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Teatro delle lingue

Regionalismi teatrali 2 (la riscossa del Sud)

[ Silvia Mei ] In queste stesse pagine abbiamo poco tempo fa riferito della varietà e del fervore della scena veneta, produttivamente e organizzativamente. Il 9 marzo scorso si è aperto un progetto con spettacoli e momenti di approfondimento sotto gli auspici della Fondazione Venezia, organo di riferimento per il teatro nella laguna, con Giovani a teatro-Esperienze, organizzazione Euterpe Venezia, per la stagione 2010-11 (www.esperienze-giovaniateatro.it/il-teatro-delle-lingue). La rassegna ha un titolo che, per chi mastica di teatro, è particolarmente evocativo e gravido del senso della presente scena italiana: Il teatro delle lingue. Ovvero una solitudine molto rumorosa, a cura di Paolo Puppa, docente all’Università Ca’ Foscari, di cui sul tema ricordiamo il bel libro-censimento La voce solitaria (Bulzoni, Roma 2010).
È la tematica del solo di cogente attualità nello studio e nel pensiero delle arti performative, presso La Soffitta infatti, cartellone dell’Università di Bologna-Dipartimento di Musica e Spettacolo, nella direzione scientifica di Marco De Marinis, sono stati ospitati diversi progetti sull’oggetto storico-teorico del solo, a partire dalla danza, dove il fenomeno si fa significativamente eclatante. Del resto è un caso italiano, con radici storiche profonde (si pensi al fenomeno del Grande Attore), quello della solitudine scenica, dalla creazione alla performance vera e propria, incentivato da un sistema economico e da formule di circuitazione degli spettacoli lungo lo stivale, che richiedono agilità e freschezza (ma, soprattutto, bassi compensi). Oltralpe la situazione è molto diversa e il protagonismo del “mattatore” italiano è contrappuntato da un afflato corale (Chortheater), coltivato in secoli di tradizioni nazionali unitarie.

Nel ricco progetto di Paolo Puppa, tuttavia, alle dinamiche del solo e della performance solistica (sempre sul tema ricordo il volume a cura di Nicola Pasqualicchio, L’attore solista nel teatro italiano, Bulzoni, Roma 2006) si salda il dato linguistico, non in senso lato, formal-strutturalista, ma in senso stretto e più empirico, cioè riguardante l’uso e la presenza del dialetto. Anche questo aspetto è stato negli ultimi anni oggetto di acute riflessioni e riscoperte, legate soprattutto alla drammaturgia suditalica e siciliana, che ha visto in Emma Dante e la sua compagnia Sud Costa Occidentale un momento di investigazione privilegiato (per non essere troppo pedanti, ci limitiamo a menzionare soltanto il volume, che affronta sistematicamente la questione, di Anna Barsotti, La lingua teatrale di Emma Dante, EDT, Pisa 2009). Il Sud si offre teatralmente come una specola privilegiata sul fenomeno attorale e il gradiente dialettale, e da sempre è stato un granaio di talenti e di personalità, in particolare la Puglia, protagonista di questo progetto veneziano, insieme agli Abruzzi e al Lazio. Basterebbe infatti fare due nomi, di illustre solennità: Eugenio Barba, emigrato al Nord (quello vero della pungente Danimarca) e Carmelo Bene, nome che scuote ancora le pareti alla sola pronuncia, tanto che si preferisce evocarlo con le sole iniziali CB.
Sono pugliesi, uno di Brindisi l’altro di Bari, Oscar De Summa, che apre il progetto con lo storico Diario di provincia, e Roberto Corradino/Reggimento Carri con Conferenza-Nudo e in semplice anarchia dal Riccardo II di Shakespeare (2006). Diversissimi, nell’appeal scenico e nel background di formazione, ma talentuosi giovani, nati negli anni Settanta con buoni studi universitari alle spalle. Artisti colti e soprattutto self made performer. È questo l’ulteriore asse che interseca i due precedenti e di cui il curatore Paolo Puppa ha cercato di render conto nella monografia succitata (in sinergia alla raccolta di testi curata da Debora Pietrobono, Senza corpo, Minimun Fax, Roma 2009).

