TEATRO DEI LIBRI |
Chiara Gualdoni, Nicola Bionda, La semplice grandezza. Giulia Lazzarini tra televisione, cinema e teatro, Titivillus, Corazzano (Pi), 2014, 240 pp.
Conoscevo la bella lettera di Strehler e ho letto il libro di Gualdoni e Bionda cercando una risposta a quelle domande, concentrando l’attenzione su quella relazione. Domande che hanno una valenza generale, volte a capire un’epoca teatrale in cui sono accadute molte cose su cui non si è riflettuto adeguatamente. Cosa possibile solo oggi, forse, alla luce di quello che abbiamo sotto gli occhi. La questione italiana del rapporto fra nascita tardiva della regia e tradizione dell’attore, fra mestiere e nuove condizioni, le torsioni prodotte dall’avvento del Nuovo Teatro. Direi che il caso di Giulia Lazzarini è esemplare per mostrare l’armonia possibile fra grandezza interpretativa e assunzione di responsabilità dell’attore, da un lato, e figura carismatica del regista nonché dell’autore, dall’altro.
Prendiamo ad esempio le pagine dedicate alle interpretazioni di Ariel nella Tempesta shakespeariana e della Winnie di Giorni felici (1978 e 1982). La visione che Strehler ha dei due personaggi è netta ma il lavoro per realizzarla, avendola fatta propria, è tutto dell’attrice. Strehler vede Ariel come una creatura disincarnata, magicamente in volo, in possesso però di un’interiorità molto vicina alla nostra parte oscura e a quella di Prospero e Calibano. L’Ariel di Giulia Lazzarini nasconde sotto i veli di garza leggera un’imbracatura strettissima, che protegge i suoi movimenti aerei mentre è agganciata a un cavo di acciaio. Durante le prove “litiga con il cavo in una sorta di identificazione di attore e personaggio”, ci si aggrappa con forza tale “da rimanere ferita alle mani”. Per quella via libera voce, voli, gesti, espressioni… insomma l’Ariel che vede il pubblico, che alla fine riconquista davvero la libertà. Allora, ricorda Renato Sarti, avveniva “lo sganciamento del cavo che partiva come un razzo verso l’alto, sfrecciava come una saetta per circa venti metri, tra le assi del graticcio, producendo uno schiocco che giungeva non si sa dove dall’alto, come un richiamo divino, violento e secco. La rottura. Un dolore lancinante. […] Poi, con l’aria smarrita, con quel suo saltellare lieve, Giulia percorreva tutto il corridoio centrale della platea” e se ne andava.
Nella messinscena beckettiana (la sua prima), Strehler copre il palcoscenico di sabbia bianca in cui Winnie lentamente sprofonda. Giulia Lazzarini è dentro la buca del suggeritore. “Non posso muovere un muscolo, sento di vivere un’esperienza, oltre che teatrale, di vita. Strehler ha gli occhi puntati su di me, e per la prima volta lo vedo in modo diverso, è come se entrambi lavorassimo sotto una lente d’ingrandimento”, racconta. “Qui non sei una sconfitta”, gli gridava il regista dal buio, mentre la sommergevano di sabbia fino alle orecchie: ”Ricordalo! Winnie […] combatterà come un leone”. “Se parli svelto – le diceva – ti senti viva; se non parli così muori immediatamente”. Franco Quadri ne ricava impressioni violente: “un virtuosismo tecnico che lascia gelidi, in contrasto con l’emozionante disponibilità della maschera facciale”. A Rita Cirio “quel grumo informe e urlante” alla fine ricorda i ritratti di Bacon. La sete di arte e di assoluto che animava i protagonisti della seconda avanguardia novecentesca guardava fuori del teatro, arrivando a odiare il teatro che si praticava per andare oltre. Qui c’è una sete per nulla inferiore ma si riversa tutta nella realizzazione di quello spettacolo, nel rapporto con quel testo, nel legame del regista con quegli attori, in relazione a un pubblico in larga misura anonimo. Ogni testo una scoperta, ogni spettacolo un’avventura totale, un amore del tutto particolare fra i compagni di ogni avventura. A proposito di Winnie Strehler