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Il teatro sotto la neve

La deriva iconografica e i limiti della rappresentazione in The Dead di Città di Ebla

[Silvia Mei] A B.Motion teatro (all’interno di Operaestate festival veneto) di Bassano del Grappa ha debuttato The Dead del collettivo forlivese Città di Ebla, che dopo l’abbozzo del 2010 per Romaeuropa Festival resetta tutto (o quasi tutto) e reinventa il medium: teatrale e fotografico.

Che lo scatto fotografico sia in qualche modo connesso alla morte, ne aveva reso conto con acume teorico Susan Sontag nell’aureo libretto Sulla fotografia (tr. it. 1978) - è del resto con lo stesso termine inglese “trigger” che si indica il grilletto (di armi da fuoco) e lo scatto dell’otturatore: “Come la macchina fotografica è una sublimazione della pistola, fotografare qualcuno è un omicidio sublimato”. E Roland Barthes in La camera chiara (tr. it. 1980) si spinse a rappresentare la “Fotografia” come “una micro-esperienza della morte (della parentesi): io divento veramente spettro”. È per di più noto come i primi atelier degli scrittori della luce fossero en plein air, cimiteriali set inondati di sole, riflesso dal lucore del bianco scenario.
Si è così agglutinato intorno a queste pratiche spettrali e mortifere tutto un immaginario ad uso e consumo della fantasia letteraria e cinematografica. Come non pensare all’algido Jude Law nel film Era mio padre (Sam Mendes, 2002), per un personaggio bianchiccio e viscido, Maguire The Reporter, che Barthes avrebbe a buon diritto appellato “agente della morte”: un sicario della mafia di Chicago con l’orrida perversione di immortalare le proprie vittime appena colpite e spiranti, cioè nell’attimo in cui la morte si imprime sul loro volto.

Ora, la relazione tra teatro e fotografia è quantomeno paradossale in ragione delle qualità intrinseche alle due arti: se la fotografia congela il tempo, è uno “specchio del passato” (Proust) e uno strumento di conservazione della memoria, il teatro è il regno dell’effimero, della smaterializzazione, della dissipazione e dispersione dell’immagine e dei contenuti che mette in forma sulla scena. Come far convergere delle modalità così diverse di re-invenzione della realtà? Non si tratta di affrontare l’annoso dibattito sulla fotografia teatrale e le sue estetiche/pratiche. Si tratta di sciogliere nella scrittura scenica il paradosso dei due linguaggi. Una brillante proposta è la trilogia Motel del gruppo nanou, che ha lavorato, a partire dal 2008 fino al recente Anticamera, sulla fotografia figurativa atlantica e continentale calata nel filtro della spy story, del thriller-giallo-noir con assenza di trama (il soggetto è deposto in quanto non identificabile): qui la danza è motore di situazioni e atmosfere, e la drammaturgia, dal taglio cinematografico, è affidata alla sparizione di oggetti, corpi e pezzi di corpi celati da un fashion design.


Città di Ebla propone invece un’operazione diversamente complessa che, dopo un primo studio per Romaeuropa Festival, giunge ad una second edition di The Dead, liberamente ispirato a I morti di James Joyce, racconto conclusivo della raccolta Dubliners (1914), e in continuità col progetto scenico-letterario avviato dal collettivo con Metamorfosi (da Franz Kafka) nel 2009. Intertestualmente non mancano tra l’altro consonanze estetiche e strutturali di The Dead con l’allestimento del romanzo breve kafkiano, a partire dalla texture e qualità dell’immagine, con un taglio fortemente cinematografico (pensiamo al poliedrico bagno di Samsa collocato di sbieco, alla Tintoretto), esplorando un’inedita soluzione dei rapporti tra le due arti apparentemente in conflitto: cinema e teatro. La riflessione sulle forme della fabula e dell’intreccio affrontate liberamente da Ebla nelle scelte di cadrage, piano, obiettivo, taglio, aprono nuove modalità di enunciazione visiva per quello che ho altrove definito “teatro iconografico” o teatro della visione: “la visione è il darsi dell’immagine, il suo non ancora, la cui funzione di completamento e comprensione è rilanciata al fruitore” (cfr. catalogo della stagione La Soffitta 2011)