Oscar De Summa non dovrebbe ormai necessitare di presentazioni: attore-autore, regista e interprete scespiriano per eccellenza, ormai ha passato in rassegna quasi tutta l’opera del Gran Will che conosce meglio di uno specialista (www.oscardesumma.it). Il suo Riccardo III è una perla rara: infeltrito nella pelliccia barbarica, sul nodoso bastone del re freak, De Summa rivela poi un corpo statuario, bronzeo concedendoci (e concedendosi) un quasi nudo finale. E poi l’attraversamento del teatro elisabettiano con Massimiliano Civica, prima col Mercante poi col Sogno, dove si fa pura voce e figura. Per arrivare ad Amleto a pranzo e a cena, sua la regia, prodotto dall’ERT, con una scorribanda di attori fantastici, che fa dimenticare quelle migliaia di metri di pellicola hollywoodiana che ammorbano spirito e corpo. Diario di provincia segna le origini di De Summa attore-autore, regista di se stesso, quando, emigrato da un paese del profondo Sud, arriva nella metropoli bolognese, qui comincia la gavetta teatrale fuori dal teatro, in ristoranti e locande dove cucina il sacro col profano per un teatro da gustare, serenamente. La sua formazione affonda nel teatro italiano d’attore con riferimenti in Claudio Morganti e Alfonso Santagata, cui si affianca lo studio della Commedia con Eugenio Fava, calabrese di stanza a Reggio Emilia. E il registro corporeo da Zanni affiora pulsante nella scrittura scenica, con guizzi espressivi e intarsi briosi irrefrenabili. La caricatura, la macchietta di personaggi da Bar Sport come Jecky il vigile senza timore, nella tripletta al crocicchio di paese con Poldino e Ciccillo, oppure il General Minguzzo, Donato Lavatopo, Gregorio Cucunaro, il brillo del borgo, e l’epico Angelino Sclerotico, detto Sette anelli, di professione barbiere, maestro di vita oltre che di bottega del giovane Oscar, qui apprendista lavacapelli. De Summa passa in rassegna in quattro quadri, nudo e crudo, senza tanti orpelli, la vita morta e sempre uguale di Erchie, suo borgo natio, città medievale, provincia di Brindisi, comune d’Europa: Benvenuti e Arrivederci. Non è difficile da intuire, il paese non offre grandi possibilità, il divertimento è spietato e si basa su principi disumani. Erchie, dal mito di Ercole, suo simbolo, manca di umanità, abitata solo da maschere, personaggi o sagome cui De Summa restituisce la plastica negli schizzi corporei e nel concentrato linguistico dialettale, che si diverte a tradurre nella prosopopea poetica dell’italiano cortese. La Puglia che ci racconta il nostro, con punte liriche e finale caravaggesco con la morte impavida ed eroica di Pompeo Salvatore, compagno di merende, sparato in fronte da bravi locali, ci aiuta a comprendere tra l’altro gli atroci fatti di Avetrana, la violenza sotterranea, il senso dell’onore, le dinamiche relazionali di un microcosmo perverso. Rimane alla fine la curiosità di vedere realmente De Summa in calzamaglia da Ape Maia, anfibi, gilet leopardato e cresta verde, come ci racconta, in un giorno memorabile per la comunità erchiese.

