) ho il diritto di aspettarmi che ci sia almeno un attore in carne e ossa che "recita". Se proiettano un film o servono un brunch o celebrano una messa mi devono avvertire, se no ho il diritto di chiedere spiegazioni. Deve durare oggi due ore, massimo tre con un intervallo, non venti minuti o cinque ore con quattro intervalli, come ai tempi di Shakespeare. Mi siederò in "platea" e lo "spettacolo" avverrà sul "palco" o magari ormai si è anche capito che in alternativa potrò sedermi tutt'intorno a un periodo e che il lavoro si farà nell'area centrale iscritta in quel perimetro. Se questa è la teatralità sono d'accordo. C'è un sistema di aspettative e di competenze da parte del pubblico, molto variabile a seconda dei tempi e dei luoghi, e spesso suddiviso in sottogeneri. E' possibile rendere esplicite queste presupposizioni, ricostruendo i "frames" e gli "scripts" del teatro in una certa situazione. E' un tema interessante, lo ripeto, non difficile da studiare; ma non mi sembra determinante, anche perché ci sono delle invarianti: ci può essere lo stesso spettacolo eseguito nel teatro romano di Verona, in un ex cinema molto frontale, in un teatro all'italiana di provincia, con rituali parecchio diversi. A livello più generale, il testo e le storie sono invarianti ancora più forti: "Antigone" recitata in greco all'aperto e durante il giorno venticinque secoli fa ad Atene, con maschere e coro ha qualcosa a che fare con la versione che ne hanno dato i carcerati dentro la fortezza di Volterra ecc.
LDT: Vorrei venire ora a un concetto raramente applicato al teatro, quello di enunciazione. Secondo molti studiosi, (9) ci sono due indirizzi fondamentali e alternativi degli studi in quest’ambito: quello testuale-generativo e quello pragmatico. Secondo lei quale strada dovrebbe essere battuta di più per l’analisi dei testi teatrali? Glielo chiedo anche in considerazione di tre fatti: 1) ultimamente si è parlato (10) di enunciazione reincorporata, per cui – almeno nei casi del discorso dal vivo, ed è anche il caso del teatro – sarebbe opportuno addirittura ripensare l’inattingibilità del débrayage fondativo del discorso; 2) il testo è stato spesso pensato come chiuso, mentre le narrazioni teatrali – e non solo, come lei notava un paio di anni fa in quell’intervento che ho già richiamato sopra (11) – sono aperte, fruite in progress, in maniera sostanzialmente diversa da quelle cinematografiche o letterarie; 3) l’enunciazione non verbale non è stata praticamente mai studiata in semiotica teatrale.
UV:
Questo mi sembra l'argomento più importante fra quelli di cui abbiamo parlato finora. Dal punto di vista semiotico, mi pare, il problema del teatro è l'enunciazione. Per il suo carattere fisico oltre che verbale, come sottolinea lei. Ma anche per altre ragioni centrali: per esempio per il suo carattere finzionale e quello polifonico. Per quanto riguarda l'aspetto corporeo, non credo che sia necessario sottolineare che nella storia del teatro occidentale questo si sia caratterizzato sempre, anche quand'è stato "di parola" per l'importanza dell'enunciazione corporea, si trattasse di gestualità, di azioni fisiche, movimenti veri e propri. Tutte queste azioni erano e sono mostrate come elementi di una narrazione, il che determina un loro carattere evidente eununciativo (o "mostrativo", (12) se vogliamo); allo stesso tempo sono prodotti da un attore e quindi hanno un carattere enunciazionale (o "mostrazionale") che in certi casi, come nella gestualità ottocentesca degli attori che conosciamo dai manuali di recitazione può discostarsi parecchio dal "realismo" mostrativo. Ci sono molti esempi diversi di questa dialettica. Ricorderò la spiegazione molto nota che Grotowski diede della scena forse più celebre del suo teatro, l'agonia del Principe costante spiegando che l'aveva tratta da un'improvvisazione in cui l'attore Riszard Cieslak rievocava un episodio erotico. E' interessante che Grotowski è spesso inserito nella corrente di un teatro di identificazione dell'attore ("santo"); naturalmente sarebbe molto facile ricavare esempi dall'altro filone dell'allontanamento fra attore e personaggio, dal litigio nuziale raccontato nel Paradosso di Diderot alle storie di Mei Lanfang e di Brecht, che lei ha studiato. (13)
