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Scena Verticale U TINGIUTU un Aiace di Calabria Milano // 25 > 30 gennaio 2010 h. 21 Testo finalista al Premio Riccione per il Teatro 2009 Un clan dell’onorata società calabrese, alla morte del boss Achille, giudica Ulisse, e non Aiace, l’affiliato più valoroso e gli attribuisce il potere del capobastone morto. Aiace, offeso nel suo onore, progetta di sterminare i suoi giudici e di torturare il rivale. Durante la tortura Aiace dà sfogo alla propria rabbia e al proprio dolore; sa che da quel momento in poi è diventato nu tingiutu, per gli uomini della cosca, uno tinto col carbone, designato a morire, condannato per lo “sgarro” fatto. Per tutti, anche per se stesso, è un cadavere che cammina. In una agenzia di pompe funebri, quartier generale della cosca e funesto scenario di soprusi e gerarchie crudeli, si svolge tutta l’azione. Dario De Luca (autore, regista e interprete del lavoro) racconta la sua mala-Calabria usando gli eroi greci. La tragedia antica gli offre la “vista” necessaria per spiegare e interpretare facce, affari, ambizioni, destini e pance di questi malacarne che hanno trovato fortuna e identità nell’altra legge. Senza redimerli naturalmente, ma portando anche alla luce come un certo retroterra possa indirizzare verso delle scelte non lecite. Perché la maledizione in Calabria si chiama “contiguità”: quella cosa terribile che costringe onesti e disonesti, mafiosi e non mafiosi a vivere fianco a fianco, a respirare la stessa aria, a frequentare gli stessi luoghi. E questa ignara mancanza di libero arbitrio pone drammaticamente l’attenzione sull’importanza di una educazione anti-mafiosa. Per raccontare questa terra dalle mille contraddizioni, questi dubbi, personali, enormi, sconvenienti, che tengono viva la riflessione sul nostro operato quotidiano, De Luca sceglie di utilizzare una parlata viva, misteriosa e dialettale. Una parlata fatta di allusioni, di espressioni gergali, di detto e non detto, di segni e occhiate che, inaspettatamente, insieme agli altri attori ha ritrovato viva dentro di sé. Colpa, forse, di quella stessa maledetta “contiguità”.
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