Metalinguistico, caratteristica del solipsismo italiano da Petrolini in avanti, graffiante, ironico, rutilante, è Roberto Corradino (www.reggimentocarri.org), attore solista, protagonista assoluto, in una scena spartana che mette in stato di rappresentazione il pensiero teatrale senza rinunciare all’attore e al suo essere scenico (versus tanta scena concettuale che imperversa nei nostri cartelloni). Giusta combinazione tra filosofia e presenza attorica per il Riccardo II di Shakespeare di cui Corradino fa il ritratto. Ormai acquisito che il drammaturgo inglese può essere solo riscritto, smembrato, tagliato, Corradino alterna finzione a finzione nei due livelli della conferenza sul Riccardo II e nell’exemplum (parodico) del re deposto, un re filosofo, il cui prendere tempo, linguisticamente, prima dell’incoronazione dell’erede Enrico Bolingbroke, permette di affrontare discettazioni lacaniane sull’arte come horror vacui, decorazione intorno al vuoto e sul vuoto, forse anche fatta di vuoto, riempimento di un tempo infinito che produce terrore. Il Riccardo II di Corradino fa il verso a molto snobismo intellettuale italiano, a partire da una sinistra politica dalla “r” fessa: ricorda molto Philippe Daverio della rubrica d’arte di RAI3 Passpartout e le sue conversazioni dotte in veranda intorno ai massimi sistemi della storia dell’arte, e di cui il geniale Gene Gnocchi aveva proposto anni fa un’indimenticabile parodia televisiva. Corradino prende tempo, lo dichiara apertamente, perché il senso del Riccardo II riposa nell’interruzione discorsiva del re, prima della morte nell’atto V, per mano del secondino di turno. Allora il monologo, la tirata dotta, diventa un maelström collagistico di citazioni filosofiche delegittimate, ma organizzate nel senso che veicolano, depensate, alla Bene - maestro elettivo del giovane Roberto (classe 1975) con Mimmo Cuticchio, Pippo Delbono, Marco Martinelli - ma di un depensamento logico. Il crocifisso nel bicchiere del conferenziere, come uno spazzolino da denti, la sporcatura acustica, come quella realistica di un oratore ad un convegno, l’insupponenza del relatore ex cathedra, la spacconeria del tono su tono della divisa in scuro e del rumore dei tacchi commentano la vanità di chi sta in scena o di chi si mette in scena, sia davanti che dietro al tavolo. Alla fine il re muore, deve morire ma l’attore-autore non concede nulla al registro aulico della morte regale sul Quando corpus morietur dell’icona pop Mina (l’album, che consigliamo spassionatamente, è Dalla terra, del 2000), e si prolunga in una rottura della simulazione: “Non se pò morì così”.

Un attore esausto, una recitazione senza fronzoli, non partecipata, una scena sopravvissuta. È Angelica di Andrea Cosentino, monologo del 2005 dedicato a Pier Paolo Pasolini, che racconta di una commissione romana e ne approfitta per fare (auto)analisi teatrale: una vertigine di citazioni stilistiche, da Ascanio Celestini, basso ostinato cui si adegua il registro del solo, Dario Fo, pur nella ricercata fiacca fisica del nostro, e poi Paolo Poli, per lo scenografo della soap nella casa popolare della nonna (vagamente all’Antonio Rezza), suo alterego, voce disinibita dei pensieri che l’attore non vuole confessare. Cosentino parte, ma lo esplicita sono a metà spettacolo, dal saggio di Pasolini, Osservazioni sul piano sequenza, per ragionare a voce alta sulla critica selettiva determinata dal montaggio nella costruzione di una (anzi, della) storia. Il tempo presente della vita (vuota e insignificante), che sono i nostri reality, diventa visione acritica di un tempo che non si coniuga mai al passato senza la pratica del taglio, senza l’esercizio del giudizio. È in questa direzione che si fa il verso alle soap-opere televisive e al flusso acritico e continuo della televisione, alla banalità delle inquadrature, al montaggio come espediente atto piuttosto a nascondere un’inabilità attorica o una carenza d’allestimento. E la bruciante parodia delle telenovela, cui tutta la sua generazione è impotentemente cresciuta, rievoca Antò le Momò (2000), filtrato nella figura della starlette Angelica e della sua morte da inetta protagonista, Desdemona dei nostri giorni, come commenta la voce di Modugno dell’episodio pasoliniano Che cosa sono le nuvole?. In chiusura il Papa - Wojtila naturalmente - che sarebbe morto pochi mesi dopo la creazione del solo, nell’avatar di una marionetta: si affaccia sui nostri schermi e perde il foglio col discorso stampato, non sapendo allora più che cosa dire improvvisa un saluto, impotente.

Prossimi appuntamenti: Briganti, del pirotecnico Gianfranco Berardi, Otello, alzati e cammina di
Gaetano Ventriglia e, in chiusura, Daniele Timpano con Dux in scatola.

 
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