Ma tutti questi mostrano anche che il realismo mostrativo, in parte inevitabile nel nostro linguaggio teatrale sia pur sotto straniamento è ovviamente sempre sotto débrayage, allude a un non qui, a un non ora e un non io. Problematico non è il débrayage, che agisce pure col trucco, la barriera dello spazio scenico, i costumi ecc. anche quando un attore in scena pretenda di essere se stesso alla maniera degli affabulatori italiani come Paolini; è semmai il successivo embrayage, che può venir suggerito proprio dalla potenza della recitazione. Non si tratta di un débrayage assente, ma di un embrayage molto fortemente suggerito e attribuito. Vale la pena di ricordare l'esclamazione che Shakespeare mette in bocca ad Amleto (a. II, sc. II): "Non è mostruoso che quest’attore qui solo in una finzione, sognando la sua passione, possa forzare l’anima a un’immagine tanto da averne il viso tutto scolorato, le lacrime agli occhi, la pazzia nell’aspetto, la voce rotta, e ogni funzione tesa a dare forma a un’idea? E tutto ciò per niente! Per Ecuba! Ma chi è Ecuba per lui, o lui per Ecuba da piangere per lei?" Il paradosso sta nel fatto che il pianto dell'attore (livello mostrazionale, in realtà si tratta naturalmente di una mostrazione mostrata) appaia naturalmente valida a livello mostrativo ("per Ecuba"); ma Shakespeare sa bene che si tratta di un "forzare l'anima", una produzione segnica, avvenga per via di "identificazione" o di "scrittura del corpo". Qui abbiamo dunque  un'interessantissima interferenza fra i problemi di enunciazione e quelli della dimensione finzionale. Chi enuncia (o mostra se stesso) finge di farlo per i propri compagni con cui deve dialogare o interagire: i registi sanno bene quanto è difficile far sì che gli attori si guardino per davvero, come Eugenio Barba non si stanca di ripetere ai suoi allievi; del resto basta pensare alla scrittura delle antiche parti del testo drammatico che venivano distribuite agli attori del teatro all'antica italiana: ognuno aveva solo le proprie battute, non quelle dell'interlocutore, con la sola aggiunta dell'attacco. Finge dunque l'attore di parlare o agire all'altro, ma in realtà parla e agisce al pubblico, che deve fingere di non vedere e addirittura di ignorare – salvo fermarsi all'applauso a scena aperta. Moltissimi fatti richiamano questa doppia enunciazione, dalle scene dipinte solo finché siano visibili al pubblico che è assente all'azione in esse ambientate, alla prossemica e all'orientamento degli attori, fino ai paradossi del canto e della danza in scena (si pensi alla doppia orchestra della ventunesima scena del primo atto del Don Giovanni, splendido gioco fra livello mostrazionale dell'orchestra nella buca  e mostrativo di quella in scena).
Ci sarebbe molto da dire su questi temi, ma per non allungare troppo la risposta passo al terzo punto. Noi oggi siamo abituati alla polifonia enunciativa del cinema, ma questi la eredita direttamente dal teatro, che è stata la sola convenzione per duemilacinquecento anni di storia occidentale a consentire piena autonomia di enunciazione ai personaggi, lasciando parlare non solo Antigone ma anche Creonte (e Ismene e Emone e Tiresia...), non solo Oreste ma anche Clitemnestra, Egisto, Agamennone, Cassandra... Non a caso la storia della creazione del teatro greco passa per la moltiplicazione di attori e personaggi. L'enunciazione/mostrazione plurima o polifonica si distacca dalla verità diegetica, mostra con grande libertà l'aspetto agonistico della narrazione, insomma cambia completamente le regole del gioco narrativo. L'oggetto di valore è moltiplicato anch'esso, fra ciò che è al centro dell'azione mostrata e l'approvazione del pubblico che è in gioco nell'azione mostrante.