The Dead, nell’ideazione di Claudio Angelini, depensa la tranquilla storia familiare di Gabriel e Gretta la quale, di ritorno dall’annuale ballo natalizio in casa delle zie, vive l’irruzione imprevista e lacerante dei ricordi e dei fantasmi del passato che risignificano la “monotona” vita matrimoniale dei due congiunti: “Adesso non lo angustiava quasi più pensare quale misera parte aveva avuto lui, il marito, nella sua esistenza. La osservò mentre dormiva come se non avessero mai vissuto insieme, da marito e moglie”. Il progetto scenico non vuole, come anche è stato per l’adattamento kafkiano, una sterile illustrazione della vicenda perfettamente svolta da Joyce, tantomeno questi funge da mera ispirazione per la scena. Al contrario, il lavoro declina l’iconografia linguistica del testo, usato come uno spazio letterario, selezionando tracce e scarti di parole per la ricomposizione scenica: le lampade a gas, note per luce fredda che genera spettrali effetti sugli oggetti, le ombre che celano i volti e appaiono sotto i lampioni, l’ambientazione borghese di una middle class intellettuale e impegnata diventano nello stage curato dalla minuziosa Elisa Gandini - ideatrice anche del bagno in vitro di Metamorfosi, la scatola della trasformazione di Alessandro Bedosti/Gregorio Samsa - una camera da letto con dettagli neoromantici, compresa la specchiera a oscillazione di Gretta e un manichino belle époque. Ad abitarla è la performer Valentina Bravetti, un’ombra fra le ombre per la sua speciale silhouette, che come una figurina di Folon sfila abiti, fuma sigarette e beve un calice di vino su una selezione di songs da Janin Joplin. È una scena profonda e ampia filtrata da una quarta parete dove sembrano disegnarsi i contorni di un teatro delle ombre, quasi in negativo: di quel décor e della figura femminile che vi agisce vediamo un controluce, contorni neri, vuoti bianchi, trasparenze in gradazione di grigio sullo sfondo di un bagliore progressivamente iridale.
Poi, l’irruzione del passato: una foto trovata per caso sotto il letto e un fermo immagine, un congelamento in posa, su cui la musica diegetica della Joplin viene inghiottita da un sibilo metallico che si stempera nella grana sonora – un “cecchinaggio” melodico non esente da autocannibalismo - di Davide Fabbri/Elicheinfunzione. Inizia la seconda parte, oserei dire astratta, in paragone all’ipernaturalismo umbratile della premessa. Ora, quell’atelier così apertamente disposto, realisticamente visibile nel taglio frontale di prima, scompare, diventa o-sceno: allo sguardo voyeuristico del pubblico si sostituisce quello di un terzo incomodo - un fantasma, un morboso spione, un narratore senza volto dallo sguardo attrezzatissimo di Laura Arlotti, finissima e sensibile fotografa teatrale, che diventa il secondo agente in scena. Con la sua Nikon, dotata di silenziatore, inizia una doppia operazione di (s)montaggio e colorazione: alla visione intera della scena e dell’azione, si sostituiscono, proiettati sul velario-diaframma, gli scatti real time dell’Arlotti che scompone l’evoluzione scenica, nascosta al pubblico, nei dettagli e nelle messe a fuoco della partitura della performer, restituendo finalmente un colore alla realtà scenica. La fotografa, di cui si apprende la presenza solo agli applausi, è l’ocularità su cui scorre il dramma del ricordo della giovane donna e che marca il ritmo nella successione di indizi visivi: così come una scena del crimine è documentata dagli scatti del reporter.

