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RECENSIONE

Venere e Adone
di Valter Malosti
La Soffitta – Spettacolo del ciclo RI-SCUOTERE SHAKESPEARE: il Bardo e la giovane scena italiana.
Arena del Sole, 3 marzo 2009
Di Elena Cirioni

Venere innamorata e pazza, un giovane bellissimo ma indifferente alle sue avances. Ecco i protagonisti di questo poemetto pastorale, prima opera stampata e primo grande successo di Shakespeare, scritto nel 1593 su commissione del suo mecenate, l’efebico e giovanissimo conte di Southampton che, come testimoniano alcune fonti amava travestirsi da donna.

È proprio a partire da questo gusto dell’en-travesti che Valter Malosti compone la sua rivisitazione, scegliendo di raffigurare una dea dell’amore attempata, torbida, che ha abbandonato gli aurei veli botticelliani per indossare i panni di una tracotante maitresse felliniana, viva sulla scena, grottesca e ridicola nella sua ambigua figura, carnale come il suono del dialetto napoletano che cadenza i versi delle frasi d’amore folle, rivolte allo sventurato Adone.

I due protagonisti si muovono sulla scena sopra un macchinoso carrello d’acciaio che scandisce il movimento dei due amanti, tenendoli stretti l’uno all’altro come in una lotta sensuale e tragica allo stesso tempo. Contornata da una scenografia astratta ma nella sua essenza barocca e luccicante, orchestrata dalle musiche di Stockhausen, Armstrong e Cage, la fine tragica di Adone si compie.

Una rilettura scespiriana che ripercorre le strade proletarie dei Ragazzi di Vita di Pasolini e l’ambiguo umorismo popolare di Ruccello. Ma a caratterizzare maggiormente lo spettacolo è la maestria recitativa di Malosti, che impersona sia la voce del narratore, sia quella di Venere che quella di Adone, lasciandone al danzatore Daniele Trastu l’espressione del corpo, che arriva chiara e forte agli occhi degli spettatori. Il corpo di Adone, oltre ad essere l’oggetto del desiderio di questa scomposta Venere, diventa così anche il vero protagonista della scena. Un corpo perfetto, delicato, che Venere cattura, desidera e divora come una Menade feroce, e alla fine un corpo straziato dalla morte sul quale la dea piange.
L’epilogo esplode con tutta la sua trascinante energia, come la catastrofe nel teatro greco: una luce rossa invade la scena e il volto della “pazza dea dell’amore” si trasforma in una terribile maschera che grida la sua maledizione davanti al corpo di Adone ucciso dalle zanne del cinghiale. In questo grido di dolore la scenografia astratta prende vita, partecipa allo strazio di Venere, si illumina di luci colorate, sfavillanti, che sembrano invadere l’intera platea.

Le invenzioni fonetiche che Malosti utilizza magistralmente trascinano lo spettatore attraverso un Amore che si nutre del possesso come della tragica sottrazione, figurano una Venere incrinata, afflitta dal gioco straziante con il suo amore non corrisposto, che di immortale ha solo le regole che lo governano.

E. Cirioni

 
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