LDT: Visto che ha toccato il tema a me caro dell’estraniamento in rapporto all’enunciazione-mostrazione, le propongo l’idea che il primo sia un procedimento o un dispositivo testuale (e non solo un’esperienza, un “Effekt” sullo spettatore che sarebbe di pertinenza psicologica o estetologica) studiabile semioticamente come variamente collocato e generato, nel testo, a seconda, tra le altre cose, delle dinamiche enunciative/enunciazionali in gioco. Dal momento che esistono vari gradi di débrayage ed embrayage, dal momento che da un livello enuncia-zionale/-tivo si può andare al precedente o al successivo (ed es., da teatro a meta-teatro, da meta-teatro a meta-meta-teatro ecc.), e dal momento che questi andate e ritorni possono essere più o meno bruschi, più o meno freddi, più o meno ironici ecc., gli estraniamenti potrebbero essere di volta in volta variamenti misurati (quantificati) e tipizzati (qualificati). La stessa interruzione epica, a mio parere, è distinguibile dall’a parte classico per durata temporale (quantità) e soprattutto perché nella prima è l’io-qui-ora dell’attore a riemergere, mentre nel secondo resta l’io-qui-ora del personaggio (qualità), con risultati opposti per la fruizione: nel primo caso de-lusivo, nel secondo in-lusivo. Sono poi persuaso che l’enunciazione sia utile per lo studio di altre categorie teatrali cruciali, come l’illusione e la finzione appunto, e soprattutto quella più studiata in altri campi, ma credo promettente in semiotica, di empatia, a livello tanto mostrativo (empatia tra personaggi, empatia tra attori-personaggi e personaggi), che mostrazionale (empatia, diciamo, tra scena e sala). Che ne pensa?
UV:
Sono d'accordo che lo straniamento sia un dispositivo testuale complesso, che viene realizzato con strumenti diversi: non solo le didascalie visibili al pubblico o lo stile recitativo costruito contro l'identificazione, ma anche il testo stesso ne è influenzato. Il meccanismo del resto si trova ai diversi livelli di débrayage e, se funziona agisce isotopicamente su tutto il testo, alterando valorizzazioni, attorializzazioni, ruoli attanziali e tematici, contratti e sanzioni. Dal punto di vista semiotico ne parlerei come di una convenzione di genere, con un impatto così profondo come quello della musica nel teatro d'opera. Non rifiuterei con questo di parlarne in termini di effetto, non solo per rispetto alla indicazioni di Brecht. Gli effetti di senso dei testi non sono (solo) problemi estetici o psicologici, ma innanzitutto semiotici. La semiotica ha il compito di studiare il modo in cui certi dispositivi sul piano dell'espressione producano modificazioni del contenuto, in particolare delle sue dimensioni modali e passionali. Quello di cui stiamo parlando mi sembra un caso tipico. Aggiungerei che è in gioco qui quel delicato equilibrio che fonda la finzione teatrale, costituita sì da atti di persone vive e presenti che vanno comprese più o meno secondo le logiche che ci permettono di attribuire senso al comportamento altrui nella vita quotidiana, ma che però non fanno quel che sembrano fare, ma solo lo mostrano, con  efficacia assai particolare. Uno spettatore dell'Otello che chiamasse la polizia dopo aver assistito alla morte dei Desdemona sarebbe un fallimento per lo spettacolo come uno che si disinteressasse del fatto, "perché non è vero che la ragazza è morta". La sospensione dell'incredulità è sempre parziale, anche perché il teatro si trova sempre per statuto nella nostra società a esercitare quel che Jakobson chiamava "funzione poetica", cioè lavora per attirare l'attenzione su come mostra la sua storia. Questa dialettica può essere sviluppata in varie direzioni, oltre allo straniamento: per esempio sottolineando l'empatia, oppure la dimensione onirica, l'appartenenza di quel che vien fatto alla convenzione teatrale (la commedia dell'arte o la clownerie rifatte oggi) ecc. Una ricerca specificamente semiotica sul teatro deve probabilmente partire oggi da queste forma dell'enunciazione e non dai singoli "codici" che sono messi in gioco ai vari livelli del testo.
LDT: Data l’importanza che il corpo ha in teatro, tutte le dinamiche enunciative di cui parliamo devono essere specificate in relazione a questa corporeità determinante? Se ha senso, oggi, portare l’attenzione alla centralità del corpo in teatro, quale apporto possono dare alla semiotica teatrale le neuroscienze (cfr. i neuroni specchio), le scienze cognitive e l’antropologia teatrale? A quest’ultima, in particolare, lei si richiama in alcuni suoi testi recenti per la nozione di pre-espressività(14): in che modo la si può fare interagire con il paradigma semiotico in cui fondamentale è il significante, cioè il piano dell' espressione?
UV:
"Pre-espressività" è un concetto coniato da Eugenio Barba. Si tratta della forza di attrazione che l'attore deve raggiungere prima di rappresentare alcunché. Si tratta di un prima logico al momento dello spettacolo, ma anche di un prima cronologico costruito nell'allenamento. Barba indica anche alcune ragioni di questa pre-espressività, come l'"equilibrio di lusso" che spesso è usato nella tecnica dello spettacolo (per esempio nelle "punte" del balletto europeo, o nella particolare posizione dei piedi nel Kathakali, nel Noh e nel teatro-danza balinese) o i "sats", i punti di disgiunzione/disequilibrio che costellano la partitura fisica dei suoi attori. Ma è evidente che esiste una pre-espressività anche degli animali (un cavallo che si prepara alla corsa, un gatto in agguato, un falco immobile in aria controvento) e perfino in alberi o elementi naturali come rocce imponenti o vallette alberate, che naturalmente non "vogliono" dire nulla ma attirano il nostro sguardo. Per evitare ogni tentazione di un linguaggio misticheggiante per esempio intorno all'"energia", possiamo parlare di "salienza percettiva". E' evidente che i nostri organi di senso sono attratti da fenomeni di soglia, di incertezza, ma anche da forme ben definite e chiuse o da ritorni, "rime" e altre isotopie dell'espressione. Chi si occupa di grafica e comunicazione visiva conosce bene la potenza di certe configurazioni, come l'immagine centrata della bandiera giapponese o la contrapposizione di colori complementari. Siamo nell'ambito dell'organizzazione della sostanza dell'espressione, se vogliamo usare questa terminologia, prima che essa venga interpretata semanticamente. E' il livello che Greimas, per quanto riguarda l'organizzazione delle immagini, chiama "plastico" (15) e che certamente è in grado di costituire dei "formanti" che potranno poi (logicamente poi) essere interpretati o non esserlo, come accade nella pittura che si usa chiamare impropriamente "astratta". Questa stessa organizzazione si ritrova anche nei linguaggi della scena, per esempio in quella che talvolta si chiama "danza pura" (si tratti di Orissi o di danza occidentale contemporanea non semantica come quelle di Merce Cunningham o Carolyn Carlson).
E' chiaro che in queste forme è in gioco il corpo dell'attore; o forse piuttosto l'attore nella sua corporeità. E qui si apre una molteplicità di cammini di studio, dalla pura fisiologia e biomeccanica del gesto teatrale alle psicotecniche che l'attore può usare per ottenere certe azioni fisiche (e viceversa: azioni usate per raggiungere stati mentali), al modo in cui lo spettatore interpreta e "consuma" esteticamente questi movimenti, dando loro un contenuto d'azione o psicologico, fino all'idea corrente nella semiotica francese degli ultimi decenni (16), che si potrebbero individuare diversi livelli di corporeità, sulla scorta delle ricerche fenomenologiche e alle ricerche etnografiche sui legami fra "linguaggi dei gesti" e culture. Tutte queste linee e altre ancora sono senza dubbio legittime e diventano più o meno utili e importanti a seconda dei fenomeni che si vogliono affrontare. Chiaramente la lettura di uno spettacolo di Balanchine, di una gara di ginnastica, di un pezzo teatrale di Kantor, di un monologo di Paolini, di un pezzo di mimo alla Marceau, di uno spettacolo di Barba, di uno di Kabuki e di uno di Albertazzi richiedono strumenti assai diversi. Si possono individuare dei principi generali, come la pre-espressività di cui ho appena parlato, ma le ricerche in questa direzione che vanno sotto il nome di antropologia teatrale, cui ho partecipato a suo tempo, non mi sembrano aver prodotto grandi strumenti di analisi generalizzabili. Resto convinto insomma che non ci sia quasi mai un autonomo livello di senso o di comunicazione del "corpo" rilevabile in generale, ma che i diversi tipi di spettacoli rispondano a progetti di comunicazione diversi (con diverse pretese finzionali, realistiche, magiche, religiose, politiche, pornografiche ecc.), cui corrispondano diverse forma di enunciazione, narrazione e di interpellazione, diverse possibilità per lo spettatore di partecipazione, sutura, condivisione, ammirazione estetica, apprendimento ecc., e con differenti condizionamenti tecnici, ostacoli e ausili materiali, che vadano considerate caso per caso o se si vuole genere (genere) per genere.