In questa direzione, quella della scena criminale e della “realtà superstite” che essa deposita, si colloca il lavoro concettuale di Citta di Ebla, che espone la rappresentazione ad un superamento nella forma proposta dalla studiosa Francesca Gasparini (cfr. “Culture Teatrali”, n. 18, primavera 2008) di “iper-rappresentazione o rappresentazione metafisica”, ovvero “forme di rappresentazione potenziata o al contrario rarefatta che mettono in campo la realtà bruta […], come fatto spettacolare che non racconta il reale ma un’assenza”. Si domanda appunto Gasparini: “Che cosa diventano gli oggetti personali, i luoghi del vissuto nel momento in cui cade su di loro la maschera della morte, quando non possono più essere distinti dalle macchie e dai segni che la morte ha lasciato su di essi, quando, allo sguardo di uno spettatore esterno sono tutti pezzi di una realtà superstite?”.

Ed è con una morte, quella di J.F. Kennedy, che si apre uno degli scritti meno citati di Pier Paolo Pasolini, Osservazioni sul piano-sequenza (1967, ora in Empirismo eretico), che può funzionare da barra teorica e da cartina di tornasole per l’operazione di Città di Ebla. La visione di Pasolini è in certo qual modo antitetica alla soluzione disgregante di Gasparini, nella misura in cui per il critico e cineasta è solo la morte, redentrice, a restituire senso alla vita, un lungo infinito piano sequenza interpretato a posteriori dal montaggio. Partire dalla morte del presidente d’America - uno shock visivo per la diffusione live di una sorta di snuff movie – vale soprattutto per fare considerazioni politiche (più avanti il riferimento è a Lenin) calate in una metafisica del linguaggio e del tempo: la realtà accade nel presente, è sempre al tempo presente, così come il piano-sequenza è una soggettiva che riproduce la realtà vista e udita nel suo accadere (che in The Dead è la prima parte naturalistica, visivamente frontale e narrativamente lineare). I piani sequenza di una certa realtà sono tanti quante le soggettive, continua Pasolini, cioè i punti di vista che la registrano mentre si esprime (nello spettacolo in questione gli sguardi delle singolarità del pubblico diversamente collocato in sala). Ora, la coordinazione dei diversi punti di vista, il montaggio, trasforma il presente in passato (il montaggio dei diversi sguardi dell’Arlotti proiettati sul velario): “In seguito al lavoro di scelta e coordinazione, i vari angoli visuali si dissolverebbero, e la soggettività, esistenziale, cederebbe il posto all’oggettività: […] al loro posto ci sarebbe un narratore. Questo narratore trasforma il presente in passato”. Per arrivare a concludere: “Allora qui devo dire che cosa io penso della morte (e lascio liberi i lettori di chiedersi, scettici, che cosa c’entri questo col cinema). […] L’uomo si esprime soprattutto con la sua azione […] perché è con essa che modifica la realtà e incide nello spirito. Ma questa sua azione umana manca di unità, ossia di senso, finché essa non è compiuta. […] finché siamo vivi, manchiamo di senso, e il linguaggio della nostra vita […] è intraducibile: un caos di possibilità, una ricerca di relazioni e di significati senza soluzione di continuità. […] Solo grazie alla morte, la nostra vita ci serve ad esprimerci”.

Cos’è dunque The Dead: il caos della vita e la compiutezza data dalla morte; oppure è il lenzuolo bianco, una veronica, sui corpi assassinati, i contorni-simulacri di oggetti asportati da una scena del crimine dove la morte ha seminato scompiglio in un’esistenza ordinata e limpida?
Joyce ci risponde, a suo modo: “C’era neve dappertutto in Irlanda. Cadeva ovunque […]. E la sua anima gli svanì adagio adagio nel sonno mentre udiva la neve cadere lieve sull’universo, inesorabilmente lieve cadere, come la discesa della loro estrema fine, sui vivi e sui morti”.

 
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