“Il dispositivo dell'eterodirezione” Intervista a Chiara Lagani e Francesca Mazza su West di Fanny & Alexander. (1) di Luca Di Tommaso [PDF]
LDT: Vorrei cominciare con il chiederti che cosa vuol dire per te lavorare a teatro sui segni, che cosa sono per te i segni teatrali ed in che modo ci lavori.
CL: Io non parlo mai di segni probabilmente perché intuisco per come usi tu la parola, ne intuisco il carattere molto tecnico, quindi non vorrei banalizzarla. Quello che posso dirti è che quando penso al mio lavoro, che è un lavoro drammaturgico, penso che qualunque questione della scena e qualunque sua manifestazione, dalle luci ai costumi alle parole, ovviamente, alla musica, all’impianto visivo ai gesti, tutto questo fa parte del testo. Io ho un’accezione molto allargata del testo, per me il testo non è l’apparato di parole, appunto, l’organizzazione verbale dei discorsi, la parte verbale dello spettacolo, diciamo. Penso che in West questo si tocchi con mano, perché il linguaggio di questo spettacolo è un linguaggio in cui le parole sono solamente uno dei molti ingredienti; è addirittura un linguaggio scomposto in maniera dicotomica, quasi esemplarmente, in gesti e parole, in questo caso, e quasi i gesti non hanno significato senza le parole e viceversa. Quindi, forse, per me “segno” è qualunque elemento che concorre a costruire il testo drammaturgico di una spettacolo.
LDT: Quindi tu intendi anche la parola “drammaturgia” in senso lato, come composizione delle azioni sceniche, e non soltanto, appunto, come testo verbale?
CL: Sì, composizione delle azioni sceniche. Anche la parola “azione”, allora, allarghiamola, smagliatura della smagliatura. E' un modo classico per me di intendere “drammaturgia”, quasi etimologico: la tessitura delle azioni. Per me l’azione è proprio qualunque accadimento fenomenico che avvenga sulla scena, anche una luce che si accende.
LDT: Colgo l’occasione per chiederti una cosa, visto che hai parlato di accadimento fenomenico... tu sai che “azione” è una parola che rimanda classicamente ad una coscienza che vuole agire e che decide secondo un libero arbitrio e con una certa lucidità di agire. Ma in West, in effetti, da questo punto di vista, di azione forse non si può parlare, nel senso che l’attrice, cioè colei che dovrebbe agire nel senso che ho detto, invece è mossa da altro...
CL: Allora direi che forse è una maniera più complicata del solito, del nostro solito modo di concepire questa parola, “azione”, ma non arriverei a dire che non si può usare, e arriverei a dire che come in tutto il lavoro sull’interpretazione, questa parola è implicata in un rapporto molto forte: la ricerca di un equilibrio costante col suo opposto, anzi non col suo opposto, ma con un suo complementare col quale è in relazione: come attivo e passivo si implicano complementarmente in maniera molto complicata, non esiste attività senza passività in questo spettacolo e i nostri laboratori si basano proprio esattamente su questo, su questa leva costituita dall’equilibrio di due forze concomitanti che concorrono a creare il significato e a dare ragione proprio allo statuto della presenza dell’attore sulla scena. Quindi io parlerei di “azione”, ma allargherei anche in questo caso il suo aspetto.
LDT: E tu credi che la presenza dell’attore in scena sia rafforzata da questo modo di recitare, diciamo di performare, di agire?
CL: Dunque, non lo so se sia rafforzata rispetto a un’idea di attore o di presenza attoriale di altro tipo o comunque generale. Sicuramente questo dispositivo, il dispositivo dell’eterodirezione, è un dispositivo molto particolare che mette l'attore in una condizione abbastanza inusuale e inconsueta e, probabilmente, io me ne sto accorgendo nei laboratori, questo dispositivo diventa un metodo molto forte per liberare da determinate costrizioni. Paradossalmente, perché è il massimo della costrizione... normalmente ci sono molte tecniche per liberare le persone dalle proprie gabbie, ognuno di noi ha delle gabbie, naturalmente... per massaggiare i nodi, le spigolosità delle persone, questo dispositivo mi facilita il compito immensamente, immediatamente toglie una serie di problematiche che invece magari passerei giorni e giorni a sciogliere. Mi sono chiesta perché questo accade... e anche la reazione dei ragazzi è stranissima, perché i ragazzi entrano in questo universo degli ordini e dell'azione-reazione a questi ordini, come se entrassero in qualche cosa… mi viene sempre in mente quello che dice Caillois della vertigine e il gioco…(2) ed è un gioco, sicuramente, un gioco molto serio che provoca la vertigine: in questo accade qualche cosa, come se scendessero dalla giostra quando finiscono di lavorare con gli auricolari. E mi domando perché... forse perché, ne parlavo con Luigi l'altro giorno (3), questo dispositivo enfatizza e acutizza quello che normalmente l'attore dovrebbe richiedere a se stesso, questa sorta di volontà, appunto. E invece, è accoglienza estrema dell'altro e dell'impulso esterno... è un medium l'attore, no? Quasi sempre, qualunque tecnica e qualunque poetica siano in gioco sulla scena. In questo caso è come se si schematizzasse la funzione di medium e non è vero che non c'è volizione… la volizione qui è tutta contenuta nel millimetrico, che poi è gigantesco, spazio di resistenza creativa che l'attore pone. Importante in questo lavoro è che l'attore inventi e reinventi continuamente il contenuto sentimentale di ogni parola e di ogni azione, quindi alla fine il senso è in mano sua. Altrimenti sarebbe una marionetta automatica, nel senso di una specie di robot; e invece, come puoi vedere, non hai per un attimo la sensazione del meccanismo, ma sempre dell'umano.
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