LDT: Fatta salva questa necessità di legare il livello d’analisi corporea agli altri, ci sono ancora alcuni concetti dell’antropologia teatrale che vorrei citare: innanzitutto quello di organicità, cioè l’efficacia dell’azione che fa sì che lo spettatore creda, anche se non si tratta di un’azione verosimile. La credibilità di un’azione dipende dall’effetto di coerenza suscitato nello spettatore e dalla convinzione delle parti del corpo dell’attore coinvolte (specie le estremità), non dalla sua rispondenza a referenti naturali. Da semiologo sono colpito per l’attenzione che viene riservata, in questo caso, alla percezione spettatoriale piuttosto che all’intenzione comunicativa di partenza, e alla coerenza piuttosto che alla fedeltà rappresentativa; non le pare che così si indichino dei concreti strumenti d’analisi testuale per i fenomeni, cruciali in semiotica (teatrale), dell’illusione e del credere?
UV:
Ho dei dubbi su questo discorso. Non mi è chiaro che cosa voglia dire che lo spettatore "creda" a uno spettacolo. Deve credere alla storia (livello diegetico, enunciativo o mostrativo)? Sappiamo che quel che accade è qualcosa di molto più debole, una "sospensione dell'incredulità" ben delimitata spazialmente e temporalmente. Deve credere allora al fatto della performance (livello comunicativo o enunciazionale o mostrazionale)? Questo è scontato: io spettatore sono davvero di fronte a delle persone vestite così e così, che dicono certe parole, compiano certi atti ecc. Non ho bisogno di crederlo, lo so. Devo allora credere alla "verità" di certe azioni isolate? Posto che la verità non è diegetica e che quella comunicativa è scontata, che cos'è questa verità dell'azione? Non siamo a una definizione tautologica dell'organicità o dell'efficacia?
Ancora meno chiara è la proposta della "convinzione delle parti del corpo". Non credo che una mano possa essere convinta. Roland Barthes, in un celebre passaggio, parlava di un corpo convinto, se non sbaglio, ma è evidente che si tratta di una metafora. Solo una persona, un essere umano completo può essere convinto, e questo accade certamente a livello mentale. Del resto, i dilettanti mostrano che la convinzione non è sufficiente: basta ricordare la celebre scena della recita degli artigiani nel Sogno di Shakespeare.
Nella sua domanda sono messi in gioco altri due punti molto complessi: i "referenti naturali" e l'"intenzione". In una risposta del genere posso solo passarvi di sfuggita. Non credo che vi sia una cosa come il "referente naturale" di un comportamento (giacché questo è in definitiva la recitazione). Al di là di tutti i complessi discorsi generali sulla referenza e l'iconismo, che hanno ormai una lunga storia, bisogna considerare come non solo i gesti siano in buona parte evidentemente arbitrari (si pensi al gesto dell'ombrello per mandare qualcuno al diavolo, il dito indice steso americano che altrove vuol dire uno, lo stesso indice ruotato vicino alla tempia in Italia per  indicare la follia); ma anche le azioni vere e proprie dipendono fortemente da un contesto sociale presupposto. L'azione di girare un volante non aveva il senso di viaggiare fino a cent'anni fa e così il mignolo e il pollice tesi di telefonare. Si aggiunga che il mimo ci ha insegnato che spesso per far vivere dei significati fisici bisogna fare l'azione opposta (inarcarsi come se si tirasse per indicare che si spinge un ostacolo pesante ecc.). Insomma la comunicazione corporea è fortemente contestuale e stilizzata sempre e il teatro non fa eccezione. Basta provare a seguire una danza indiana Kathakali o un brano di Noh, entrambi molto motivati a descrivere una referenza, per vedere che il tasso di arbitrarietà è alto. Quel che conta per permettere alle lingue gestuali sconosciute di passare non è una "convinzione" ma una precisione e una salienza percettiva, cui abbiamo già accennato, e di cui si può aggiungere che siano il frutto di un'evoluzione culturale. Gli attori hanno capito gradualmente che trucchi, maschere, gesti, azioni, toni di voce "funzionano" e li replicano. La coerenza (o più ampiamente l'isotopia) è sempre un fondamentale principio di rafforzamento del senso, moderato solo dal suo opposto, l'ambiguità o la disgiunzione isotopica, che richiama l'attenzione.
