Il teatro sotto la neve |
La deriva iconografica e i limiti della rappresentazione in The Dead di Città di Ebla [Silvia Mei] A B.Motion teatro (all’interno di Operaestate festival veneto) di Bassano del Grappa ha debuttato The Dead del collettivo forlivese Città di Ebla, che dopo l’abbozzo del 2010 per Romaeuropa Festival resetta tutto (o quasi tutto) e reinventa il medium: teatrale e fotografico. Città di Ebla propone invece un’operazione diversamente complessa che, dopo un primo studio per Romaeuropa Festival, giunge ad una second edition di The Dead, liberamente ispirato a I morti di James Joyce, racconto conclusivo della raccolta Dubliners (1914), e in continuità col progetto scenico-letterario avviato dal collettivo con Metamorfosi (da Franz Kafka) nel 2009. Intertestualmente non mancano tra l’altro consonanze estetiche e strutturali di The Dead con l’allestimento del romanzo breve kafkiano, a partire dalla texture e qualità dell’immagine, con un taglio fortemente cinematografico (pensiamo al poliedrico bagno di Samsa collocato di sbieco, alla Tintoretto), esplorando un’inedita soluzione dei rapporti tra le due arti apparentemente in conflitto: cinema e teatro. La riflessione sulle forme della fabula e dell’intreccio affrontate liberamente da Ebla nelle scelte di cadrage, piano, obiettivo, taglio, aprono nuove modalità di enunciazione visiva per quello che ho altrove definito “teatro iconografico” o teatro della visione: “la visione è il darsi dell’immagine, il suo non ancora, la cui funzione di completamento e comprensione è rilanciata al fruitore” (cfr. catalogo della stagione La Soffitta 2011)
The Dead, nell’ideazione di Claudio Angelini, depensa la tranquilla storia familiare di Gabriel e Gretta la quale, di ritorno dall’annuale ballo natalizio in casa delle zie, vive l’irruzione imprevista e lacerante dei ricordi e dei fantasmi del passato che risignificano la “monotona” vita matrimoniale dei due congiunti: “Adesso non lo angustiava quasi più pensare quale misera parte aveva avuto lui, il marito, nella sua esistenza. La osservò mentre dormiva come se non avessero mai vissuto insieme, da marito e moglie”. Il progetto scenico non vuole, come anche è stato per l’adattamento kafkiano, una sterile illustrazione della vicenda perfettamente svolta da Joyce, tantomeno questi funge da mera ispirazione per la scena. Al contrario, il lavoro declina l’iconografia linguistica del testo, usato come uno spazio letterario, selezionando tracce e scarti di parole per la ricomposizione scenica: le lampade a gas, note per luce fredda che genera spettrali effetti sugli oggetti, le ombre che celano i volti e appaiono sotto i lampioni, l’ambientazione borghese di una middle class intellettuale e impegnata diventano nello stage curato dalla minuziosa Elisa Gandini - ideatrice anche del bagno in vitro di Metamorfosi, la scatola della trasformazione di Alessandro Bedosti/Gregorio Samsa - una camera da letto con dettagli neoromantici, compresa la specchiera a oscillazione di Gretta e un manichino belle époque. Ad abitarla è la performer Valentina Bravetti, un’ombra fra le ombre per la sua speciale silhouette, che come una figurina di Folon sfila abiti, fuma sigarette e beve un calice di vino su una selezione di songs da Janin Joplin. È una scena profonda e ampia filtrata da una quarta parete dove sembrano disegnarsi i contorni di un teatro delle ombre, quasi in negativo: di quel décor e della figura femminile che vi agisce vediamo un controluce, contorni neri, vuoti bianchi, trasparenze in gradazione di grigio sullo sfondo di un bagliore progressivamente iridale. Ed è con una morte, quella di J.F. Kennedy, che si apre uno degli scritti meno citati di Pier Paolo Pasolini, Osservazioni sul piano-sequenza (1967, ora in Empirismo eretico), che può funzionare da barra teorica e da cartina di tornasole per l’operazione di Città di Ebla. La visione di Pasolini è in certo qual modo antitetica alla soluzione disgregante di Gasparini, nella misura in cui per il critico e cineasta è solo la morte, redentrice, a restituire senso alla vita, un lungo infinito piano sequenza interpretato a posteriori dal montaggio. Partire dalla morte del presidente d’America - uno shock visivo per la diffusione live di una sorta di snuff movie – vale soprattutto per fare considerazioni politiche (più avanti il riferimento è a Lenin) calate in una metafisica del linguaggio e del tempo: la realtà accade nel presente, è sempre al tempo presente, così come il piano-sequenza è una soggettiva che riproduce la realtà vista e udita nel suo accadere (che in The Dead è la prima parte naturalistica, visivamente frontale e narrativamente lineare). I piani sequenza di una certa realtà sono tanti quante le soggettive, continua Pasolini, cioè i punti di vista che la registrano mentre si esprime (nello spettacolo in questione gli sguardi delle singolarità del pubblico diversamente collocato in sala). Ora, la coordinazione dei diversi punti di vista, il montaggio, trasforma il presente in passato (il montaggio dei diversi sguardi dell’Arlotti proiettati sul velario): “In seguito al lavoro di scelta e coordinazione, i vari angoli visuali si dissolverebbero, e la soggettività, esistenziale, cederebbe il posto all’oggettività: […] al loro posto ci sarebbe un narratore. Questo narratore trasforma il presente in passato”. Per arrivare a concludere: “Allora qui devo dire che cosa io penso della morte (e lascio liberi i lettori di chiedersi, scettici, che cosa c’entri questo col cinema). […] L’uomo si esprime soprattutto con la sua azione […] perché è con essa che modifica la realtà e incide nello spirito. Ma questa sua azione umana manca di unità, ossia di senso, finché essa non è compiuta. […] finché siamo vivi, manchiamo di senso, e il linguaggio della nostra vita […] è intraducibile: un caos di possibilità, una ricerca di relazioni e di significati senza soluzione di continuità. […] Solo grazie alla morte, la nostra vita ci serve ad esprimerci”. |