usa l’espressione che ha ispirato il titolo del volume: “la tua semplice grandezza di interprete è sempre pura, è sempre limpida e ha sempre il segno della verità, della poesia, della forza e della delicatezza allo stesso tempo”. La docilità dell’attore di fronte al testo e al regista non impedisce affatto la creatività individuale: da quella ‘costrizione’ possono svilupparsi spazi apparentemente piccoli, in realtà decisivi, di autonomia. “Una spalla tenuta più alta dell’altra”, “una camminata rigida e quasi violenta, che davano, con un brivido, il senso del tempo passato e della solitudine acre di Virginia anziana del Galileo, contrapposta alla leggerezza dell’entrata di Virginia con il cannocchiale a Venezia nella giovinezza”. Così Strehler loda l’attrice, la sua discrezione tenace e la sua “sottigliezza”, che colpisce come una “punta di diamante”, scoprendo “nel quotidiano l’imprevedibile e nell’imprevedibile il quotidiano”. Facilità è “la parola più giusta per il pubblico, la più inesatta” per lei. L’immagine di Giulia Lazzarini (quello che un tempo si sarebbe chiamato ruolo, in relazione a sesso, età, tratti fisici, carattere) sembra tutta legata alla gentilezza, alla mitezza, alla serietà professionale. Le testimonianze sono univoche nel riconoscere le sue doti umane ma sulla scena l’immagine si apre alle metamorfosi, si colora in modi imprevedibili. Nel Faust strehleriano, già matura, è la giovanissima Margherita, l’Angoscia che assale Faust, la vecchia Bauci e la Poesia, oltre a riapparire come Ariel in una citazione della Tempesta. Nei Giganti della montagna torna a invecchiarsi per interpretare Sgricia: “dovevo indovinare la voce giusta, l’atteggiamento, la fisicità, la ‘maschera’ per essere credibile e, al contempo, lavorare sull’interiorità de personaggio”, dice. “Ma non crearti più problemi di quelli che occorrono, lascia sempre scorrere la tua sensibilità istrionica, la tua verità intuitiva”, le consigliava Strehler. E ancora: “attenta solo al sottotono. La tua finezza è il tuo agguato. Gasparina [nel Campiello] è viva, delicata sì, ma energica, piena di voglia, piena di curiosità. Non è Cechov, mai”. La prima parte del libro di Gualdoni e Bionda si interroga su “Chi è Giulia Lazzarini” componendo una sorta di glossario, il cui indice affianca fasi della carriera, nomi di artisti e voci generali (da “Applausi” a “Rinnovamento”). Lo avrei voluto più selettivo nel numero e talora più approfondito nella trattazione. Vi si legge tra l’altro delle sue esperienze prima di Strehler e dopo: come allieva del Centro Sperimentale di Cinematografia, alla televisione e alla radio, con Giulio Bosetti e la Compagnia dei Giovani e poi con Carlo Battistoni e Umberto Orsini, e in rapporto privilegiato con Natalia Ginzburg. Segue il capitolo dei “Personaggi”: una selezione di quindici, dalla Clarice di Arlecchino servitore di due padroni inaugurata nel 1955 (così importante per un teatro di repertorio!) alla brechtiana Madre Coraggio di Sarajevo del 1996. A conclusione del libro i “Ritratti di Giulia” proposti da colleghi: alcuni già pubblicati, altri scritti appositamente, presumo. Undici, tra cui quello di Strehler: pieni di spunti, talora sorprendenti come quello di Luisa Spinatelli, che “l’ha vestita” nelle grandi produzioni del Piccolo. Una delle immagini più belle di Giulia Lazzarini la fornisce Sandro Bolchi, il regista degli sceneggiati televisivi che l’hanno fatta amare da milioni di italiani. Parla della sua Fantine nei Miserabili (dove era anche Cosetta): "…ha buttato via quasi tutto, ma le è rimasto un refolo d’aria con cui fa volare le parole, da albero ad albero, da stanza a stanza, in un sillabario magico […]. E scalfisce più di un grido, perché ci rimanda alle memorie di un sottosuolo teatrale che credevamo smarrito”. Era cinquant’anni fa e Giulia ne aveva trenta. |