Quanto all'intenzione, nel senso del desiderio soggettivo di chi comunica, un punto metodologico fondamentale della semiotica impone di ignorarlo. E' comunicato (costituisce il senso) ciò che arriva allo spettatore/lettore, non ciò che chi scrive/parla/agisce intende. Nel caso della comunicazione sincrona (orale) questa intenzione può essere fatta valere, ma è evidente che il teatro, pur essendo materialmente orale, condivide molte modalità comunicative della scrittura (comunicazione asincrona) e quindi è abbandonato all'interpretazione dello spettatore. Non si può chiedere ad Amleto o a Bruno Ganz che lo interpreta che sentimenti intenda esattamente farci intendere a proposito di Ofelia.  Dunque è lo spettatore che legge il suo comportamento e non solo lo interpreta, ma lo coglie con più o meno forza, lo nota o lo ignora.
LDT: A proposito del primo punto, è chiaramente meglio parlare di “mondo naturale” (Greimas), che  – diversamente dalla “natura” – è già culturalizzato. (17) Ma il problema di fondo mi pare che resti: un attore risulta più o meno credibile non a seconda di ciò che rappresenta (del mondo naturale e non della natura, d’accordo), bensì a seconda della sua capacità di convincere uno spettatore, il quale può fidarsi molto di più di un mimo astratto che di un attore “naturalistico”. Il convincimento di cui parla l’antropologia teatrale è dunque un fenomeno attinente più alla percezione della presenza scenica e al livello mostrazionale-enunciazionale, che non al rappresentato-enunciato. Con questo, eccomi all’altro concetto chiave in teoria e in pratica teatrali, che lei già tanti anni fa (nell’articolo Il teatro e i suoi segni, 1979) (18) poneva all’attenzione degli studiosi come centrale in semiotica teatrale: la “presenza strategica”. Lo ritiene ancora cruciale o lo studio delle salienze percettive è qualcosa, ma non mi pare, di più urgente e diverso? A giudicare dai suoi riferimenti in quella sede, allora non esistevano grossi appigli teorici, a parte le teorie classiche del teatro e uno scritto di Gombrich sull’empatia. E’ cambiato qualcosa oggi? A quali concetti, modelli e orientamenti la semiotica teatrale può e deve guardare per analizzare questo fenomeno apparentemente ineffabile?
UV:
Mi permetta innanzitutto di mettere in discussione categorie come "credibilità", "convinzione", "fiducia", che veicolano implicitamente una teoria già naturalistica. Se l'attore "comunicasse" o "mostrasse" o "narrasse" "si esprimesse", saremmo in un mondo completamente diverso; se invece dovesse "sedurre", "affascinare", attrarre" i riferimenti sarebbero ancora diversi. E così ancora se "danzasse", "mostrasse la sua arte", "fiorisse" "componesse un percorso", "meravigliasse", "proponesse enigmi",  oppure "guidasse" "rappresentasse il suo pubblico" (di fronte a poteri superiori), lo "animasse", "si offrisse" (in sacrificio, agli dei, al pubblico ecc.), portasse l'interprete a "vedere" invece di "essere visto" o infine "facesse passare il tempo", "intrattenesse", "svagasse". Sono tutte immagini che sono state più o meno prospettate qua e là nella storia e nella geografia della scena e anche obiettivi che sono stati diversamente praticati, a teatro o in affinità più o meno affini (circo e prestigitazione, liturgia e orazione politica, cantastorie e propaganda, ascetismo e strip-tease, ecc.). Perché fermarsi all'area della convinzione/fiducia/credibilità? Perché non interrogarsi sui diversi livelli della seduzione (fisica, psicologica, sessuale, spirituale) o della comicità, per parlare delle cose più comuni?
Tutti quelli che ho indicato e molti altri ancora sono effetti di senso, cioè implicano atti semiotici, che possono essere compresi solamente a partire dal loro progetto comunicativo. Io oggi francamente non ricordo cosa scrissi in quell'articolo di trent'anni fa, ma in questo momento interpreterei la nozione di strategia in questo senso, come un progetto che si articola e finalizza le proprie caratteristiche in vista di ottenere certi effetti. Usando naturalmente ogni sorta di mezzi, artificiali e "naturali", e fra essi certe tecniche del corpo capaci di modificare opportunamente la "presenza".
