L’Odissea al presente di César Brie Ecco un focus su uno spettacolo in programma nella stagione del Centro La Soffitta. Visto a Casalecchio (BO) Teatro Testoni il 7 Aprile 2009 Laura Budriesi
Perché ancora una volta l’Odissea? A narrarci la vicenda del grande ritorno di Ulisse alla sua terra natale è César Brie, regista teatrale e cinematografico, che ha contemporaneamente firmato il documentario “Humillados y offendidos”, potente atto di accusa contro le violenze di cui sono vittima i campesinos, in terra boliviana. Quindi piuttosto dovremmo chiederci chi è l’Ulisse di César Brie.
Se è vero che i grandi testi possiedono un magma primordiale, una potenza intrinseca, immagini, come sosteneva Artaud, “capaci di parlare all’inconscio”, miti “in grado di esprimere la vita nel suo aspetto universale”, è con la forza di un testo che ancora oggi dopo millenni ci sa parlare, che Brie ha deciso di rivolgersi al pubblico del mondo e raccontare un’altra storia di Ulisse. Ulisse è l’eroe che non riesce a tornare. La collera del dio Poseidone fa in modo che per dieci anni dalla fine della guerra di Troia, il vento non sia mai propizio alla sua nave. L’agognata terra natale, Itaca, che pare irraggiungibile, è più volte invocata nel corso delle spettacolo. Essa si trasforma però, per bocca degli stessi personaggi, dall’Itaca dell’eroe omerico al Guatemala, al Brasile, al Messico, al Marocco del migrante di oggi. Il Polifemo di questi uomini è quindi la miseria, la guerra, dalla quale sono costretti a fuggire. A questo tema Brie aveva recentemente dedicato anche “Il cielo degli altri”, realizzato in Italia, dove ci raccontava i cieli di vite diverse: Hassan che scappa dall' Iraq, Kirom dall' Albania, Draid che viene dal Libano e Ahmed dall' Algeria. Anch’esso ci parlava di solitudine, di perdita della propria patria. Odisseo, nome greco di Ulisse, deriva dal verbo “odissomai” che significa “odiare”, ma anche “essere odiati”. In questa dialettica dell’odiare si giocano spesso i rapporti del migrante con la nuova patria. Lo stesso César Brie è un esule, felice però, dalla propria terra. Nel 1974 è stato infatti costretto a lasciare l’Argentina a causa dei prodromi della dittatura militare, la guerra sporca di Videla. Da allora ha viaggiato attraverso l’Italia, la Danimarca, dove ha lavorato per vari anni con l’Odin Teatret di Eugenio Barba, per poi decidere “di prendere uno dei passaporti con meno valore del mondo, quello boliviano”. Il regista ramingo ha piacere nel dichiarare: “Io sono una di quelle persone che dice di essere grata all'esilio. Sebbene sia stato molto duro perché certe ferite non si rimargineranno mai e certi dolori ti restano dentro, mi ha permesso di conoscere il mondo e le persone. Il teatro è il luogo per eccellenza dove si conosce ‘l'altro’”. In Bolivia, il paese dalla maggioranza indigena che ha eletto un presidente indigeno, Evo Morales, ha deciso di creare un teatro-villaggio, il Teatro de los Andes, per dare voce a un teatro che sia testimone dei tempi e – probabilmente un lascito del lungo con l’Odin Teatret- a “un attore poeta, nel senso etimologico del termine: colui che crea e fa”. Brie parla a questo proposito di un lungo lavoro di composizione e improvvisazione, un allenamento fisico e vocale quotidiano che svolge con gli attori. Questo non può non ricordare come l’Odin Teatret, con cui il regista argentino ha lavorato per nove anni, non sia stato negli anni soltanto un “teatro di spettacoli”, ma soprattutto un “laboratorio”, in cui l’attore si esercita quotidianamente, al di là della produzione spettacolare. Nell’Odissea di Brie troviamo spesso confermati questi principi. Il momento in cui Telemaco deve essere convinto ad intraprendere il suo personale nostos, alla ricerca del padre Ulisse, è reso scenicamente da un’azione dinamica: altri due attori tendono un lungo pezzo di stoffa con cui abbrancano Telemaco, che cerca di fuggire, più e più volte. Lo psicologismo superfluo è sostituito da un esercizio di attore, dal training individuale e di gruppo. Rileggere il mito attraverso il presente significa anche presentare Polifemo come un membro di una gang criminale, nelle cui mani spesso finiscono gli immigrati, o Circe come una maga televisiva, che risponde al telefono. Attraverso il medesimo stratagemma del cellulare è risolto il celebre colloquio in cui gli dei dell’Olimpo pensano al destino di Ulisse e decidono che sia giunto per lui il momento di lasciare l’isola di Ogigia e la ninfa Calipso: Zeus telefona al cellulare della ninfa e le comunica la decisione degli dei. Il tono di queste scene è piuttosto divertito, molto diverso da momenti forti e sublimi come la discesa nell’Ade o il ricongiungimento con il vecchio padre, Laerte. È sempre l’uomo, nelle sue svariate sfaccettature, ad essere protagonista di questo teatro. La scenografia, costituita da un insieme di canne che cadono sul palcoscenico come un sistema quinte aeree,continuamente plasmabili nelle forme a seconda delle esigenze particolari, è assolutamente in linea con il modello di attore-creatore che Brie ha deciso per il suo teatro. L’attore di Brie, fa parte di un teatro che il regista ha scelto essere di professionisti secondo l’antico senso del termine, di uomini cioè che professino le proprie motivazioni, le confessino al pubblico. “Un giorno io non ci sarò più e mi piacerebbe che la struttura da me creata servisse per altri artisti come una piccola oasi dove possano dire la loro”. (Laura Budriesi) |