LDT: Vorrei concludere questa intervista con la questione del rapporto tra semiotica e semiotica teatrale. Quest’ultima è stata quasi sempre concepita come luogo di applicazione analitica della semiotica, o come un tema tra altri di pertinenza semiotica, che non ha poi dato molto all’elaborazione teorica più generale. Ci sono tuttavia dei concetti che la riflessione teorica sul teatro è assai adatta ad approfondire: corpo, azione, gesto, finzione, menzogna, illusione ecc. Alcuni di questi concetti sono al centro dell’attuale dibattito semiotico, che però paradossalmente molto di rado chiama in causa pratiche, testi o anche solo esempi tratti dal teatro. Crede che la semiotica generale possa venire arricchita da una riflessione teorica che li affronti nell’ambito del dominio semiotico-teatrale?
UV:
Con questa domanda torniamo al tema iniziale del distacco fra semiotica e teatro. E' un dato di fatto che i semiotici hanno raramente sviluppato le loro riflessioni a partire dal teatro, in particolare negli ultimi decenni in cui la semiotica ha espresso una "vocazione scientifica" anziché "critica" e si è sviluppata soprattutto come semiotica del testo. La ragione di questo fatto sta forse nel disinteresse personale dei più eminenti semiotici per quest'arte, ma probabilmente anche in una certa incompatibilità dell'impostazione greimasiana con le problematiche del linguaggio dei media (pensi a come è stata gradualmente abbandonata la semiotica del cinema, o quelle dell'architettura e della musica, che erano importanti fino agli anni Settanta; o a quanto poco si è fatto per il giornalismo e per la fotografia). Specificamente è chiaro che i problemi più interessanti di una semiotica teatrale riguardano soprattutto il livello della manifestazione: non esiste probabilmente un’autonoma narratività teatrale; ma certamente le questioni di illusione, corpo, comunicazione intradiegetica su cui ci siamo un po' intrattenuti sono importanti e appartengono tutti alla manifestazione. Il teatro è molto interessante perché consiste in un dispositivo che comunica mostrando una comunicazione, o almeno delle azioni il cui "obiettivo naturale" è neutralizzato (niente pistole che sparano "davvero" in scena o spade che tagliano, e di solito nemmeno cibi "veri" nei piatti) e sostituito da un obiettivo secondo che consiste nel mostrare le azioni che non vengono fatte "davvero". Ma questo secondo obiettivo è "davvero" realizzato, più o meno bene, in maniera più o meno originale e illusionistico, da gente viva, in carne ed ossa, che lavora davanti al pubblico: non importa a noi ora se come "atleta del cuore" o del corpo.
Questa presenza interpella e rispecchia il suo pubblico più che in altre arti per via non solo della simultaneità e dell'omomatericità fra azione e percezione, ma anche perché si viene a creare una "sfera discorsiva" condivisa, anche se bloccata dal débrayage. Attori e pubblico sono esseri umani gli uni di fronte agli altri, sia pure separati dalla barriera della finzione; e se le azioni e le passioni, "i casi" (Aristotele) che capitano agli attori non fossero giudicati rilevanti per il pubblico e dal pubblico, se non rispecchiassero in qualche misura i loro "casi", il loro agire e patire, l'evento teatrale si svuoterebbe (un po' come di fatto è accaduto negli ultimi due o tre decenni). La semantica del teatro è un ritratto della vita sociale o morale del suo pubblico, e per questo la sua storia è così affascinante, ben al di là della ricostruzione della vita materiale degli artisti e dell'ambiente teatrale, che va di moda adesso.
Ma questa presenza "senza effetto" mette in discussione anche la nozione comune di soggettività, di azione, di destino – come sapeva bene quel grande filosofo del teatro che fu Carmelo Bene. Ciò che nella vita comune sembra intrecciato e nella narrativa illustrato solo da un lato (l'intreccio fra ruoli e passioni, responsabilità e libertà, azioni e motivazioni) è portato dal teatro, che lo sappia o no, che lo voglia o no, alla sua esplosiva contraddizione.
Per queste ragioni la semiotica teatrale potrebbe essere interessante e arricchire molto la problematica della disciplina in generale. Ma è chiaro che resta ancora quasi tutta da fare.


999

 

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(1)  L’intervista risale all’autunno 2009. Tutte le note sono a cura dell’intervistatore.

(2)  Cfr. Ugo Volli, E’ possibile una semiotica dell’esperienza?, in Narrazione ed esperienza. Intorno a una semiotica della vita quotidiana, a cura di Gianfranco Marrone, Nicola Dusi, Giorgio Lo Feudo, Meltemi, Roma 2007.

(3)  Cfr. naturalmente Roman Jakobson, Aspetti linguistici della traduzione, in Id., Saggi di linguistica generale, Feltrinelli, Milano 1966.

(4)   Fu lo stesso Ugo Volli, negli anni Ottanta, a definire gli studiosi sostenitori dello spettacolo come oggetto centrale dello studio semiotico-teatrale “spettacolisti”, contro i “drammaturgisti” sostenitori del testo drammatico.

(5)  Cfr. Marco De Marinis, Capire il teatro. Lineamenti di una nuova teatrologia, Bulzoni, Roma 1988 e Patrice Pavis, L’analisi degli spettacoli. Teatro, mimo, danza, teatro-danza, Lindau, Torino 2004 (ed. or. francese del 1996)

(6)  Cfr. Roland Barthes, Il teatro di Baudelaire, in Id., Saggi critici, Einaudi, Torino 2002.

(7)  Cfr. André Helbo, Le Théâtre: texte au spectacle vivant?, Klincksieck, Paris 2007.

(8)  Cfr. naturalmente Umberto Eco, Semiotica e filosofia del linguaggio, Einaudi, Torino 1984.

(9)  Cfr. almeno Giovanni Manetti, L’enunciazione. Dalla svolta comunicativa ai nuovi media, Mondadori Università, Milano 2008.

(10) Cfr. Patrizia Violi, Enunciazione testualizzata, enunciazione vocalizzata. Arti del dire e semiotica dell’oralità, pubblicata su «E/C», rivista on line dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici, nel 2006.

(11) Cfr. nota 2.

(12) Per la nozione di mostrazione qui usata da Volli nel senso di enunciaizone audiovisiva, cfr. André Gaudréault, Dal letterario al filmico. Sistema del racconto, Lindau, Torino 2007.

(13) Volli si riferisce qui al mio «Ostrananje»/«Verfremdung». Uno studio comparativo, in «Teatro e storia», n.29.

(14) Volli è forse l’unico nell’ambito non solo della semiotica ma più in generale delle scienze della comunicazione a far riferimento alla nozione elaborata da Barba. Cfr. ad esempio il suo Il nuovo libro della comunicazione, Il Saggiatore, Milano 2007.

(15) Cfr. Algirdas. J. Greimas, Semiotica figurativa e semiotica plastica, in Semiotica in nuce, a cura di Gianfranco Marrone e Paolo Fabbri, Meltemi, Roma 2000-2001.

(16) Cfr. soprattutto Jaques Fontanille, Figure del corpo, Meltemi, Roma 2004.

(17) Cfr. la voce “mondo naturale” in Algirdas J. Greimas, Joseph Courtés, Semiotica. Dizionario ragionato della teoria del linguaggio, Mondadori, Milano 2007.

(18) In «Alfabeta», n. 3-4, 1979, pp.15-16.



 
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